Qualche giorno fa arriva la notizia che il comune di Napoli, per voce dell’assessore Panini, sarebbe deciso a imporre una tassa di soggiorno di due euro per ogni notte di soggiorno effettuata attraverso la celebre piattaforma virtuale Airbnb. “Una misura di compromesso rispetto alla quota progressiva (fino a cinque euro) sancita da Bologna e Genova, ma comunque un primo passo dopo tanto immobilismo”, si legge sulla pagina Facebook di Magnammece o pesone, una campagna attiva da anni sul tema del diritto alla casa e contro la “turistificazione”.
Che Airbnb non abbia più niente a che fare – se mai lo ha avuto – con la filosofia dello sharing, della “condivisione” intesa quasi come sostituto della proprietà borghese novecentesca, è una realtà che a Napoli si è palesata con effetti quasi grotteschi. Che la classe media abbia messo a frutto le sue seconde case togliendole dal mercato degli affitti comuni o studenteschi per trasformarle in case vacanza, è sotto gli occhi di tutti. E in certe aree del centro le ristrutturazioni ormai si muovono quasi unicamente per trasformare una proprietà in un vero e proprio bed & breakfast. Quasi sempre esentasse. Dunque è comprensibile e anzi necessario che gli stati tentino di far cassa. Inclusi i comuni.
Ma, così come va tenuta d’occhio l’economia entro cui questo fenomeno si sviluppa, così bisogna stare attenti alla retorica con la quale adesso lo si vuole “regolamentare”. Perché la corsa alle gabelle turistiche non è una novità, ma piuttosto un tappabuchi di bilancio da lunga data. L’imposta di soggiorno fu introdotta per la prima volta da tredici grandi città italiane nel 2011 (apripista fu Roma), passando a 377 nel 2012 e quindi a 724 città nel 2015. Finito il blocco, nel maggio dell’anno passato, è stata toccata quota 746 comuni, con la previsione di arrivare quest’anno addirittura a 845. Sui 460 milioni raccolti nel 2016 ben 126 sono finiti a Roma capitale, a seguire Milano (41,4 milioni nel 2016), Firenze (30), Venezia (29), Rimini (7), Torino (6,25), Napoli (5,9) e Bologna (5,5). Per quest’anno si parla di un tesoretto di circa 650 milioni.
La novità è che, rispetto al 2011, quando questa misura fu introdotta per aiutare i comuni, milioni di turisti adesso risiedono in abitazioni private: stanze o interi appartamenti messi su listini online nella più totale assenza di regole, e nella competizione più sfrenata: si va dai venti euro a notte per un fumoso basso in centro agli oltre centocinquanta per una stanza in una villa a Posillipo appena rimessa a nuovo. Dunque il comune di Napoli non vuole fare altro che adeguarsi, seguendo l’esempio di altri comuni, e monetizzare senza intaccare i guadagni degli host: la tassa di soggiorno, infatti, verrebbe pagata da Airbnb e non da chi ospita. L’iniziativa, spiegano quelli di Magnammece o pesone, “certamente non basta se questo flusso di denaro non viene destinato alle politiche per l’abitare ma viene fagocitato dal governo del debito… Non basta insomma se l’unico intento resta quello di fare cassa e non invece di tutelare il diritto alla casa dei ceti popolari e lo sviluppo di una città che non diventi una monocoltura della rendita e dei servizi commerciali dedicati alla turistificazione”.
Tutto giusto sulla carta, ma nella realtà? Il deficit di bilancio di Anm, tanto per fare un esempio, è stato nel 2016 di quasi quaranta milioni di euro. Difficile che i due milioncini in più ottenuti tramite la flat tax su Airbnb possano aiutare le classi più povere o i territori periferici a ritrovarsi con un autobus puntuale. Stesso discorso vale per le case popolari, che da sempre risultano un incubo per le amministrazioni di sinistra e una utopia per i suoi elettori: economiche da costruire, sì, ma esose da mantenere. E quali garanzie danno gli intermediari dei movimenti, che già in questi mesi hanno fallito come possibili organismi di controllo “dal basso” (per colpe non imputabili solo a loro)?
Inoltre, c’è un discorso più realistico che va fatto per quanto riguarda la società napoletana che vive delle case vacanza. Difficilmente una gabella del genere, che per l’appunto non toccherà i guadagni dei proprietari, limiterà la corsa al fitto selvaggio, se il flusso turistico rimarrà lo stesso. “Per gli host – spiegano da Airbnb Italia, quindi sono dati che vanno presi con le pinze – il ricavo medio annuale è stato di 2.300 euro. Il reddito del 49% degli host è inferiore al reddito medio pro capite in Italia. L’87% di essi ha solo uno o due annunci attivi sulla piattaforma. La durata media del soggiorno è di 3,6 notti”. I dati precisi su Napoli non sono riuscito a trovarli, ma c’è da credere che sia un mercato ancora più polarizzato della media, con tantissimi host che usano, de facto, Airbnb come “reddito integrativo”, e pochi speculatori abili che fanno gli affari più ghiotti.
Un mercato dove si può trovare di tutto: dalla vedova o insegnante in pensione che fitta per pochi euro la vecchia stanza del figlio emigrato per lavorare per Deliveroo a Milano, alla coppia di dipendenti pubblici che acquistano casa ai Quartieri Spagnoli con il solo scopo di metterla su Airbnb a prezzi astronomici, puntando a un segmento di mercato iper-elitario. La flat tax non farebbe cambiare atteggiamento proprio a nessuno. Fa molta più paura, al contrario, la cedolare secca sugli affitti brevi, approvata dalla precedente legislatura, poi smentita da Renzi, infine contestata in tribunale da Airbnb, con il Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso della società: resta un’ipotesi ancora in piedi. Ma anche lì, al centro del ricatto del cosiddetto “capitalismo di piattaforma”, c’è un punto su cui arrovellarsi: se il bisogno di far cassa dei governi andrà a detrimento solo delle multinazionali o soprattutto delle classi popolari e piccolo-borghesi, che grazie a questi arrotondamenti ci campano.
Se il collasso dei trasporti e un’improvvisa rivolta degli esclusi dalla turistificazione non intaccherà il flusso turistico, si volesse davvero regolamentare qualcosa, le idee dovrebbero essere altre: si dovrebbe forse impedire allo stesso proprietario di mettere a frutto anche quattro o cinque case, o impedire agli host di abbassare troppi i prezzi, per non lasciare che i poveri si scannino in questa sorta di nuovo Klondike. Ma come sempre, imporre delle regole vuol dire poter disporre di una burocrazia efficiente e diffusa, e anche quella costa. (paolo mossetti)
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