Pochi anni prima di morire, nel 2015, David Graeber visitò la Cisgiordania. Ebreo, cresciuto a New York in una famiglia “alimentata interamente a propaganda sionista”, l’antropologo anarchico rimase impressionato non solo dalle palesi violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano, ma da come ogni singola azione quotidiana fosse terribilmente difficile per i palestinesi. “Le provocazioni sono quotidiane, brutte e umilianti; ma sono anche pensate per rimanere sotto il livello dell’aggressione flagrante e innegabile – scrive –. Come il bulletto della scuola che continuamente punzecchia, pungola e scalcia la sua vittima sperando di provocare uno scoppio di rabbia inutile, che finisca per potarla davanti al preside”. A Nablus manca l’acqua, si sta sempre in fila, otto ore di macchina per fare venti chilometri, i militari ti agitano i mitra sotto il naso gridando in una lingua che non capisci, si rompe qualcosa e non hai il permesso per ripararlo, o non trovi i pezzi, non si riesce a telefonare, non si può andare in spiaggia, se un ragazzo prova a nuotare in mare rischia che gli sparino, al checkpoint ti trattengono i pomodori che volevi vendere finché marciscono, arrestano tuo figlio, implori le guardie di liberarlo e quelle arrestano anche te per spingerlo a confessare di aver tirato una pietra; finché ti ritrovi in una cella di cemento, senza sigarette e col water intasato. “E ti accorgi che vivrai così per sempre, che non c’è nessun processo di pace, che questo terrore e questa assurdità durerà tutta la tua vita”.
Graeber in Palestina si immedesima nell’“altro lato” al punto da capire perché l’immagine di Israele, per quasi tutto il mondo, si sia trasformata “da un gruppo di idealisti sopravvissuti dall’Olocausto che volevano far fiorire il deserto, in una banda di bigotti rabbiosi che hanno trasformato in scienza le tecniche per brutalizzare dei dodicenni”. Sono molti i fattori che possono portare il figlio di una famiglia sionista a immedesimarsi con gli oppressi da Israele nei territori occupati, in linea con quel filone del pensiero ebraico che ancora si esprime in organizzazioni come Breaking the Silence o Jewish Voices for Peace; sicuramente hanno contribuito le sue frequentazioni politiche anarchiche, ma senza dubbio anche l’antropologia, scienza dell’empatia, della comprensione e della mimesi. Nel 1851 l’antropologo Lewis Henry Morgan, che cercava di fermare la pulizia etnica degli Irochesi da parte dei coloni europei, scrisse: “Non è un piccolo crimine contro l’umanità sequestrare i focolai e le proprietà di un’intera comunità, senza alcun compenso e contro la loro volontà, e trascinarli impoveriti e infuriati in una terra desolata selvaggia e inospitale”. Una terra selvaggia e inospitale come il deserto intorno a Rafah dove centinaia di migliaia di palestinesi sono stati deportati in attesa dell’espulsione da Gaza. Anche gli Irochesi avevano commesso “atrocità” contro gli Huron, e ovviamente contro i coloni bianchi; ma questo non impediva a Morgan di denunciare il “crimine contro l’umanità” della loro pulizia etnica a opera della comunità a cui apparteneva.
Oggi siamo pronti a riconoscere il genocidio dei nativi americani di un secolo fa, ma è così difficile riconoscere quello in corso. I due mesi di massacri a Gaza sono stati segnati da comunicati, raccolte firme, prese di posizione pubbliche in tutto il mondo, soprattutto da parte della comunità accademica e in particolare degli scienziati sociali. Ma davanti hanno trovato un muro: le istituzioni universitarie si sono chiuse a riccio, tradendo sfacciatamente i fondamenti della loro missione intellettuale e delle loro stesse discipline. Appena una settimana dopo l’attacco di Hamas, novecento studiosi di tutto il mondo hanno sottoscritto un testo in cui si allertava del “potenziale genocidio” in corso a Gaza; l’antropologo Didier Fassin pochi giorni dopo ha espresso su Le Monde la sua preoccupazione per i doppi standard delle autorità francesi e per i discorsi disumanizzanti verso i palestinesi, scatenando un “triste dibattito”. L’università di Gent in Belgio ha raccolto oltre duemila firme contro la campagna israeliana a Gaza già dal 10 ottobre, e nei giorni seguenti la Middle East Studies Association del Nordamerica ha pubblicato un comunicato contro l’uccisione di civili e per la libertà di espressione, come anche la American Studies Association e centinaia di altre organizzazioni di studio e di lavoro in tutto il mondo. Tra queste, alcune sono ebraiche, come Jewish Voices for Peace o il Laboratorio ebraico antirazzista in Italia.
A inizio novembre, quasi seicento ricercatori e professori delle università irlandesi hanno scritto una petizione che chiedeva a tutte le università d’Irlanda di “tagliare immediatamente qualunque partnership o affiliazione istituzionale con università israeliane […] finché non terminerà l’occupazione del territorio palestinese, e finché non saranno rispettati i diritti dei palestinesi all’uguaglianza, all’autodeterminazione e al ritorno dei rifugiati”. Poche settimane dopo, più di novecento accademici dell’università di Aalborg e di altre università nordiche hanno sottoscritto una lettera ai propri atenei per il cessate il fuoco e il boicottaggio alle università israeliane. Lo stesso ha fatto il College of Ethnic Studies della San Francisco State University. Nessuna delle università interpellate ha risposto a queste chiamate. A che può servire una petizione di duemila studenti e professori dell’Università di Oxford, o la condanna esplicita di Israele da parte di quaranta filosofi della stessa università, quando Oxford ha ricevuto diciassette milioni di sterline dalle aziende che producono le armi per l’esercito israeliano? Secondo un rapporto recente, la Lockheed Martin e altre aziende di armamenti hanno donato oltre cento milioni alle università del Regno Unito, in gran parte vincolati al segreto corporativo. Eppure non è impossibile ottenere dei risultati: l’Università di Johannesburg già nel 2011 aveva rinunciato alla collaborazione con l’Università Ben Gurion per il suo coinvolgimento nell’occupazione militare israeliana a Gaza, e di recente il Royal Institute of Technology di Melbourne ha dichiarato che avrebbe interrotto la partnership con la Elbit Systems, la principale azienda di produzione di armi di Israele.
L’antropologia è stata la prima disciplina a opporsi alle politiche di apartheid e sterminio del popolo palestinese, molto prima che fosse palese l’obiettivo dello stato di Israele di annettere Gaza ed espellerne milioni di persone. Nata come scienza coloniale da usare per migliorare ed estendere il dominio delle popolazioni conquistate, è stata praticata da sempre anche da persone che denunciavano la complicità dei loro eserciti e delle loro università nella conquista e nella colonizzazione. Negli ultimi decenni hanno iniziato a fare antropologia anche molti ricercatori e ricercatrici native dei popoli colonizzati; oggi molti giovani antropologi la considerano uno strumento importante per comprendere le diseguaglianze che affliggono le loro comunità. La tendenza alla critica sociale, alla presa di parola pubblica e all’impegno politico oggi è la linfa vitale della disciplina, come ha mostrato un seminario del 2008 sulla “engaged anthropology”, o il lavoro, per esempio, della Società italiana di antropologia applicata. È ovvio che la disciplina che ha elaborato l’uso corrente del termine “etnia” debba essere un bastione di pensiero critico contro ogni tentativo di pulizia etnica.
Uno dei referenti per tutta l’antropologia è la American Anthropological Association (AAA), che ha dodicimila membri. L’incontro annuale del 2023 si è svolto a Toronto, a offensiva israeliana già iniziata. Durante tutta la settimana del convegno, un gruppo di antropologi designati dall’AAA ha letto ad alta voce, uno a uno, tutti i nomi delle migliaia di persone uccise a Gaza fino a quel momento, per mostrare il rifiuto dell’intera associazione al massacro in corso. L’AAA è attivamente impegnata contro la militarizzazione della disciplina: nel 2007 espulse gli antropologi che partecipavano all’operazione militare Human Terrain in Afghanistan, offrendo all’esercito degli Stati Uniti la loro conoscenza delle lingue e delle società locali. La collaborazione in ambito militare è incompatibile con l’etica della disciplina, che richiede il massimo rispetto per le comunità con cui si lavora, l’imperativo etico di non danneggiarle, e quindi la distanza più totale verso chi cerca di distruggerle. Secondo lo statuto dell’AAA, il fine dell’antropologia è “la promozione e la protezione del diritto di tutte le persone e dei popoli alla piena realizzazione della loro umanità”. Dopo quasi dieci anni di dibattiti, a luglio del 2023 è stata votata al settantuno per cento una risoluzione per il boicottaggio accademico delle università israeliane.
A differenza dell’espulsione degli antropologi-militari, ma anche del boicottaggio del 1958 contro il Sudafrica, il boicottaggio accademico a Israele non colpisce né espelle i singoli ricercatori, che possono continuare a partecipare alle attività internazionali. Si boicottano invece i loro atenei, che collaborano attivamente con l’apartheid e con le violazioni del diritto internazionale. Lungi dal porsi come “spazi di dialogo”, infatti, le università israeliane contribuiscono allo sviluppo delle tecnologie militari e delle dottrine che giustificano la colonizzazione della Palestina: di recente, per esempio, l’Università di Tel Aviv ha pubblicato un appello a “unirsi al suo sforzo bellico”. È chiaro che il boicottaggio influisce anche sulla libertà dei singoli accademici, che perderebbero progetti internazionali e si troverebbero isolati; ma questo già accade in misura enormemente maggiore agli accademici palestinesi, la cui libertà di ricerca è resa quasi impossibile dall’occupazione militare israeliana, come ricorda anche l’associazione Jewish Voices for Peace. Il boicottaggio è promosso anche da accademici israeliani contrari all’occupazione, che temono ritorsioni e che sono spesso costretti all’anonimato. Lo storico israeliano Ilan Pappé nel 2008 disse: “Sfruttiamo l’appoggio della società civile per fare di Israele uno stato ‘paria’ fintantoché questa politica persisterà. Solo a queste condizioni, noi che siamo qui, che apparteniamo e desideriamo appartenere a questo paese, potremo portare avanti un dialogo costruttivo e fertile, con l’intenzione di creare una struttura politica che ci assolva dal bisogno di vivere nel conflitto e ci permetta di costruire un futuro migliore”.
A ottobre anche la più grande associazione di antropologia d’Europa, la European Association of Social Anthropology (EASA), con circa milletrecento membri, ha pubblicato una dichiarazione su Gaza, chiedendo l’immediato cessate il fuoco e il rispetto dei trattati internazionali. Sono le stesse richieste già espresse dall’Onu, dall’Oms, dalla Croce Rossa, Amnesty, Oxfam, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e innumerevoli altre organizzazioni umanitarie; ma gli antropologi e le antropologhe rispondono anche a una lettera dell’università palestinese Birzeit, che chiede agli accademici di tutto il mondo di “ricercare la verità, mantenendo una distanza critica dalla propaganda di stato e richiedendo le responsabilità dei perpetratori del genocidio e dei loro complici”. Il comunicato EASA condanna “l’inquadramento genocida dei palestinesi come colpevoli, come ‘animali umani’ e come meritori di una punizione collettiva”, nonché il supporto dei governi europei a “crimini di guerra contro la legge internazionale” e le misure repressive verso studenti palestinesi o solidali con la Palestina nelle università. “Questa messa a tacere totalitaria del dissenso verso la violenza e la guerra è inaccettabile – continua il comunicato – e in completo disaccordo con l’obiettivo educativo di promuovere il pensiero critico tra gli studenti e nel pubblico”. Il testo si conclude con una chiamata alla comunità accademica perché faccia il suo dovere di “dire la verità al potere”.
Nonostante il comunicato non nomini il boicottaggio, la presidentessa dell’EASA ha ricevuto diverse lettere di protesta: “Non vi è arrivata nessuna informazione sulle atrocità commesse il 7 ottobre in Israele? – scrive il presidente della Israeli Anthropological Association – Queste atrocità sono atti encomiabili? Possono essere descritti come atti di resistenza popolare? Israele ha il diritto di proteggere i suoi cittadini?”. La BaShaar Academic Community for Israeli Society elenca le atrocità di Hamas: “Genitori torturati davanti ai loro figli, bambini torturati e mutilati. Sono stati uccisi, decapitati, bruciati vivi, feti tagliati brutalmente dalle loro madri incinte, donne stuprate e poi uccise, famiglie bruciate e cadaveri mostrati trionfalmente a folle entusiaste”. Alcune di queste accuse sono poi state smentite; ma quello che colpisce è che gli attacchi del 7 ottobre siano considerati “innominabili atti di terrore che sono il male puro”. È il linguaggio del presidente Joe Biden, che parla di azioni “puramente diaboliche”: ma l’antropologia è nata per opporsi alla demonizzazione del nemico, e per affermare l’universalità dell’umano anche per chi è ai margini estremi dei valori dominanti. Anche un antropologo italiano ha pubblicato un lungo video in cui interpreta gli attacchi di Hamas come effetto della crudeltà radicale e dell’odio per la vita che sarebbe intrinseco alla religione musulmana. Questo uso strumentale della religione si chiama essenzialismo culturale ed è sostanzialmente l’opposto dell’antropologia – come il creazionismo per gli astronomi. “La discriminazione, la segregazione e l’emarginazione oggi sono essenzialmente ‘culturali’: dove un tempo si parlava di ‘razze inferiori’, oggi si parla di culture ‘incompatibili con i nostri valori’”, afferma la dichiarazione conclusiva di un congresso di antropologia a Barcellona nel 2002: “I media usano in continuazione l’idea di cultura per banalizzare e semplificare alcuni conflitti sociali, insinuando che le sue cause hanno a che vedere, in modo oscuro, con le adesioni culturali dei loro protagonisti”.
Duecento antropologi di tutta Europa hanno scritto una lettera di sostegno all’EASA, chiedendo di costituire un gruppo di lavoro che vigili sulle “crescenti restrizioni alla libertà accademica” per chi critica le politiche di Israele. Un importante antropologo iraniano, Shahram Khosravi, quando ha pubblicato questa lettera su un social media si è visto censurare il post, poi ripristinato dopo la segnalazione; lo stesso è successo ad altri firmatari del comunicato. Nel frattempo, l’associazione greca di antropologia, quella basca (Ankulegi), quella catalana (l’Institut Català d’Antropologia) e quella delle Isole Baleari (IAI) hanno pubblicato comunicati contro il genocidio in Palestina, e il dipartimento di antropologia dell’Università di Barcellona ha chiesto al rettore di interrompere tutte le collaborazioni con le università israeliane – naturalmente, senza successo. In Italia, quattromilacinquecento membri di comunità accademiche e centri di ricerca hanno scritto un appello per il cessate il fuoco e per il rispetto del diritto internazionale in Palestina, inviato al ministro degli esteri, della ricerca, e ai rettori; più di recente alcuni docenti dell’Università di Milano hanno scritto al rettore per chiedere all’università di unirsi alle richieste per un cessate il fuoco, senza successo. Le tre principali associazioni di antropologia italiane – la SIAC, l’ANPIA e il direttivo SIAA – hanno sottoscritto una lettera collettiva, insieme a quaranta antropologi: “Ci sentiamo obbligati – scrivono – a prendere posizione davanti a una crisi emersa e sviluppata in decenni di ingiustizie, occupazioni illegali, gravi discriminazioni, arresti arbitrari e segregazione spaziale. Come antropologi italiani, ci riconosciamo eredi di uno dei padri fondatori della disciplina, Ernesto De Martino, che, seguendo Antonio Gramsci, affermò che gli intellettuali dovevano prendere posizione”.
Oggi il boicottaggio accademico è uno degli strumenti non violenti più praticati, di fronte all’incredibile squilibrio di potere tra il popolo palestinese e l’occupazione israeliana, sorretta da uno degli eserciti più potenti del mondo, ma da una legittimità internazionale in caduta libera. Le strutture accademiche, tuttavia, sembrano assolutamente impermeabili all’urgenza globale di interrompere il genocidio e la pulizia etnica, legate come sono all’industria militare e alle lobby che promuovono la guerra. In un libro sul boicottaggio, il ricercatore australiano Nick Riemer sostiene che, nonostante ci siano state numerose vittorie, “nelle politiche e nella cultura dell’educazione universitaria, quasi tutto tenta di impedire che gli accademici boicottino Israele”, per esempio facendo perdere il lavoro o la cattedra a chi si sostiene i diritti dei palestinesi. Come mostra anche un rapporto dell’Università di Oxford, il governo israeliano è costretto a pubblicare manuali e organizzare laboratori online su come inquadrare il conflitto per guadagnare amici e fiducia verso le proprie politiche, e il ministero degli esteri usa “cyber troops” per influenzare i media, tentando di isolare chi si oppone alle sue campagne militari, chi organizza manifestazioni o eventi per la Palestina, chi promuove petizioni o azioni per fermare il genocidio.
Ma questi gesti straordinari continuano a moltiplicarsi, nonostante il tentativo di farli passare come antisemitismo o “difesa del terrorismo”. È indispensabile che chi lavora nella ricerca e nella produzione della conoscenza continui a farli crescere, perché cedere alla paura e all’isolamento significherebbe rinunciare all’essenza stessa del lavoro intellettuale. Alla fine dell’articolo sul suo viaggio in Cisgiordania, David Graeber riconosce l’importanza dell’ospitalità per i palestinesi, e immagina quanto può essere stato devastante per loro vedere i primi sionisti arrivati in Palestina appropriarsi delle loro terre, distruggere i loro villaggi e massacrare il loro popolo. “In una situazione del genere, cosa si può fare? – scrive –. Smettere di essere generosi? Ma allora si viene assolutamente, esistenzialmente sconfitti. La gente è stata sistematicamente deprivata dei mezzi fisici, economici e politici per essere generosa. Ed essere deprivati dei mezzi per fare quel tipo di gesti straordinari è una specie di morte in vita”. (stefano portelli)
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