Tempeste vengono da sud. Mancano pochi giorni alle elezioni nello stato spagnolo, convocate dal primo ministro socialista Pedro Sánchez, dopo non essere riuscito a trovare il sostegno per approvare la finanziaria. Secondo i sondaggi, i socialisti del PSOE saranno il primo partito, ma la possibilità di governare per Sánchez non sarà a portata di mano: gli mancherebbero ancora una cinquantina di seggi per avere la maggioranza. E non potrà essere Podemos, il suo principale alleato, a poterglieli offrire. Si manterrebbe quindi, la stessa instabilità del governo di pochi mesi fa.
La notizia peggiore sarà l’entrata nel parlamento del partito di estrema destra, neofranchista e conservatore, VOX, capitanato da Santi Abascal. Nei mesi passati se n’era parlato molto, dopo l’exploit alle elezioni regionali dell’Andalusia, che gli ha permesso di entrare nel governo regionale. L’altra sorpresa, sempre che i pronostici si avverino, sarebbe l’aumento di Ciudadanos, partito “di rinnovamento” neoliberale spagnolista. Il tutto a danno del Partido Popular, fagocitato dalle due giovani formazioni, che si troverà molto lontano dalla maggioranza assoluta che aveva fino a cinque anni fa.
Le differenze ideologiche e di discorso politico dei tre partiti di destra sono davvero sottili, e principalmente in ambito economico: se gli ultranazionalisti di VOX sono più conservatori e Ciudadanos più neoliberali, il PP si posiziona in un punto intermedio. Ma restano molti elementi condivisi: lo spiccato nazionalismo spagnolo (in parte condiviso con il PSOE, come nella manifestazione del 21 ottobre 2017 in cui scesero in piazza contro il referendum catalano); le continue richieste di pene esemplari ai leader indipendentisti catalani; la volontà di commissionare la Catalogna; la volontà di mantenere le tradizioni spagnole (tra cui le corride e l’imposizione della lingua castigliana in tutto il territorio nazionale). Tutte queste somiglianze sono i principali fattori della segmentazione del voto a destra, che, guardando il bicchiere mezzo pieno, non permetterebbero ai tre partiti di arrivare a una maggioranza, come invece hanno potuto fare in Andalusia. Ma nulla può essere dato per scontato, perché fattori come l’astensione o le decisioni all’ultimo momento potrebbero far variare notevolmente gli equilibri.
La crisi di Podemos
Chi si vedrà notevolmente ridimensionato sarà Unidas Podemos di Pablo Iglesias, che sembra concludere il suo ciclo politico. Il partito, nato nel 2014, si proponeva come alternativa al PSOE e al PP per rompere il bipartitismo che era stato la causa della crisi economica del 2008, raccogliendo così le istanze dei movimenti sociali come gli Indignados, o come la PAH, la piattaforma delle vittime dei mutui bancari. All’epoca si parlava di rompere il regime del 1978 (ossia il regime “democratico” emerso dalla transizione post-franchista), di poter superare il PSOE diventando il nuovo riferimento istituzionale della sinistra. Ma nei fatti, il ruolo che ha avuto il partito è stato di stampella al governo socialista di Sanchez, con conseguenti tensioni e spaccature interne. La fuoriuscita di un leader storico del partito, Iñigo Errejon (che concorrerà nelle liste comunali di Madrid fuori da Podemos), la rottura tra i “sovranisti” e i “federalisti” in Catalogna (i primi a favore all’indipendenza catalana, dentro la stessa area politica legata a Podemos), l’espulsione del portavoce catalano Dante Fachín da Podemos (perché chiese alla base di votare al referendum dell’1 ottobre 2017) sono solo alcuni sintomi della crisi interna al partito. Non solo: anche i “municipi del cambiamento”, il principale vanto di Podemos, non hanno compiuto le promesse elettorali che ci si attendeva. Infatti, molti attivisti della lotta per la casa hanno già considerato “insufficienti” le misure adottate dai comuni, i quali, nonostante tutto, continuano a mobilitarsi, come nella grande manifestazione contro la bolla immobiliare degli affitti avvenuta a Barcellona poche settimane fa.
Le prossime elezioni non sono solo una questione nazionale, ma sono forti le relazioni con gli ambiti municipali: siamo già in campagna per le comunali del 26 maggio prossimo. A Barcellona, la sindaca del cambiamento Ada Colau critica fortemente i socialisti (che sono stati fino al novembre 2017 suoi soci di governo). Diventa quindi difficile considerarli contemporaneamente come avversari politici nelle città del cambio e alleati a livello nazionale.
In questo scenario complesso, sono poche le alternative dei socialisti se vogliono governare: lo potranno fare tramite un’alleanza nazionalista con Ciudadanos o con un’alleanza “progressista” che vada da Podemos fino ai partiti indipendentisti catalani e baschi. La prima ipotesi, anche se smentita in campagna elettorale dallo stesso leader del partito arancione, Albert Rivera, non sarebbe una novità: già nel 2016, Sánchez e Rivera firmarono un patto definito “progressista e riformista”. Sicuramente darebbe meno grattacapi a Sánchez: avere un solo partito con cui negoziare e fare accordi sarà una passeggiata rispetto alla sfida di unire comunisti spagnoli e indipendentisti repubblicani catalani (che non vogliono rinunciare a un possibile referendum sull’indipendenza). Il tutto dipenderà dai risultati elettorali, e soprattutto da quel trenta per cento che, secondo i sondaggi, risulta ancora indeciso.
Un processo politico
Il tutto mentre si sta svolgendo il processo ai leader indipendentisti catalani per il referendum di autodeterminazione del 2017. Sugli accusati, leader politici e attivisti, pendono pene pesantissime, fino a venticinque anni per ribellione, e sono da più di un anno in carcere preventivo. Un processo iniziato il 12 febbraio e che durerà ancora mesi. Se per molti partiti è stato un punto chiave della propria campagna elettorale, per altri si è rivelato quasi un trampolino di lancio: il partito di estrema destra VOX, infatti, si è costituito parte civile nel processo, nella speranza di trarne un beneficio elettorale (cosa che, assieme al sostegno delle televisioni dello stato spagnolo che ne intervistano i leader quasi quotidianamente, sembra stia dando i suoi frutti).
Il processo è nella sua fase di raccolta di testimonianze: più di seicento testimoni, dei quali duecentocinquanta sono agenti delle forze dell’ordine dello stato spagnolo, le stesse che hanno redatto i verbali utilizzati dai giudici per istruire la causa: chi sta investigando, quindi, è anche il testimone dell’accusa. Testimoni con una chiara posizione ideologica, come il colonnello della Guardia Civil, Daniel Baena, il quale utilizzava un account twitter anonimo per insultare gli indipendentisti catalani. Lo stesso affermava che esisteva un clima insurrezionale già dal 20 settembre, dieci giorni prima del referendum, anche se secondo i suoi stessi verbali non si era registrato nessun atto di violenza. Affermazioni in parte considerate valide dai giudici del Tribunal Supremo, i quali non permettono di mostrare i video che metterebbero in dubbio le dichiarazioni degli agenti di polizia.
In questi due mesi di processo, abbiamo ascoltato molte testimonianze che cercavano di dimostrare la violenza necessaria per sostenere il reato di ribellione. E che, al contrario, hanno generato siparietti al limite del comico. Solo per citarne alcuni: “Ci stavano insultando in catalano, lingua che non capisco, quindi non so cosa stessero dicendo”; oppure: “Siamo arrivati al seggio mentre lanciavano oggetti” – “Che oggetti lanciavano?” – “Non lo so, non li ho visti”; o ancora: “Ho dovuto chiedere assistenza medica per le ferite che avevo” – “Come si era ferito?” – “Sfondando la porta di una scuola”. Affermazioni surreali, superate solo dalla dichiarazione dell’ex delegato del governo spagnolo Enric Millo, il quale ha affermato che i manifestanti facevano cadere gli agenti della polizia utilizzando “la trappola del sapone per i piatti”.
Oltre alla sensazione di un processo farsa, in cui le condanne sembrano già scritte, abbiamo appreso dettagli che rompono con la narrazione dominante, quella di un referendum illegale impedito dall’ordine costituito spagnolo. Si è infatti scoperto che la Guardia Civil indagava i leader indipendentisti dal 2014, epoca molto precedente all’organizzazione del referendum di autodeterminazione da parte del governo di Carles Puigdemont. Oppure che i Mossos, gli agenti di polizia catalana, erano pronti ad arrestare Puigdemont nel caso in cui fosse arrivato un ordine del giudice, invalidando così la teoria secondo la quale il governo catalano aveva il controllo degli agenti di polizia e stava approntando tutte le strutture per uno stato indipendente. Probabilmente ne sentiremo ancora delle belle, e soprattutto, potremo utilizzare le vicende del processo come un ottimo termometro dei valori democratici dello stato spagnolo.
In questo clima di repressione e aumento delle destre in Europa, anche la Spagna, paese che fino a poco tempo fa era considerato come un’isola progressista, dà il suo contributo. E forse sì, tempeste arriveranno dal sud. (victor serri)
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