Il Fior di fragola, il Cornetto, il Cucciolone, il Magnum, la Viennetta. In località Pascarola si producono gelati da quarantadue anni. Lo stabilimento è quello dell’Algida, uno dei ventotto marchi di proprietà della multinazionale anglo-olandese Unilever, un gigante da centosettantamila addetti presente nei mercati di centonovanta paesi, con un fatturato che nel 2014 ha superato i quarantotto milioni di euro. In Italia impiega tremila persone e controlla quattro stabilimenti produttivi: Sanguinetto (Vr), Casalpusterlengo (Lo), Pozzilli (Is) e Caivano (Na).
Nel settembre 2015 la multinazionale ha annunciato in modo unilaterale centocinquanta esuberi a Caivano, con l’obiettivo dichiarato di abbassare i costi dello stabilimento per circa sette milioni di euro. A Caivano ci sono ottocento dipendenti; di questi, seicento full time e duecento part time. Intorno ruota un gruppo di centocinquanta stagionali. Il 30 ottobre è stato siglato un accordo con la dirigenza aziendale che riduce gli esuberi a cinquanta, cento in meno di quelli inizialmente previsti. L’uscita è su base volontaria e avviene attraverso incentivi e procedure di mobilità. Si tratta di lavoratori prossimi alla pensione, ma anche di persone che scelgono di andare via in cambio di un indennizzo.
In Europa Unilever ha creato due settori: occidentale e orientale. Gli stabilimenti che producono gelati in Europa occidentale sono Caivano (Italia), Heppenheim (Germania), Gloucester (Inghilterra) e uno in Francia. Sono quattro stabilimenti in continua competizione tra loro. Poi ce ne sono due in Turchia, uno in Polonia e uno in Ungheria, che servono soprattutto il mercato dell’Europa dell’est. All’inizio degli anni Novanta, con un mercato in piena espansione, la fabbrica di Caivano aveva mille e cento dipendenti. Dagli anni Duemila, però, la multinazionale si riorganizza in maniera completamente diversa. Tutte le fabbriche iniziano a essere gestite attraverso sistemi informatici. Unilever controlla tutto il processo (fornitura, produzione, vendita) e dispone di una fotografia precisa di ogni stabilimento. La mappatura consente a una struttura localizzata in Svizzera, a Schaffhausen, di valutare i conversion cost di ogni singolo stabilimento: i costi fissi che ogni fabbrica impiega per trasformare i materiali in manufatti.
I quattro stabilimenti dell’Europa occidentale – avendo un diverso numero di operai, una diversa posizione geografica, un diverso sistema fiscale e un diverso costo del lavoro – hanno dei conversion cost molto diversi tra loro.La multinazionale tende a saturare prima gli stabilimenti che hanno un conversion cost più basso, perché questo garantisce margini di guadagno superiori. Così Caivano negli ultimi anni ha perso quote consistenti di produzione.
In Europa si è registrata in questi anni una forte contrazione del mercato dei gelati. In passato i consumatori erano soprattutto i bambini, oggi sono gli adulti. In Europa il calo delle nascite spinge le aziende ad abbandonare i segmenti di produzione tradizionali per produrre gelati di pasticceria come il magnum e il cornetto, destinati soprattutto al mercato degli adulti. I gelati che hanno accompagnato la nostra infanzia, il Ghiacciolo, il Cremino, il Fior di fragola, non vengono più prodotti nelle quantità in cui si producevano prima. Tutti questi cambiamenti, generando una diminuzione dei profitti, spingono la multinazionale a mettere gli stabilimenti in competizione tra loro. In un mercato che non cresce, se si continua a perdere volumi di produzione lasciando invariata la quantità di forza lavoro utilizzata, si resta indietro. Solo la combinazione tra aumento dei volumi di produzione e riduzione del numero di addetti può garantire un abbassamento dei costi e, quindi, una maggiore attrattività per gli investimenti. È questa la dura lezione impartita dalle multinazionali.
In Italia poi non esistono regole capaci di porre limiti al potere delle imprese multinazionali. Molte registrano trend di crescita sempre positivi e continuano ad acquisire nuove società e nuovi marchi. Nonostante ciò, continuano a intervenire sul costo del lavoro, tagliando il personale con il pretesto della crisi. In un sistema del genere finiscono in secondo piano le condizioni in cui si svolge il lavoro. Ferdinando viene da Melito ed è entrato alla Unilever di Caivano nel 1994. «Allora – dice – c’era meno tecnologia e più lavoro manuale. Sulla linea, dove lavoro ancora oggi, il confezionamento era tutto manuale. In passato c’erano quindici persone, oggi siamo in cinque. Immagina quante persone sono state fatte fuori dalla tecnologia…».
«Io sono entrato nel ’96 a Caivano – racconta Stefano –. Avevo ventuno anni. Ero geometra e non capivo nulla di elettronica e meccanica. Mi sono formato attraverso la pratica. L’impatto è stato bello, perché guadagnare un milione e ottocentomila lire a quell’età non è cosa da poco. Ora tutto è diverso, ho quarant’anni e due figli da crescere; dopo molti anni come operaio di linea, sono passato all’esterno della catena di montaggio e il mio ruolo consiste nell’intervenire dove si presenta un problema: il cosiddetto polifunzionale. Purtroppo, la vita di un operaio si va riducendo ai minimi termini: tanto lavoro, bassa retribuzione e zero vita sociale. In fabbrica, rispetto a questo, c’è poca consapevolezza».
«I turni ti distruggono – riprende Ferdinando –. Lavorando una settimana di mattina, una di notte e una di pomeriggio, il corpo ne risente. Quando hai il turno di mattina, devi partire da casa alle cinque perché alle sei meno un quarto devi essere in fabbrica. Quando torni a casa, di pomeriggio, ti senti tutto stordito… Anche il turno di notte è pesante. Da ragazzo non lo avvertivo, spesso non andavo nemmeno a letto quando tornavo a casa. Oggi, invece, devo assolutamente riposare altrimenti mi sento a pezzi. Diciamo che il lavoro sulla linea è sostenibile, sono i turni a essere massacranti! Il turno modifica la tua vita familiare, i tuoi rapporti sociali. Se fai una settimana di pomeriggio, finisce che per sette giorni non vedi nemmeno i tuoi figli, perché loro di mattina vanno a scuola e quando arrivi a casa la sera, di solito alle dieci e mezzo, loro sono già a letto».
«Io sono da ventisei anni a Caivano – racconta Luigi –. Secondo l’attuale legge sul pensionamento dovrei lavorare altri ventidue anni. Chi legifera non si rende conto che nessuna fabbrica è interessata a tenere un lavoratore fino a sessantasette anni! Poi c’è il problema dell’alienazione che subisce il turnista. Un danno che avviene nel tempo e di cui non si parla. Io, nei primi dieci anni di lavoro, non me ne sono mai reso conto. Oggi, dopo ventiquattro anni di turni, vivo in una bolla temporale che non è in sintonia con la società. Ho ritmi differenti rispetto alla famiglia, ai figli, alle questioni del vivere quotidiano. Cadenzo il tempo di vita in base ai turni e ai ritmi di fabbrica. Questa forma di alienazione diventa dopo un po’ anche fisica perché ti porta a rompere l’orologio biologico. La conseguenza è che non riesci più a dormire, perdi la lucidità, tendi a vivere all’interno di forme ossessive; avverti fastidio anche nell’andare a fare la spesa al supermercato perché non ce la fai a vedere tanta gente. All’interno della fabbrica ci sono due grandi problemi: il primo è di tipo psicologico e ha a che fare con l’alienazione; il secondo riguarda le patologie cardiache. Svegliarsi alle quattro e mezzo di mattina e sottoporsi a pesanti sforzi fisici per otto ore consecutive, fa si che quando arrivi a casa sei praticamente distrutto. A quel punto diventa difficile iscriversi a una palestra, fare vita sociale, uscire con un amico… A volte penso una cosa e mi viene proprio da ridere. Ci si preoccupa tanto dei ragazzi che di notte escono dalla discoteca e rischiano di fare incidenti, ma mai di un lavoratore che fa cinque notti consecutive in fabbrica, sotto le luci artificiali come le galline, e quando di sabato mattina esce dalla fabbrica rischia di schiantarsi contro un muro perché è stanco morto». (giuseppe d’onofrio/luca rossomando)
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