da: Horatio post
Lo svincolo dell’autostrada atterra nel quartiere tra pinnacoli di container rossi e blu. L’appuntamento con Valerio è sul corso brulicante di gente e d’automobili, vuole parlarmi della ricerca che sta facendo per la tesi di laurea, l’ha intitolata La palude, è la storia di una generazione, la sua, quella degli uomini e le donne che hanno venti e trent’anni oggi, nel vuoto di futuro di San Giovanni a Teduccio.
Per capirci qualcosa bisogna partire dai luoghi, ci fa da guida Enzo Morreale, è la memoria storica del quartiere, una vita di lavoro come fotoincisore, poi il lungo impegno come sindacalista, politico, attivista sociale. Neanche il tempo per le presentazioni, Enzo è un fiume in piena, mi dice che le palazzine davanti le quali ho parcheggiato sono quelle dello Sperone Vecchio, un’isola di edilizia storica perfettamente conservata, già presente nella mappa del Duca di Noja di fine Settecento. Allora la città e le fabbriche non c’erano, a San Giovanni semplicemente c’era l’incontro di due straordinari paesaggi di Campania felix: quello dei mulini e degli orti della pianura intrisa d’acqua, e quello degli arboreti da frutto asciutti, delle pendici basse del Vesuvio.
Certo Napoli già allora tendeva a respingere qui, oltre il Ponte dei Granili, tutte le attività insalubri, le concerie, i macelli, ma il destino di San Giovanni non era quello di una ruralità degradata e delle osterie di passo, ma la modernità delle fabbriche e dell’energia: l’Officina ferroviaria di Pietrarsa viene fondata nel 1840, la Corradini nel 1882, nel 1900 arriva la Cirio, mentre inizia nel 1930 a Vigliena la costruzione, per opera della Società Meridionale di Elettricità (S.M.E.), della prima centrale elettrica “Capuano”. Insomma, quando nel 1925 San Giovanni perde lo status di comune autonomo ed è annessa a Napoli, è una cittadina industriale, uno dei cuori pulsanti dell’economia del Mezzogiorno e del paese.
Proprio dietro lo Sperone Vecchio, in via Signorini, Enzo ci mostra la prima sede della Cirio. È la parte dello stabilimento ancora non recuperata, il resto ospita ora il dipartimento di ingegneria, una delle poche operazioni di rigenerazione felicemente portate a termine. Il campus è molto bello, le lezioni non sono ancora riprese, i giardini sono deserti, tra le aiuole c’è un grande crocifisso ligneo, è quello che accoglieva i seimila operai dello stabilimento Cirio. Il vecchio caporeparto Durante lo aveva messo in salvo in un deposito di Vigliena. Con Enzo erano stati avversari, ma lui gli telefonò, e insieme organizzarono la riconsegna all’università con una processione popolare. Fu un momento toccante: per tutti, credenti e non credenti, quel crocifisso era il simbolo di un’epoca di dignità e di lavoro.
Prendiamo via Ottaviano, c’è un edificio imponente in mattoni di tufo, sembra quasi una dimora patrizia, e invece anche questa era fabbrica. Da una bottega di fronte esce un signore imbiancato, si chiama Vincenzo, s’intrattiene con noi per raccontarci la storia. Nell’Ottocento qui c’era il Mulino Elena, la targa d’ottone dice 1828, poi a inizio Novecento arriva la Cirio, e dopo ancora la Comanducci, un’azienda che lavorava la banda stagnata per produrre barattoli per i pelati. Quindi l’abbandono, ora il fabbricato è perso nel tempo, porta ancora gli infissi in legno originali, sembra di stare in un libro di Dickens, infatti tempo fa è stato usato per una fiction.
Valerio ne approfitta per segnalarmi alcuni aspetti della struttura urbana di San Giovanni: innanzitutto, rispetto alla monocultura siderurgica di Bagnoli, la gamma sterminata di attività industriali che c’è stata qui, con la meccanica, i mulini, l’agroalimentare, la cantieristica, l’energia, la chimica, i petroli, le vetrerie, le arti grafiche… E ancora, la mancata separazione tra fabbrica e abitazione, a San Giovanni non c’è una zona industriale distinta dai rioni operai, le fabbriche sono in mezzo alle case, fanno parte dell’abitato. Il terzo aspetto lo aggiungo io, è quello della memoria, dell’attaccamento ai luoghi: i cittadini di San Giovanni che sto incontrando custodiscono gelosamente vicende e storie lontane di ogni sito, stabilimento, procedimento produttivo. E ci sono giovani come Valerio che queste storie sentono il bisogno di ascoltare, per scoprire chi sono, o forse per provare a elaborare per questi luoghi una prospettiva autonoma, che vada oltre il rimpianto per il secolo d’oro dell’industria.
Ora scendiamo al mare di Vigliena. L’antico forte di pietra corrosa è un luogo sacro, l’ultima roccaforte della Repubblica Partenopea del 1799, giace tristemente sepolto da reticolati ed erbacce, come un rudere da smantellare. Il mare lo lambiva un tempo, prima di essere ricacciato indietro dalle colmate, ora davanti c’è la centrale elettrica dismessa, costruita col piano Marshall negli anni Cinquanta, e lo stabilimento Cirio progettato nel 1928 da Aldo Trevisan. Sembra un maniero post-moderno, produceva seicentomila barattoli al giorno, quando nella piana c’erano diecimila ettari coltivati a pomodoro San Marzano. Ora la campagna è diventata periferia, gli ettari sono meno di centocinquanta, di quel modello di agroindustria, che pure ha fatto epoca, non è rimasto niente.
Arriviamo alla nuova centrale turbogas, costruita negli anni Duemila dalla Tirreno Power. Lungo i muri scrostati della stradina che la fiancheggia verso il mare, i cartelli segnalano pericolo mortale: come Cariddi l’impianto risucchia l’acqua del mare per il raffreddamento, poi la risputa, il rischio dei vortici è segnalato da un sibilo minaccioso che riempie l’aria, ma dopo un po’ ti abitui, come s’è abituata la piccola comunità che continua a frequentare in semi-clandestinità la baia.
C’è un pescatore che ripara la lancia in secca; un altro va a caccia di granchi sugli scogli di lava nera, si avvicina con un secchio di plastica azzurra, Morreale ne tira fuori un granchio fellone, tenendolo per il carapace. La bestiola è aggressiva, taglia minacciosa l’aria con le chele, è il segno che l’ecosistema marino non è del tutto scassato, e si va a suo modo riprendendo. Poi incontriamo Pitbull, un marinaio dal fisico perfettamente corrispondente al nomignolo, s’è inventato una piccola attività, per un modesto compenso traghetta i pescatori con la canna fino alla diga foranea. In questa piccola baia doveva sorgere Porto Fiorito, un complesso turistico da ottocento posti barca. A distanza di un decennio il progetto è naufragato sugli scogli della bonifica, che anche qui come a Bagnoli, nella completa opacità di procedure e obiettivi, ha finito per fagocitare tempi, soldi e speranze di riconversione.
Nel retrospiaggia il gioiello della Corradini, la fabbrica di fine Ottocento per la lavorazione del rame. Acquisito dal comune di Napoli, il complesso doveva essere recuperato per attività culturali e l’accoglienza giovanile, ci sono la delibera e gli stanziamenti, ma anche in questo caso tutto si è inspiegabilmente bloccato. Nel vuoto d’iniziativa del Comune, è ora l’Autorità portuale a farsi avanti, con la previsione di occupare la baia di Vigliena e l’area Corradini con la darsena e il nodo ferroviario per i container, sottraendo così a San Giovanni il prezioso tratto di litorale. «È la solita storia», mi dice sconsolato Valerio. «San Giovanni continua a rappresentare per Napoli non un quartiere ma un’area di risulta, dove scaricare le attività sgradite: petroli, impianti energetici, depuratori, container, e anche le autostrade per entrare in città, con gli svincoli che passano sulle nostre teste e le case, nell’idea che la città inizi veramente solo a Piazza Garibaldi».
In attesa di sviluppi, una vegetazione rigogliosamente selvaggia sta ricoprendo i capannoni in rovina della Corradini, sullo sfondo del Somma-Vesuvio, e la scena è quella di una Pompei industriale, dove il vento della storia ha spazzato via lavoro e attività produttive, lasciando in piedi, con destini tragicamente separati, i muri delle fabbriche e le vite degli uomini.
Al culmine del ciclo industriale di San Giovanni, le industrie davano da vivere a più di centomila persone, oggi la disoccupazione supera il 40%. «Eravamo un quartiere di produttori, ora non ci resta che consumare. Le famiglie si indebitano, le sale gioco proliferano, l’acqua marcia dell’illegalità tende a occupare interstizi e spazi liberi», mi dice Valerio, che vuole misurare questi processi, comprendere come la deindustrializzazione ha cambiato la vita delle persone, dalla crisi degli anni Settanta all’agonia degli Ottanta; fino alla prospettiva, con l’urbanistica riformatrice degli anni Novanta, di un nuovo destino post-industriale, basato su rigenerazione, sostenibilità, vivibilità. «In molte delle proposte del nuovo piano regolatore noi avevamo creduto, quella che è assolutamente mancata è la capacità amministrativa, una classe dirigente, assieme e una strategia credibile per attuarle», conclude Enzo Morreale.
Alla fine, la lunga crisi ha finito per intaccare anche fedi e appartenenze storicamente consolidate: alle politiche del ’76 a San Giovanni a Teduccio il PCI da solo conquistò il 63% delle preferenze, con più di tredicimila voti; dopo un quarantennio, alle elezioni del marzo 2018, è stato il Movimento 5 Stelle a toccare una percentuale simile (61%), con la differenza che questa volta sono bastati cinquemila e cinquecento voti, perché metà degli elettori ha preferito starsene a casa. La materia di riflessione, per chi ne avesse voglia, evidentemente non manca.
Il tour lungo la costa prosegue verso sud: stretta tra la colmata del depuratore, i binari e lo splendido museo delle locomotive, la baia di Pietrarsa è stata recuperata. Ci sono ombrelloni e ragazze che prendono il sole dolce di settembre, e ha ragione Luca Rossomando che ha scritto di questi luoghi: l’atmosfera è quella sobria di una spiaggia italiana negli anni Cinquanta. Così come è in buono stato l’ecosistema verde del Parco Troisi – secondo Enzo Morreale, il miglior risultato della Ricostruzione dopo il terremoto dell’80. Tre fratellini di colore giocano sul prato, ci sorridono. Solo il grande lago è in secca, s’è bloccato da tempo il sistema di pompe che emungono l’acqua dalla falda e la tengono in circolo. Nessuno provvede ed è un peccato, il lago era diventato un simbolo del quartiere, ci viveva anche il raro rospo smeraldino, ma lasciato così, per dirla con Valerio, è solo un’altra immagine della palude. (antonio di gennaro)
articolo molto interessante, peccato che le foto non abbiano didascalie e quindi non si capisce a quali dei luoghi descritti corrispondano.