È difficile dare una rappresentazione fedele del livello di repressione che vive in Germania chi si oppone al genocidio in Palestina, perché ogni tentativo di descriverla sembra non renderne pienamente la gravità. Tra l’infinità di esempi che si potrebbero dare, c’è uno dei tanti casi di violenza che non ha attratto l’attenzione di grandi testate giornalistiche, ma che serve a illustrare la brutalità della repressione anti-palestinese in Germania.
Alla manifestazione annuale di commemorazione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a Berlino, a gennaio di quest’anno, si era aggregato un blocco pro-palestinese con tanto di kefiyeh, bandiere e cartelloni. La polizia si era presentata in numeri assolutamente sproporzionati per la grandezza del corteo e decisamente più alti degli anni scorsi, con tanto di elmi e telecamere. Dopo aver diviso il corteo in due e con il pretesto di arrestare qualcuno che aveva gridato lo slogan presunto antisemita “From the river to the sea, Palestine will be free”, la polizia ha caricato tredici manifestanti, ferendo gravemente almeno una decina di persone. Uno di loro, un uomo di sessantacinque anni spinto a terra dalla polizia, ha perso conoscenza e mentre sanguinava dal naso e dalla bocca la polizia si è rifiutata di chiamare un’ambulanza, impedendo a paramedici e giornalisti di soccorrerlo. L’uomo è poi stato portato in ospedale e pare abbia avuto un infarto, anche se la polizia non ha voluto confermare la diagnosi. Le immagini di quella violenza sono state diffuse sui social, a nutrire la rabbia di chi continua a scendere in piazza, ma senza che la violenza della repressione sia diminuita; si sono aggiunte alle tante immagini di arresti e brutalità, spesso per un semplice cartello che, senza citare la famigerata frase per intero, faceva riferimento alla richiesta di libertà e diritti nel territorio compreso tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano.
Gli attacchi contro il movimento pro-palestinese – composto prevalentemente dalla comunità palestinese e dalle tante altre comunità esiliate in Germania – sono su tutti i fronti. Dalle università, alle piazze, al mondo dell’arte, della musica e del cinema. All’ultima edizione del festival di cinema Berlinale, il premio per il miglior documentario è stato conferito al film palestinese-israeliano No other land, che tratta gli insediamenti illegali in Cisgiordania. Durante la premiazione, i due registi Basel Adra e Yuval Abraham hanno espresso la loro opposizione all’occupazione e all’apartheid e chiesto lo stop alla fornitura di armi a Israele da parte della Germania. Subito dopo la cerimonia è partita una shitstorm di articoli, comunicati e post sui social media con accuse di antisemitismo nei confronti dei registi e della Berlinale, che aveva dato un palco a chi diffonde odio nei confronti di Israele. Adra e Abraham hanno ricevuto minacce di morte contro di loro e le loro famiglie. Alla stampa tedesca questo “scandalo” ha fornito materiale per settimane; politici hanno espresso la loro disapprovazione per le scelte della direzione della Berlinale e addirittura messo in dubbio l’utilità del festival a seguito di questa vicenda, al punto che la ministra per la cultura si è sentita in dovere di prendere la parola, non per difendere il festival, ma per precisare che lei durante la premiazione aveva applaudito solo il regista israeliano, non quello palestinese. Per descrivere questo fenomeno sui social è stato coniato il termine clapartheid.
Gli attacchi diffamatori contro i due registi sono solo il caso più recente in una lunga lista di accuse simili nei confronti di chi si esprime contro colonialismo, apartheid e genocidio, da Achille Mbembe, Judith Butler e Mohammed El-Kurd, a Adania Shibli, Masha Gessen e Ghassan Hage. Nel caso di Adra e Abraham finire su quella lista ha avuto conseguenze gravi, che hanno messo a repentaglio le loro vite e a rischio l’incolumità delle loro famiglie. Ma la censura e la repressione non si manifestano solo in casi eclatanti. Non è solo la diffamazione di figure pubbliche o la revoca di inviti a parlare, non è solo la brutalità della polizia in piazza, il lacrimogeno usato contro ragazzini, gli arresti di anziani e minori, la profilazione di chiunque porti simboli di identità palestinesi o di solidarietà alla Palestina, non sono solo i divieti di manifestazioni per la Palestina – che peraltro non sono stati in vigore per la prima volta lo scorso ottobre, ma erano già stati applicati per impedire commemorazioni della Nakba nel 2023 e nel 2022. La repressione si rivela anche nella paura diffusa di esprimersi sul posto di lavoro o nei social media per timore di compromettere la propria carriera.
Soprattutto, è la mancanza di spazi per comprendere questa violenza e per trovare nuove forme di resistenza. Sotto la spada di Damocle del taglio dei fondi anche gli spazi più critici, che per anni hanno fatto affidamento a fondi pubblici per portare avanti il loro lavoro, si auto-regolano e sacrificano la libertà di espressione per tenere in vita il progetto. È una dinamica insidiosa, che va a colpire proprio gli spazi che si pensava fossero immuni alla censura e all’imposizione autoritaria dello stato, come documenta meticolosamente il progetto Archive of silence. Attraverso il controllo dei contenuti, il background-check di individui e collettivi e delle loro posizioni politiche, l’esclusione da eventi, il rifiuto di piattaforme per parlare e luoghi per incontrarsi che non siano a rischio di razzie, lo spazio per confrontarsi e sviluppare analisi e modalità nuove, al passo con i tempi, si sta riducendo a vista d’occhio.
ANTI-ANTISEMITISMO E ANTIDEUTSCHE
La motivazione ufficiale di questa repressione totale di qualsiasi critica dell’occupazione e del governo israeliano è la lotta all’antisemitismo. In Germania, la distinzione tra antisemitismo e antisionismo è resa impossibile, perché l’antisionismo stesso viene considerato come antisemitismo mascherato. E non sembrano esserci limiti all’assurdità nell’applicazione di questo principio. L’argomentazione razionale e l’analisi storica non hanno rilevanza davanti al sospetto di “odio degli ebrei” o di (praticamente interscambiabile) “odio d’Israele”.
L’anti-antisemitismo è uno strumento utilizzato per mettere a tacere e criminalizzare comunità palestinesi, arabe, musulmane, e tutte quelle voci della comunità ebraica che non sostengono fanaticamente il progetto sionista. Come dice Rachael Shapiro, in Germania, non rientrare nell’immaginario tedesco di cosa vuol dire essere ebrei, ovvero ortodossi e sionisti, vuol dire non essere riconosciuti come veramente ebrei. E chi non sostiene il governo fascista di Netanyahu per la Germania è un ebreo che odia sé stesso. A oggi in Germania tutti, chi più e chi meno consciamente, subiscono questo clima opprimente di censura. Un clima che ai tanti esiliati politici che avevano cercato rifugio a Berlino ricorda i peggiori momenti della svolta autoritaria nei loro paesi.
Questo clima si è esasperato negli ultimi anni, in particolare dopo che nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione che definiva il movimento di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni a Israele (BDS) come antisemita. Questa risoluzione è stata uno dei motori dell’inasprimento della repressione anti-palestinese. La risoluzione non è legge, quindi non è vincolante, ma ciononostante ha creato un sospetto generale contro chi si esprime per la liberazione palestinese, in particolar modo giornaliste, autrici, attivisti e accademici palestinesi. L’intero arco parlamentare si è schierato in questa lotta anti-antisemita che viene combattuta su tutti i fronti, dalle istituzioni culturali, alle università, alle scuole, alle piazze – e che molti commentatori ebrei considerano una manifestazione esasperata di filosemitismo opprimente e paternalista. Questa risoluzione si basa sulla definizione di antisemitismo della International Holocaust Remembrance Alliance, che è stata fortemente criticata in quanto è pericolosamente generica e include critiche dello stato d’Israele come forma di antisemitismo. Nonostante le criticità, sia il parlamento tedesco, che un numero in crescita di istituzioni culturali e scientifiche, nonché la maggior parte delle università hanno adottato questa definizione.
In parte, la sua diffusione è riconducibile all’influenza di una corrente intellettuale legata al movimento “antideutsch” (anti-tedesco) della sinistra radicale tedesca. È un movimento che si definisce anti-nazionalista, nel senso che rifiuta l’esistenza della nazione tedesca in quanto esecutrice del genocidio contro gli ebrei, come espresso nel loro slogan “Nie wieder Deutschland” (mai più la Germania). Gli antideutsche sono un fenomeno peculiare, inimmaginabile al di fuori della Germania, che è nato all’inizio degli anni Novanta in opposizione ai movimenti di sinistra radicale pro-palestinesi dei decenni precedenti, presunti antisemiti, e in vista della riunificazione tedesca, che creava il rischio di una rinascita nazionalista in Germania (quindi anti-nazionalisti tranne per quanto riguarda Israele, che deve invece essere uno stato etno-nazionalista forte, come unica presunta garanzia di sicurezza per gli ebrei nel mondo). In quegli anni, negli atenei leggevano Moishe Postone ed esponenti della scuola di Francoforte, soprattutto Adorno, concludendone che qualsiasi paragone della Shoah con altri fenomeni storici era una forma di relativizzazione e che qualsiasi critica del capitalismo troppo personalizzata, non sufficientemente astratta, era antisemitismo nascosto. Così cercavano antisemitismo ovunque, con una predilezione per “l’antisemitismo di sinistra”. In più, gli anni della war on terror hanno poi dato legittimità alle tendenze più anti-palestinesi e anti-islamiche tra gli antideutsche. Con queste posizioni hanno fatto carriera, arrivando a dominare i dipartimenti di scienze politiche, filosofia e di studi ebraici, e influenzando una generazione di intellettuali tedeschi. Si è consolidata così la narrazione che nasceva da un attacco contro la sinistra militante della Germania Ovest e che vede nel popolo palestinese e in chiunque si solidarizzi con esso i nuovi carnefici del popolo ebraico.
È irritante e un sintomo stesso del problema che lo si debba dire, ma (ovviamente) le statistiche sui casi di antisemitismo registrate dalla polizia in Germania parlano chiaro: gli attacchi antisemiti sono sproporzionatamente, ovvero più del novanta per cento, di matrice di destra. Però questo dato statistico viene ignorato, si preferisce contribuire allo spauracchio dell’estremismo di sinistra. Per farsi un’idea della totale sproporzione che c’è tra i livelli di pericolosità della destra e l’inazione da parte dell’apparato di sicurezza, basta guardare alla recentissima vicenda dell’arresto di una ex militante della RAF (Rote Armee Fraktion-Frazione dell’Armata Rossa), dissoltasi nel 1998. A febbraio di quest’anno la polizia giudiziaria a Berlino ha arrestato Daniela Klette, che nel frattempo aveva compiuto sessantacinque anni, aveva abbandonato la militanza e viveva una vita tranquilla. Continua la ricerca dei due ex compagni di Klette. Mentre nel 2023 si contavano più di seicentocinquanta neonazisti latitanti, tra scandali sulla scomparsa di armi dall’arsenale dell’esercito, piani di golpe e contatti tra l’estrema destra e i servizi segreti – lo stato tedesco dispiega invece le sue forze per arrestare tre militanti pensionati. E non è un caso che lo faccia ora, contro un’organizzazione che con metodi violenti si schierava dalla parte della resistenza palestinese, a testimonianza di un periodo storico in cui anche in Germania la sinistra era internazionalista.
UN MONITO PER TUTTI
Le misure repressive descritte in principio non sono particolarmente sorprendenti o inspiegabili, anche se estreme. In Francia e nel Regno Unito si sono osservati sviluppi simili da anni, e sempre di più anche negli Stati Uniti. La particolarità della Germania, però, è la mancanza di un dissenso sostanzioso e diffuso a queste pratiche. Non solo la sinistra non si oppone alle politiche estere del governo nel contesto palestinese, ma addirittura approva misure sempre più autoritarie all’interno del paese. Quello che rende la Germania un caso straordinario e allo stesso tempo allarmante, è la complicità della sinistra nel sostegno al progetto sionista. Dai partiti, ai movimenti ambientalisti e antifascisti, il razzismo antipalestinese è totalmente normalizzato perché la sinistra è in linea con l’anti-antisemitismo e il supporto allo stato israeliano. Nelle manifestazioni di massa contro il partito di estrema destra Alternative für Deutschland in tutto il paese ci sono state aggressioni contro palestinesi ed ebrei antisionisti che erano venuti con kefiyah e bandiera palestinese. Qualche giorno fa, vicino all’università berlinese con il movimento studentesco pro-palestinese più visibile e rumoroso, sono apparse le scritte “la popolazione palestinese si raddoppia ogni venticinque anni” e “la tua critica di Israele è antisemita”.
Se gli antideutsche non hanno più una grande rilevanza come corrente della sinistra, le loro posizioni sono pienamente in linea con quelle dello stato tedesco, incluso l’attuale governo, il che rende il nome alquanto ridicolo. Gli antideutsche nel frattempo hanno cattedre universitarie, fanno i giornalisti, lavorano per Ong e fondazioni. Non si vedono più nelle piazze vestiti da black bloc con la bandiera israeliana, come negli anni Novanta a scandire “nie wieder Deutschland”. Il problema è che in un contesto come la Germania, in cui la sinistra già era debole, loro sono riusciti a dividerla ulteriormente. Gli eredi del movimento antideutsch, se non sono sionisti accaniti, sono totalmente depoliticizzati per quanto riguarda principi di sinistra come l’antimperialismo e la liberazione della Palestina e sono incapaci o disinteressati a opporsi al sostegno che la Germania fornisce a Israele.
La risposta che viene data a questa mancata solidarietà è il senso di colpa dei tedeschi per la responsabilità storica dell’Olocausto. Questa spiegazione però non basta, anzi, è fuorviante. Delle fallacie della politica della memoria nella Germania post-riunificazione altri ne parlano meglio di come potrei riassumere in breve qui. Rimane la domanda di fondo: come è possibile che la solidarietà con la Palestina sia stata soppressa per decenni al punto che oggi ci troviamo nel mezzo di un genocidio e del sostegno militare da parte del nostro governo a quello di un fascista che ha intenzione di annientare e rioccupare Gaza, con la maggior parte dei sindacati, movimenti come Fridays for Future o il partito die Linke che continuano a dichiarare piena solidarietà allo stato israeliano?
Indubbiamente, c’è più di una risposta. Qui ho solo potuto offrire degli spunti di riflessione. Quello che dice il movimento tedesco di solidarietà alla Palestina da anni è che la repressione che subisce adesso chi si solidarizza con la Palestina verrà applicata contro ogni forma di dissenso. D’altronde lo si è potuto constatare nella criminalizzazione di Ultima Generazione. In Italia stanno prendendo piede posizioni simili a quelle antideutsch, come quando Non Una Di Meno è stata criticata per aver posto al centro della giornata internazionale contro la violenza sulle donne la liberazione palestinese invece di solidarizzarsi con le vittime di Hamas. La sinistra in Italia non è immune alla presunta critica che divide i movimenti con accuse di antisemitismo. Quello che sta accadendo in Germania può sembrare distopico, ma va invece visto come un monito, un fenomeno da comprendere per prepararsi ad affrontarlo anche altrove. (lucilla lepratti)
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