Alina Bonar Diachuk era una ragazza di trentadue anni. Di lei sappiamo che era ucraina, che viveva a Trieste e che aveva appena trascorso nove mesi in carcere, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, una condanna che aveva scontato con un senso di profonda ingiustizia e paura per un probabile rimpatrio che le sarebbe stato ordinato alla fine della pena.
La storia di Alina è una storia tutta sbagliata, una storia che sembra impossibile sia potuta avvenire nel 2012, in uno Stato che si definisce una repubblica democratica. Iniziamo dalla fine: era il 16 aprile scorso, Alina si impicca in una stanza del commissariato di Opicina, Trieste, servendosi del cordoncino della sua felpa. Muore dopo quaranta minuti di agonia, ripresa da una telecamera a circuito chiuso il cui video non era controllato da nessuno. Questa è la prima di una lunga lista di violazioni delle leggi e dei diritti a cui la questura dovrà rispondere: perchè una ragazza è stata abbandonata a se stessa per tutto quel tempo? Perchè c’era una telecamera se poi nessuno era dall’altro lato a controllare?
Alina era stata condotta in quella stanza dopo nove mesi di prigionia, all’uscita del carcere una volante della polizia l’aveva caricata e scortata sino al commissariato, ma lei non era nè in stato di fermo nè di arresto. Perchè stava lì? A questa domanda dovrà rispondere Carlo Baffi, il vicequestore responsabile di averla trattenuta. Baffi oggi è indagato per sequestro di persona, oltre che per omicidio colposo. L’accusa però non riguarda solo il caso di Alina. Quando il pm della procura di Trieste Massimo De Bortoli ha iniziato le indagini, ha scoperchiato un vaso di pandora: oltre ad Alina risulta che negli ultimi dieci mesi altre quarantanove persone abbiano subito lo stesso trattamento; erano tutti migranti che uscivano dal carcere e aspettavano le disposizioni del giudice di pace sull’ eventuale espulsione.
Responsabile dell’ufficio immigrazione di Opicina, Baffi aveva appeso dietro la sua scrivania una targhetta originale del ventennio fascista: “Ufficio epurazione”. Il suo fermacarte era un busto di Mussolini e sugli scaffali della sua libreria sono stati trovati testi antisemiti e sulla difesa della razza. ” È normale”, scrive l’Associazione nazionale funzionari della polizia, “che un uomo che ha lavorato alla Digos legga testi sia di estrema destra che di estrema sinistra”. Non stupisce che la polizia abbia provato a difenderlo a spada tratta sino all’ultimo, perchè colpevole della morte di Alina non è solo Baffi, ma tutta la questura di Opicina, complice dell’attuazione di una pratica gravissima e illegale che oggi la procura sta smascherando. Possibile infatti che nessun funzionario sapeva del sequestro di queste persone? Nessuno ha letto quella targhetta che campeggiava sulla scrivania di Baffi? Nessuno sapeva che quel commissariato funzionava anche come centro di identificazione ed espulsione clandestino? A difesa di Carlo Baffi era intervenuto anche il questore Padulano, dicendo che il vicequestore svolgeva solamente il suo lavoro e che la colpa non è sua, ma di una lacuna organizzativa degli uffici amministrativi giudiziari. Ma la realtà è indifendibile.
Oggi, grazie anche alle proteste che centinaia di cittadini triestini hanno portato avanti di fronte alla questura, il funzionario è stato allontanato temporaneamente e sostituito da un suo collega, mentre le indagini del pm proseguono, indagini che riguarderanno tutti i poliziotti di Opicina, gli stessi che sfileranno in piazza il prossimo sabato, in occasione della festa della polizia di Trieste, accompagnati dal presidente della regione Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo, che ha dichiarato che quel giorno ci sarà «per manifestare piena vicinanza ai dirigenti e al personale della questura». Lo stesso Tondo che ha dichiarato che sarà la Regione a provvedere alle spese per il funerale di Alina, «al limite, se non ci sono risorse, attraverso i fondi nella disponibilità della presidenza». Magra consolazione.
Ma torniamo alle indagini. Il reato per cui era stata punita Alina, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, probabilmente la ragazza non lo aveva mai commesso. «Il suo era un ruolo marginale», spiega il suo legale Sergio Mameli, «sul suo conto erano passati alcuni soldi. Io mi sono fatto l’idea che lei non ne sapesse nulla: era la fidanzata di uno degli indagati, ha fatto un favore. Dunque non si spiegava perché dovesse stare in carcere. Negli ultimi tempi era nervosa, voleva uscire, aveva già tentato il suicidio e aveva delle evidentissime suture sul braccio sinistro. Per questo abbiamo deciso di patteggiare». Poche ore prima di suicidarsi, Alina aveva provato a contattare al telefono l’avvocato, forse per chiedere perchè si trovava dentro a quella stanza, ma Mameli non era in ufficio; quando è rientrato e ha provato a chiamarla era troppo tardi, Alina era già morta. (marzia coronati)
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