Ieri, 21 marzo, Franco Ricciardi ha vinto il suo secondo David di Donatello, dopo quello conquistato nel 2014 con la canzone ‘A verità. In questa occasione, il premio di Miglior canzone originale è arrivato grazie al brano Bang Bang, interpretato da Ricciardi in duetto con Serena Rossi e scritto da Nelson, Pivio e Aldo De Scalzi per il film Ammore e Malavita.
Riproponiamo a seguire un’intervista fatta a Ricciardi nel 2016, e pubblicata nel volume collettivo Lo stato della città, che ripercorre la sua storia personale e pubblica, dagli esordi fino al trentennale della sua carriera, celebrato recentemente con un grande concerto nella sua Scampia.
Sono nato a Miano, nella periferia nord, nel ‘66. Casa mia è di fronte a Scampia, l’ho vista venire su davanti ai miei occhi, Vele comprese. E lì sto ancora oggi, anche se abito a Caserta, perché mia mamma abita nel quartiere e sto là tutti i giorni. Miano era un paese, un posto in cui ci sono delle ritualità, che oggi io mi porto appresso. I regali di Natale io li devo andare a fare sempre agli stessi due o tre posti sul corso (Secondigliano, nda), non ci sta niente da fare.
Sono nato in una palazzina dietro via Marche, che poi è stato il titolo di un mio album del ‘93, Il ragazzo di via Marche. Ma sono cresciuto tra Miano e la Sanità, dove abitava mia nonna, a vico Lammatari. Dal lunedì al venerdì stavo a casa, poi il venerdì prendevo il pullman, arrivavo al ponte della Sanità – questo già da che tenevo otto o nove anni – pigliavo l’ascensore e andavo da mia nonna. Quando andavamo da lei dicevamo sempre: «Jamm’ a truva’ ‘a zia ‘o paese», che sarebbe Napoli, e io non me ne volevo mai tornare, perché era una situazione bellissima: dieci figli, una famiglia numerosa, vera. Intanto con i miei amici vedevamo il quartiere che cambiava, il passaggio dalla terra al cemento, anche se in maniera istintiva, perché quando sei ragazzo non ci rifletti. Ma ci accorgevamo che stavano mettendo una bomba. Vedevamo nuova gente, che veniva da situazioni problematiche, dai quartieri più popolari di Napoli. Gente senza casa, in difficoltà, arrivati con la legge 167. Gli davano l’alloggio, ma non gli davano più niente, perché attorno niente c’era. E noi frequentavamo questi ragazzi e ci accorgevamo delle differenze, nel modo di fare, di parlare.
Mio padre faceva il venditore ambulante, vendeva i palloni dentro l’Edenlandia. La domenica molto spesso andavo con lui. Mi ricordo del casino, del caos, i palloni, le giostre, e poi le canzoni, la musica, là ho fatto una specie di debutto, facemmo un concerto di “voci nuove”. I miei genitori si erano divisi i ruoli. Mia mamma mi ha sempre sostenuto, spalleggiato, esplicitamente. Mio padre invece mi sfotteva. Diceva: «Chill’ vo’ fa’ ‘o cantante pecché nun vo’ scennere ‘a fatica’!». Però era il classico padre “vecchia scuola”. Non appariva, ma era sempre presente. Se mi voleva dare un bacio se lo teneva tutto il giorno e poi me lo veniva a dare di notte mentre dormivo.
Avevo un sacco di amici, ma ero “deviato” dalla musica. Più che stare appresso a un gruppo, dove c’era la musica là andavo io. Mi ricordo un locale che si chiamava Kiss Kiss, a Cappella Cangiani. E prima ancora, uno a Secondigliano che si chiamava La quinta dimensione, dove andavo a tredici o quattordici anni. E stavo là sotto quando venne il terremoto, anche se non ci accorgemmo di nulla. Finisce la serata – serata per modo di dire, perché all’epoca i ragazzini andavano a ballare alle cinque del pomeriggio e alle nove stavamo a casa –, io esco da questa Quinta dimensione e vedo tutti impazziti, che corrono. Ma noi non sapevamo neanche che cos’era il terremoto! Allora io chiedevo alla gente: «Scusate ma che è stato?», e quando mi rispondevano che c’era stato il terremoto io chiedevo: «Cheeeee?», e questi ragazzi più grandi: «Comme ‘o terramot’! S’arape a terra, amma fujì!». E io scappavo appresso a loro.
Già in quegli anni mi piaceva tutto. Andavo in discoteca, e poi il giorno dopo andavo a vedere la sceneggiata. Merola, Mario e Sal Da Vinci, Pino Mauro… andavamo con gli amici all’Arcobaleno a Secondigliano, dove facevano pure dei musical. Era una cosa bella che ci fosse il cinema, la discoteca, il teatro. Oggi che ci sta? Le multisale e i centri commerciali. Esci dalla macchina ed entri là dentro. Poi esci da là e rientri nella macchina.
Quando tenevo dodici o tredici anni andai a Milano, feci una cosa con I ragazzi della via Gluk, il gruppo di Celentano, perché c’era questo signore, don Rafele, che scriveva musica, e teneva rapporti con un calabrese che stava a Milano e lavorava nel giro. Mi mandò là, a Cinisello Balsamo, a incidere un pezzo che si chiamava ‘A sora mia, me la ricordo a memoria. Però ero un bambino, non mi piaceva stare là e me ne tornai. Fu bello, perché mi sentivo grande, da solo nel treno, mia mamma che mi accompagna alla stazione e questi signori che mi vengono a prendere…
Nel frattempo avevo cominciato a studiare. Per cinque anni sono andato dal maestro a San Giovanni a Teduccio, da Gennaro Esposito. Prima accompagnato da mia mamma, poi la cosa diventò più seria, cominciai ad andare tre volte a settimana, e ci dovevo andare da solo. Per cui, pigliati il 25 a Secondigliano, arriva a piazza Guglielmo Pepe. Da piazza Guglielmo Pepe prenditi il 54 e arriva a San Giovanni e lo stesso al ritorno. Ma lo facevo volentieri. Quando ero bambino la gente mi prendeva per pazzo perché volevo cantare sempre. A scuola, cantavo. La festa di fine anno, ero ‘o cantante. Ai venticinque anni di matrimonio dei miei, cantavo. Quello fu il primo approccio col microfono, cantai ‘O treno d’o sole di Mario Merola e Papà è Natale, canzone di Patrizio, che in quegli anni andava fortissimo. E la gente che non stava nella sala faceva le corse per rientrare, pensavano che era venuto Patrizio a cantare. Tutto quello che c’era da cantare, cantavo. Mi piacevano Mario Merola e Michael Jackson, non faceva differenza.
A metà degli anni Novanta, quando feci il disco Primo Lato A, nel ‘94, cominciai a capire che le cose stavano andando. Fu l’album di Prumesse, Treno, le canzoni che poi sono diventate più famose. Però ho avuto sempre un carattere misurato, calmo. Continuavo a frequentare gli stessi amici, anzi ci divertivamo a vedere che si creavano quelle isterie, quel panico che si fa attorno alla star. Ma io ero diverso da quel personaggio, non lo sapevo fare. Mi ricordo che a metà degli anni Novanta c’era questo fenomeno che ai concerti la gente sveniva. I teenager, se un concerto gli piaceva, dovevano svenire. E noi facevamo il conto, per capire se la serata era andata bene o no, di quanti svenimenti c’erano stati. Pure il fatto che dovevo girare coi bodyguard, mi imbarazzava da morire, mi sentivo in soggezione. E invece ci stavano questi ragazzi del quartiere che erano loro a chiamare a me, si pigliavano le date. Una volta talmente che si esaltavano buttarono una ragazza giù dal palco, e andò a finire che mi dovetti mettere in mezzo io per non far succedere la tarantella col fratello di questa. Praticamente dovevo difendere io ai bodyguard.
L’anno dopo feci il concerto al Palapartenope, nel ‘95. Sono stato sempre molto legato all’idea del concerto. Il primo l’ho fatto dopo il primo album, nel 1987. Fino a quel momento i cantanti napoletani lavoravano molto nelle feste di piazza, nelle cerimonie, nelle feste private, e invece in quella fase là si cominciò a tenere la dimensione del concerto nel palazzetto, con un atteggiamento più pop, più rock. Pure quando si andava nelle cerimonie, io ero visto un po’ come il rivoluzionario, perché quando andava a una cerimonia il cantante si adeguava, dal punto di vista dell’abbigliamento. Io invece mantenevo il look del concerto, che poi era il look mio: il jeans strappato, la maglietta casual, l’orecchino, che all’epoca era ancora guardato un poco con sospetto. E risultava strano, per la musica che facevo. Cantavo Nun me lassà vestito come si potevano vestire i Duran Duran. Sulla storia dei matrimoni si sono fatte un sacco di ironie stupide. È una caratteristica della nostra cultura, fare queste grandi feste, queste sale piene di gente, che male ci sta? E per i cantanti è una grande scuola. Da un punto di vista dello spazio, di qualche problema tecnico che può succedere, del contatto col pubblico. Una volta che hai fatto quello, è come se impari a guidare la macchina nei vicoli della Sanità, dove ho imparato io, e poi devi guidare a Perugia… tu là sì ‘nu pilota.
Molte cose nella mia carriera sono venute da sole, compreso questa tendenza a voler provare sempre il nuovo. A un certo punto, a forza di cambiare, un certo tipo di città che fino a quel momento non si interessava a quello che facevo, o mi guardava negativamente, ha cominciato a notare qualcosa. Il momento in cui è cambiato è stato Cuore Nero, con i 99 Posse. È stato divertente perché sono passato dalla mattina alla sera da Male e Mia cugina a Cuore Nero. La gente è stata un po’ spiazzata, li ho violentati. C’era pure chi non capiva niente di quel pezzo, perché non se l’aspettava. E quando sentiva il ritornello che dice “Simme tutt’ africani nuje napulitane” alcuni dicevano: «Ma comm’è nuje simm’ africani? C’ha chiammate africani chist’?». Certo è che tu puoi scrivere quello che vuoi, ma c’è comunque quella parte di città “bene” che ti guarda con scetticismo, puzza sotto al naso. Oppure con stupore quando fai una cosa nuova: «Azzò, questo ha cacciato questa roba!». Puoi fare pure dieci album uno diverso dall’altro, sembra sempre che non ci credano. Nel 1997 ho fatto la canzone 167, scritta da Lanzetta, a cui abbiamo lavorato per un po’. Solo dopo mi sono reso conto che raccontavamo qualcosa che succedeva in quegli anni. Era un messaggio per la città, da una parte della città che non era mai ascoltata. Però non è che mentre ci lavoravamo mi rendevo conto cosa stavamo facendo. Ci sta quella parte del ritornello che dice “Maradona nun po’ turna’…”. Io penso che le canzoni non si spiegano, ma quella frase se la guardi dalla 167, è un messaggio che volevamo dare: forza, adesso andiamo avanti, guardiamo avanti. Poi tra il mio pubblico ci sta quello che vuole sentire sempre i pezzi degli anni Ottanta, ma in generale la gente se viene stimolata ha curiosità.
Il prossimo 15 ottobre (2016, nda) festeggio trent’anni di carriera. È la data del primo disco. I fan ogni anno mi fanno gli auguri, perché in un pezzo vecchio io dico: «15 ottobre 1986, e chi s’a scorda chesta data!», e da lì tutti hanno memorizzato questa cosa. Non ci tengo molto a celebrarla, però alcuni amici mi stanno convincendo e sto pensando di fare un The Best of. Un lavoro simile a quello che ho fatto con Figli e figliastri, dove ho preso alcuni miei pezzi vecchi, riarrangiandoli con le sonorità di oggi, assieme a Rocco Hunt, Clementino. Se leggi il testo di Prumesse nella versione originale, e poi quello in cui c’è il rap di Enzo Dong, è cambiato tutto, pure il senso della “promessa”. Oltre alla musica cambia il messaggio. Ed è bello perché secondo me l’arte, e la musica, sono interpretazione. Ognuno ci trova dentro qualcosa, ci trova se stesso.
Col tempo ci si è resi conto che è difficile darmi un’etichetta, perché sono uno che cambia in continuazione. In un primo momento pensavano che fossi alla ricerca di un’identità. Poi dopo hanno capito che la mia identità è passare da una cosa all’altra. Però non ho mai rinnegato quello che ho fatto prima. Io mi emoziono sempre a cantare i pezzi vecchi, ci sono al massimo due o tre canzoni che riascolto e non mi piacciono, e sono canzoni che ho fatto tutte per stare a sentire a qualcun altro. Per altri colleghi di quella che io chiamo “musica popolare napoletana”, l’essere stati imprigionati in una definizione è stato uno svantaggio, molto spesso non per colpa loro. Ci sono artisti che i critici chiamano “neomelodici” che sono fenomenali, però questo apparato che c’è intorno li ha limitati. Ma noi viviamo in una città di musica, e questo fa si che c’è musica per tutti. C’è il cantante di piazza, c’è Ricciardi, c’è Gragnaniello, Avitabile, ognuno diverso dall’altro. E ci sono artisti delle nuove generazioni che a me piacciono molto. C’è Anthony che ha un colore di voce etnico. E poi le donne! Voci che non vengono considerate all’interno stesso della città, da quella parte di Napoli che ci guarda male. Perché poi non si ha l’onestà di dire: le canzoni non mi piacciono, però che voce tiene questo!
Nel 2009 ho fatto la scelta dell’etichetta, ho fondato Cuore Nero Project. È stato un salto nel buio, ma ero a un punto della mia carriera in cui lo potevo fare. E lo volevo fare. L’autoproduzione mi ha aiutato in questa ricerca, perché anche se tu hai fatto vedere cose diverse, il discografico vuole sempre l’album uguale a quello precedente. Non c’è disponibilità a rischiare, c’è mancanza di fiducia nei confronti di chi fa musica. Così sto cercando di diventare un punto di riferimento per chi ha esigenza di non far condizionare il suo modo di fare dal mercato. E alla fine è andata bene, perché i dischi funzionano, e se non funzionano sei stato tu a sbagliare. E quindi ti metti a pensare dove, cerchi di aggiustare il tiro. Con Figli e figliastri abbiamo lavorato molto alla ricerca di un suono, di un’identità, ma io solo alla fine, quando ho riascoltato l’album, mi sono ritrovato con dei suoni che avevo pari pari nei pezzi degli anni Ottanta. I suoni della Simmons, l’Alesis. Oppure l’elettronica, che venne subito dopo. E non so se a un discografico questa cosa sarebbe andata bene.
Il film con i Manetti (Song’ ‘e Napule, 2014, nda) è stato il tassello di un percorso. Dopo anni di speculazione era giusto smitizzare questo rapporto tra la musica napoletana e la malavita, e tutto il contorno di luoghi comuni. Per me la vittoria era già stata la nomination al David di Donatello, assieme alla Caselli, a un pezzo de La grande bellezza. Già andare là, in quella situazione, era una cosa che vivevamo divertendoci, non pensando nemmeno di poter vincere. Siamo andati a pariare. Quando arrivammo sulla passerella, tutti gli artisti camminavano piano per farsi fare le fotografie. Passiamo noi, con le facce serie, nessuno ci guardava manco. Anzi qualcuno pure: «Neh, ma chi so’ chisti ‘cca?». Stava Sofia Loren dietro di noi, i fotografi facevano con la mano: «Jamm’ passate annanz’, facitece fatica’!». Al ritorno, poi, un secondo dopo il premio, tutti quanti «Franco vieni qua!»… ma va bene, fa parte del gioco. Alla premiazione pure, Caparezza apre la busta e dice il nome mio. Noi ci guardiamo in faccia, pensiamo di aver capito male e ci mettiamo a ridere. Anche perché la categoria di prima, la colonna sonora completa, già l’aveva vinta il film, quindi non pensavamo che ci davano anche la miglior canzone. La mattina andammo al Quirinale, da Napolitano, pure là facemmo i numeri. La maggior parte degli artisti tutti seri, a parlare dei problemi, questo, quell’altro… arriva il turno mio: «Presidente, facimmece ‘nu selfie!».
Sono cose che solo grazie alla musica mi potevano capitare. Vale pure per i posti che ho avuto la fortuna di vedere. Sono stato nel Kazakistan, a fare un festival, ad Almaty, dall’altra parte del mondo. Oppure facemmo un concerto a Tirana. Era il primo concerto dopo la guerra, l’Italia mandò alcuni cantanti per festeggiare la fine dei bombardamenti. E partimmo da Napoli con Merola, Maria Nazionale, La Famiglia, tutti assieme con un aereo militare. Ancora c’erano le voragini per strada, i buchi nei palazzi. Fu bello perché si respirava una sensazione che forse esiste solo quando una guerra finisce. Da quest’albergo sulla piazza di Tirana, all’ultimo piano, vedevi la gente che andava avanti indietro, che finalmente poteva uscire, sembravano delle mosche impazzite. Io poi avevo scritto Radio Tirana, un pezzo che in un certo senso anticipa quello che è successo, la questione dell’immigrazione, i profughi costretti ad andare da un paese all’altro. Pure fu un po’ spiazzante, come con i Posse, perché era un pezzo quasi politico, un racconto che veniva da una riflessione. Ad Aprile vado in Germania, a Mainz. Mi hanno chiamato per fare un concerto in una discoteca. Mi hanno scritto via internet, questa è la grande forza di questo mezzo. Se da un lato ha distrutto il mercato discografico, dal punto di vista del live è un grande diffusore. E poi è un accentratore, perché sta sostituendo la televisione, la radio, tutto. E quindi andiamo a vedere pure Mainz, vediamo che succede. (intervista di riccardo rosa)
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