Transizione energetica. Passaggio dallo stato corrente di produzione energetica, basato principalmente sull’uso di fonti non rinnovabili come petrolio, gas e carbone, a un più efficiente e meno inquinante mix di energie rinnovabili.
La posizione favorevole della Sardegna al centro del Mediterraneo ha fatto sì che negli ultimi decenni l’isola venisse sempre più sfruttata strategicamente per fini militari e logistici, a cominciare dallo spostamento e la trasmissione di importanti materie prime. Dietro questo fattore geopolitico vi sono due condizioni importanti di disponibilità. La prima è di carattere socio-geografico, in riferimento al grado di spopolamento dell’isola (la Sardegna ha il tasso di densità abitativa tra i più bassi in Europa, e larghe fette di terreno non antropizzate, condizione che ha costituito una delle motivazioni formali principali per l’installazione delle quattro grandi basi militari presenti); la seconda è la possibilità per lo stato italiano di disporre – e di mettere a disposizione – di una parte di territorio per fini di estrazione di risorse, in un contesto di subalternità dell’isola, un territorio in sotto-sviluppo necessario a sostenere e garantire la crescita di interi settori, e lo sviluppo dell’economia nazionale. Si tratta di condizioni e fattori che, se guardiamo al tema dello sfruttamento energetico, ritroviamo in altre aree dei sud mondiali con caratteristiche simili (dalla Sicilia alla Grecia, dall’Andalusia alla Galizia, dal Messico al Maghreb). Aree con caratteristiche che agevolano ampie possibilità d’efficientamento delle cosiddette energie rinnovabili: presenza di sole e luce per larga parte dell’anno, forti venti, e così via.
La Sardegna si caratterizza per un alto livello di produzione energetico-industriale, sia nel suo passato che nel presente. Investita fin dagli anni del Regno Sabaudo da forti disboscamenti e sfruttamento del suolo per attività minerarie (in particolare carbone), l’isola ha una storia industriale che lascia evidenti tracce nel paesaggio, nella salute e nel tessuto sociale dell’area. Tracce devastanti che hanno determinato, a beneficio di interessi perlopiù esterni, riassestamenti e cambiamenti continui nell’ambiente geografico. Allo stato attuale, ancora funzionanti sono poche ma importanti industrie energetiche: due centrali elettriche a carbone (una a Porto Torres nel nord, e una a Portoscuso nel sud-ovest), localizzate in grossi poli industriali investiti, da anni, da polemiche riguardanti il mancato rispetto dell’ambiente. E la Saras, la più grossa raffineria del Mediterraneo, colosso che produce da solo grossa parte del fabbisogno energetico sardo, tramite la messa a valore degli scarti del petrolio. La Saras è però anche azienda pionieristica negli investimenti green in ambito energetico eolico, fotovoltaico e a idrogeno. Così, se le due centrali a carbone sono state prese di mira dal “phase-out” europeo 2025 (la strategia internazionale che ha l’obbiettivo di spegnere le centrali fossili per ridurre le emissioni), rinviato comunque dalla regione Sardegna al 2027, sui disastri ambientali provocati dalla Saras nessuno ha avuto nulla da dire. Intanto, una procedura per la costruzione di un enorme metanodotto che dovrebbe rifornire tutta l’isola di gas metano (combustibile fossile tra i più inquinanti) è attualmente in corso; secondo gli ultimi accordi, la sua base unica dovrebbe essere a Porto Torres, tramite nave gasiera. Il fine, considerando l’inutilità dell’operazione per il soddisfacimento del fabbisogno sardo, e alla luce dei progetti di rigassificatori lungo la costa, è quello di permettere il rifornimento delle navi mercantili lungo le tratte mediterranee, ma anche quello di accompagnare, come energia ponte, il processo di superamento del carbone, dando una seconda vita alle industrie fossili attraverso la conversione del combustibile.
In questo scenario si è sviluppata una piccola rete di impianti legati alle energie rinnovabili distribuita sul territorio, dopo una prima ondata di progetti implementati tra il 2008 e il 2012, talvolta oggetto di indagini (come il caso Narbolia o la loggia P3 dell’eolico¹). Impianti per lo più in mano ad aziende multinazionali o a enti di stato, italiani o stranieri, ben più grandi di quelli idroelettrici utili giusto a far ripartire la rete in caso di crollo.
Allo stato attuale, la produzione energetica nell’isola supera il fabbisogno di un quarto rispetto della produzione totale: il resto dell’energia è un surplus, non necessario, ma devastante per gli equilibri del territorio. Questa energia viene esportata tramite due cavi sottomarini che la conducono in Italia, ma nel suo complesso l’infrastruttura energetica sarda è piuttosto arretrata, con poche sottostazioni, linee vecchie e capacità di trasmissione bassa. Un problema che diventa evidente durante la stagione estiva nelle località turistiche, dove da una parte il sovraccarico causa numerosi blackout, e dall’altra le pressioni degli imprenditori del settore provocano la disattivazione di alcuni circuiti (come l’idroelettico del Coghinas, il cui funzionamento influirebbe sulla limpidezza del mare, provocando il malumore dei proprietari dei resort della Gallura).
A partire dal 2018, ma soprattutto negli anni del Pnrr e dell’esplicitazione della politica di transizione ecologica, si è registrata un’impennata dei progetti legati alle energie rinnovabili in Sardegna. Parliamo soprattutto di eolico a terra e a mare, ma anche di grossi campi fotovoltaici o agrovoltaici. In ballo in questo momento ci sono circa duecento progetti green, e altri ancora continuano ad arrivare agli uffici tecnici dei comuni, ignari fino all’ultimo di questo bombardamento. L’ammontare della capacità di produzione energetica sarda, qualora venissero costruiti tutti gli impianti, è stimata per una quantità quasi cinque volte maggiore rispetto alla produzione energetica attuale: da dodici gigawatt a più di cinquanta, una cifra da capogiro per un totale di circa duemila pale eoliche e ventimila pannelli solari.
Questa strategia è stata naturalmente pianificata in tavoli che con la Sardegna non hanno nulla a che fare, e da personaggi che non hanno mai visto i luoghi dove dovrebbero essere impiantate le pale: terreni agricoli appartenenti spesso da numerose generazioni agli stessi coltivatori, che vengono presi in considerazione come terra già in vendita; fatto un sondaggio informale presso i proprietari, si passa in tempi rapidissimi alla proposta di acquisto o direttamente all’esproprio, facilitato dalla denominazione di “interesse nazionale” dei parchi eolici da parte del governo Draghi. Alcune aziende hanno già fiutato il business (sono le stesse che hanno già costruito gli impianti); altre sono società anonime di comodo, destinate a essere inglobate dai pesci più grossi, per accentrare in poche mani tutto il profitto conseguente.
Mettiamo il caso, però, che anche i terreni si trovassero e si fosse disposti a cederli. La rete elettrica sarda non sarebbe in alcun modo in grado di reggere questa mole di produzione e trasmissione. Un problema che finirà con ogni probabilità per produrre un nuovo business, con progetti di batterie di accumulo e sottostazioni varie, e con altre fette di territorio da privatizzare e “riconvertire” a beneficio di poche enormi aziende. Ma non finisce qui. Il fiore all’occhiello degli interessi di Stato nel processo di transizione – tutelati e rappresentati da Terna, il discusso ente che si occupa del dispacciamento d’energia – è la costruzione di un nuovo cavo sottomarino, il Tyrrhenian Link, che passando dalla Sardegna alla Sicilia, e dalla Sicilia alla Campania, garantirebbe al continente un flusso di energia interamente prodotta nelle isole, che diventerebbero veri e propri grandi hub di produzione.
In questa fase l’“assalto eolico” continua ad avere forma cartacea, sebbene qualche esproprio sia già cominciato e la regione Sardegna si sia messa a disposizione, pensando di poterne trarre dei vantaggi. I motivi di questi rallentamenti non sono chiarissimi ma di certo intuibili: da una parte la lentezza della burocrazia di stato; dall’altra è possibile che una parte dei progetti presentati si vogliano limitare alla fase progettuale, sufficiente per ricevere i fondi europei di compensazione verde alle emissioni inquinanti (un business finanziario di cui le multinazionali del fossile, tra le altre, giovano parecchio).
Il territorio sardo si appresta così a subire una trasformazione determinante che potrà seguire molte direttrici, considerando le opzioni che si concretizzeranno in termini di filiera di produzione, di rapporto tra centri urbani e non, della cooptazione delle soluzioni proposte e creazione di nuovi movimenti di forza lavoro e saturazione degli esistenti. Sarebbe utile tuttavia, alla luce di ciò, che si provasse almeno a riformulare una definizione di questo processo. Per esempio:
Transizione energetica. Processo di re-industrializzazione globale che verte sulla massiccia occupazione di suolo in territori sacrificabili, trasformati in batterie o in miniere a cielo aperto in nome dell’ecologia. Questi territori che aggiungeranno la propria produzione energetica a quella, incrementata, di combustibili fossili, per produrre la quantità di energia necessaria a soddisfare le esigenze crescenti della società iper-tecnologica attuale e mantenere il più possibile in piedi lo stile di vita contemporaneo in sempre meno sacche di benessere. (-mc)
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¹ Alcuni link utili sul “caso Narbolia”, le inchieste giudiziarie sul business del fotovoltaico e dell’eolico, il processo alla loggia P3
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