Pubblichiamo a seguire l’articolo La scuola come svago radiofonico di Francesco Migliaccio, tratto dal numero 4 de Lo stato delle città.
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«Prof, può mettere Auto blu di Shiva?». Il brano è uscito da poco e non è presente nell’archivio della radio. «Allora Soldi in nero di Shiva, va bene lo stesso». Ascolto in cuffia Soldi in nero e ritrovo una citazione da Lingerie di Tedua: “Tu vuoi un beat di Charlie, ma non lo sai usare”. «Qui tutta la classe chiede di ascoltare Tha Supreme». Tha Supreme è un fenomeno che ancora non ho compreso, entità oscillante tra un compositore senza volto e un’etichetta discografica emergente. «Professore, la prego, Ringo Starr». Volete ascoltare un brano del batterista dei Beatles? La domanda è ironica, so che desiderano la canzone dei Pinguini Tattici Nucleari, la più richiesta del festival di Sanremo 2019 insieme a Musica (E il resto scompare) di Elettra Lamborghini. «Dopo la spiegazione può mettere Godzilla di Eminem?». Davvero conoscete Eminem? Quest’anno è uscito il nuovo album: gli studenti ascoltano la stessa voce che raggiungeva noi alla loro età, era il tempo di 8 Mile. Nel chiuso dello studio, tra i libri, lo schermo della chat e il microfono, noto inattese ripetizioni di esperienze tra generazioni.
Una piccola città in provincia di Torino è avvolta da una quieta, amara nostalgia del passato industriale perduto. Lo studio radiofonico si trova nella Casa Blu, la palazzina di mattonelle azzurre che accoglieva il centro ricerca della fabbrica. Mentre entravo nel corridoio deserto, una mattina, ho pensato a mio nonno che lavorava da operaio metalmeccanico nell’arioso edificio a vetri poco distante. A inizio marzo – la crisi sanitaria era esplosa ormai – ho iniziato a tenere le lezioni in radio. Ora siamo in tre davanti a un microfono – noi, professori di scuola media – e durante le dirette diffondiamo spiegazioni, brani musicali, racconti e letture, giochi di grammatica e interviste telefoniche. L’idea è nata da una vaga, immediata sensazione emersa i primi giorni di chiusura delle scuole: tenere i ragazzi di fronte allo schermo è una tortura. Perché allora non abolire l’immagine e sperimentare la trasmissione radiofonica? Una web radio cittadina è stata felice di ospitarci.
La lezione è ancora una guida alla lettura dei libri, un aiuto a selezionare le informazioni, un invito alla riflessione, ma nella fredda distanza dell’assenza. In principio la regola era semplice: la didattica a distanza non può imitare il mondo sociale della classe, dunque deve cambiare e ispirarsi alla forma del nuovo mezzo, la radio. Fin dalla prima puntata abbiamo lavorato sulla scansione del tempo, sull’alternanza tra il discorso e la musica che interrompe. «Belli Leonard Cohen e Nina Simone, ma i ragazzi chiedono altro», ci ha avvertito il primo giorno il nostro mentore radiofonico. Abbiamo inaugurato la chat e abbiamo chiesto agli ascoltatori di proporre dei brani musicali: è stato il primo stimolo di un’inconsueta interazione. Così gli studenti partecipano all’andamento della diretta – come nel più classico dei programmi – e hanno l’opportunità di proporre ai compagni una melodia amata. E noi, che prima lamentavamo la loro discontinuità d’attenzione, moduliamo ogni giorno nuovi ritmi di svago e concentrazione. Sullo schermo appaiono richieste varie: “A che pagina siamo?”, “Non vi sentiamo più”, “Ma quanto dura ancora?”. Durante le lezioni di geometria inviano le foto dei disegni, gli assi cartesiani in aritmetica. Un giorno un allievo mi ha scritto: “Allora le sirene promettono a Ulisse la conoscenza, perché è il suo desiderio più grande. A ogni navigatore le sirene cantano il suo sogno intimo”.
Dopo i primi giorni di euforia per la chiusura delle scuole, i ragazzi hanno confidato di provare un senso di noia e di vuoto, di solitudine, nostalgia dei compagni. Alcuni hanno scoperto nuove vie di concentrazione, hanno rivelato un’inaspettata forza interiore, altri si sono smarriti nel malessere soffocante della loro stanza. Per tutti vorremmo che la radio sia una forma di intrattenimento e non solo di didattica. Abbiamo coinvolto amici in Germania, Spagna, Austria e Polonia che hanno raccontato le misure sanitarie laggiù, i loro laboratori di biologia, le ricerche nella musica popolare balcanica. Abbiamo diffuso le memorie di una staffetta partigiana novantenne e abbiamo chiesto a un attore e cantante di raccontare come funziona l’apparato respiratorio. Abbiamo introdotto le lezioni di matematica con racconti di fantascienza e abbiamo organizzato campionati di grammatica con una classifica in costante aggiornamento. Abbiamo letto in diretta i racconti epistolari e i diari dei ragazzi, così esperienze e pensieri comuni si sono mescolati, intrecciati. Poi alcuni di loro hanno scritto lettere dalla Luna nel 2050 (l’umanità si è rifugiata lassù dopo una terribile epidemia), appunti dagli abissi marini dal 2023, resoconti redatti su caccia in accelerazione celeste.
In principio non avevo coscienza della direzione, né conoscevo il senso. Solo ora, dopo settimane di sperimentazione, posso tracciare le prime linee di un territorio inesplorato. Durante ogni diretta registriamo le voci e creiamo un podcast: l’evento e la sua riproduzione tecnica sono i confini del nostro mondo. Per ascoltare è necessario soltanto un telefono in connessione dati, così il divario tecnologico non è annullato, ma limitato almeno. Grazie alla registrazione gli studenti, se vogliono, possono ritornare sui passaggi difficili. Inoltre non sono obbligati a seguire la diretta: se non hanno voglia, se preferiscono fare altro, hanno la possibilità di scegliere quando accogliere la voce dell’insegnante. Ancora, possono ascoltare le lezioni sul balcone o al cesso, possono cucinare, giocare, correre per casa mentre ci rivolgiamo a loro. Alcuni mi hanno scritto che la facoltà di movimento favorisce la concentrazione. In radio noi – docenti e studenti – abbiamo scoperto il sapore inatteso d’una libertà.
Questo è un tempo in cui la scuola dell’obbligo, travestita da video-lezione, migra dallo spazio pubblico al privato, dall’aula allo schermo in camera. È possibile svolgere un appello in soggiorno, porre repentine domande per controllare che l’alunno sia attento, interrogare a distanza. «Prof, io sono onesta, lo voglio dire, in un’interrogazione a distanza potrei anche barare». Questa, tuttavia, è un’argomentazione già inserita nella dinamica del controllo virtuale e mi sembra che il problema sia all’origine: per quale motivo interrogare a distanza? Quanto è rischioso replicare gli antichi poteri nei simulacri di volti che sullo schermo si scrutano? Intuisco che l’insegnamento, se ancora è possibile, riguarda la parola e la voce prima dell’immagine. Allora la voce entra nelle case meno violenta e indagatrice dell’occhio. I ragazzi non sentono addosso il controllo, non devono stare seduti composti, non devono rispondere a un appello, non devono trasformare il loro spazio intimo in spazio pubblico. A volte li immagino in pigiama che mi ascoltano mentre inizia una partita di Fortnite e questa fantasia non mi disturba. Se si distraggono e non capiscono, potranno ritrovare le mie parole.
Chiedo loro di restituirmi i compiti svolti, questa l’unica pretesa. E per rispondere alle domande, certo, è necessario ascoltare almeno la registrazione. I compiti quotidiani, una volta abolite le prove individuali nel silenzio della classe, sono i sintomi per una diagnosi della comprensione e dell’apprendimento. Finalmente siamo liberi dai voti ottenuti con medie numeriche estratte da verifiche e interrogazioni, le note non hanno più senso, i richiami all’ordine sono svaniti. Soltanto ora, a distanza, vedo meglio le contraddizioni del mio ruolo, le griglie in cui ero rinchiuso, le sfumature del potere che esercitavo in nome della valutazione. Auguro ai ragazzi di tornare in classe al più presto, perché nulla può sostituire la dimensione sociale e collettiva dell’insegnamento in compagnia. Io, oggi supplente, non ci sarò più. Chissà se per loro, almeno nella memoria e nella coscienza, questo nostro stato d’eccezione radiofonico non possa tradursi in una norma possibile. (francesco migliaccio)
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