Circa un anno fa, durante un incontro al Nest di San Giovanni a Teduccio dopo parecchi anni di assenza dai teatri napoletani, Antonio Latella, a proposito della sua versione del Natale in casa Cupiello, disse: «I napoletani si sentono tutti figli di Eduardo, tutti eredi di Eduardo, tutti in grado di poter parlare per Eduardo. Io non mi sento nulla di tutto questo, ho trattato Eduardo come fosse Shakespeare, ho preso una mia posizione. […] Credo che, per poter essere veramente eredi – e questo non lo dico io, lo dicono i filosofi –, bisogna essere in grado di essere orfani; solo nel momento in cui sei orfano puoi prendere un’eredità. L’eredità non è una cosa che devi sperperare, l’eredità è la possibilità di continuare, di permettere che altri e altri ancora avranno un’eredità. Solo se sei orfano puoi pensare a un’eredità in modo altruistico e non egoistico. Io non sono l’erede di Eduardo, assolutamente; forse, però, un po’ orfano lo sono. E questo mi permette di avere un coraggio che forse quelli che dicono di essere eredi non hanno…» .
Lo spettacolo in questione, che aveva debuttato a Roma con non poche polemiche, a Napoli non era ancora arrivato. Ci sono voluti due anni perché lo Stabile lo programmasse in cartellone al San Ferdinando, dov’è in scena fino a domenica 27 novembre. Come tutte le regie di Latella, si tratta di un lavoro impegnativo, per chi lo fa e per chi vi assiste. È un esercizio di regia pura che mette in luce la grande macchina testuale di Eduardo, così come si potrebbe fare con Checov, Beckett o Shakespeare. Nulla è stato fatto dalla drammaturga Linda Dalisi con il copione (anche per motivi di diritti d’autore) se non inverarlo, seguirne le indicazioni – semiotiche e della messa in scena – fino in fondo. Anche per questo, si tratta di un adattamento più che fedele al teatro di Eduardo che fa ampiamente la differenza con le raffinate operazioni a tavolino, di compromesso tra innovazione e tradizione, che tanto piacciono al grande pubblico quanto snaturano fin nel midollo la scrittura eduardiana, a cominciare dalla Lingua (una su tutte, Le voci di dentro con le regia di Toni Servillo).
La scena si apre con gli attori – tra i migliori della fucina napoletana di Latella – in schiera sul proscenio. Palco vuoto. Tutti in nero, tranne Luca (Francesco Manetti) al centro della schiera, in giacca e bastone; tra gli altri, alcuni en travestì, belli e perturbanti. Mascherina sugli occhi e un’enorme cometa di crisantemi gialli che incombe sulle loro teste, come un’ingombrante epifania. Recitano in coro tutte, ma proprio tutte le didascalie, inclusi gli accenti gravi o circonflessi presenti in alcuni copioni dell’opera, come una gabbia: una coazione a ripetere, scandita da Luca/paterfamilias fuori tempo/regista dentro la scena che batte tocchi sordi sul palco col suo bastone. I personaggi si palesano uno a uno, sfilandosi la maschera e dicendo battute e didascalie (questa volta in prima persona). La recitazione è nervosa e precisa come le poche note di piano di sottofondo, sempre le stesse, quasi fastidiose. I caratteri letteralmente debordano dalla schiera, uno più vivo dell’altro. Le feste comandate, la zuppa di latte, il caffè. Nennillo (Lino Musella) che vorrebbe fuggire ma non può perché non ha un lavoro. Concetta (Monica Piseddu) perno mobile, silente, porta addosso il peso della famiglia, di questo allestimento posticcio di statuine perfette fuori che si sgretolano da dentro, come Ninuccia (Valentina Acca) che ha sposato l’uomo “positivo” e potente (Francesco Villano) ma è innamorata di un altro (Giuseppe Lanino). Siamo noi, questi. Casa Cupiello siamo noi. Nel 1931 come nel 2016. Man mano che il copione procede questo grumo nero interiore si gonfia, s’intosta e fa male, fino alla distruzione del presepe da parte di Ninuccia che innesca un corto circuito scenico e drammaturgico. Su incursioni sonore e meta teatrali della voce di Eduardo – “Mo miettete a fa ‘o presebbio n’ata vota” – la cometa viene fatta scomparire, e sulla scena nera fa capolino un grande carro con i vetri trasparenti: straniante, bellissimo. Qui Luca si rinchiude a trascrivere le didascalie della sua opera come un folle, mentre gli altri, sparpagliati questa volta su tutta la scena, gradualmente prendono sembianze animali, caricandosi sulle spalle splendidi pupazzi a grandezza naturale di fiori, foglie, musi e zoccoli di pecore, maiali, galline. Il palco è un presepe vivente, orchestrato da un corega anacronistico che guarda il mondo attraverso i vetri trasparenti della sua casa/opera. Ma il peso dell’opera lo porta Concetta, scarna e umanissima Madre Courage che metaforicamente trascina il carro col marito e tutti gli animali, nel silenzio di una sottile luce gialla. Presepe napoletano, tra Brecht, Caravaggio e Vermeer. Quest’astrazione e de-costruzione altro non fa che scandagliare, farci letteralmente sbattere contro Eduardo, come nella scena del sensualissimo, quasi violento valzer di baci di Ninuccia contesa da suo marito Nicola e l’amante Vittorio.
L’apertura del secondo atto è fulminante. La cometa incombe. In proscenio c’è una mangiatoia e dentro c’è Luca, padre/bambino in fasce: morente. I personaggi tutt’intorno ora sono prefiche cantanti con lunghe e vesti scure tranne il medico, il portiere e Nennillo che sta davanti al padre, seduto a terra, in tuta, umanamente distrutto. La fine è impellente. Liberatoria. Necessaria. Nennillo inganna Luca: sì, gli piace il presepe, gli piace. Poi prende un cuscino e lo soffoca. Nella versione originale a questo punto entravano sul palco un bue e un asinello veri, ma per questioni logistiche al San Ferdinando tutto si è concluso con l’arrivo di due bimbi riccioluti che recavano due pupazzi animali. Un finale straniante, onirico ma tesissimo, che Lino Musella – assieme a Monica Piseddu, cardine emotivo di quest’adattamento, in mezzo a un gruppo di attori (la gran parte giovani) straordinari – ci affida come una profezia.
Ora, se vogliamo considerare il lavoro anche solo dal punto di vista della messa in scena, va detto che la quantità e la qualità di visioni e pulsioni che esso produce è tale che si potrebbe parlare solo di questo. Latella è un regista sopraffino, i suoi spettacoli sono allestimenti di arte contemporanea; possono piacere o non piacere ma sottendono una profonda ricerca e sperimentazione, sia dal punto di vista concettuale che estetico. L’aspetto più interessante di quest’allestimento e del suo andare in scena (non solo a Napoli) riguarda però anche la sua ricezione. A Roma fece scalpore, con gente in sala che, al momento del soffocamento di Luca, gridava “vergogna”. Al San Ferdinando, teatro non assolutamente neutro, (almeno nel momento in cui scrivo) non si sono verificati episodi simili, anche se non sono mancati mormorii in sala e defezioni. Il pubblico napoletano – sicuramente più esigente e forse più affettivamente legato a Eduardo e in particolare a Natale in casa Cupiello – anche a detta degli attori dimostra meno bigottismo e una certa disponibilità a farsi conquistare. Poco contano i bofonchiatori della prima fila o i pareri sterili della critica della carta stampata, che in alcuni casi ha bollato questo spettacolo come “vagamente presuntuoso e tutt’intento a cercare di inventare qualcosa di nuovo e/o non detto adoperando una drammaturgia di riferimento importante come quella di Eduardo De Filippo” (Giulio Baffi, Repubblica Napoli, 17 novembre).
Dall’altra parte c’è un pubblico giovane e trasversale che questo lavoro lo sta vedendo e lo sta amando. E lo sta amando probabilmente anche perché in questo meta teatrale presepe incartapecorito ci ritrova un mondo assai simile al nostro: vecchio come chi lo comanda, fermo e fragile; difeso a spada tratta dai detentori della “tradizione” che non hanno alcun interesse a trasmetterla né tantomeno a farla progredire: tutto deve restare fermo com’è, non solo a teatro. Di questo sì che ci sarebbe da indignarsi, forse anche Eduardo si sarebbe indignato. La versione di Latella altro non fa che (rac)cogliere con amore i segni contenuti nel testo, prendendosi la sacrosanta responsabilità di aprire un varco, tradurre ma anche tradire, imprimere una visione contemporanea che parla dell’oggi, di noi. E che parla soprattutto ai giovani, dell’importanza di dare loro «la possibilità, lo spazio di sbagliare», questione cara a Latella, su cui è tornato anche durante un incontro tenuto lo scorso 18 novembre alla galleria d’arte HDE per presentare La misura dell’errore, un libro-intervista curato da Emanuele Tirelli. E rompiamolo sto presepe… (francesca saturnino)
Natale in casa Cupiello
di: Eduardo De Filippo
regia: Antonio Latella
drammaturgia: Linda Dalisi
con: Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
drammaturga del progetto: Linda Dalisi
scene: Simone Mannino e Simona D’Amico
costumi: Fabio Sonnino
luci: Simone De Angelis
musiche: Franco Visioli
produzione: Teatro di Roma
dal 16 al 27 novembre, Teatro San Ferdinando
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