Rosaria è una signora di mezza età di una cittadina dell’hinterland napoletano. Madre e moglie, una vita che scorreva tranquilla fino all’arrivo della pandemia. Un lutto per una persona cara morta di Covid e l’esordio degli attacchi di panico l’hanno spinta a rivolgersi a uno sportello di supporto psicologico gratuito messo su da alcuni privati. Quattro colloqui gratuiti con la possibilità di svolgerli sia in presenza che online. Per accedere basta una e-mail o un messaggio a una pagina Facebook ed entro qualche giorno si viene ricontattati. Niente a che vedere con i tempi d’attesa purtroppo spesso molto più lunghi del servizio pubblico.
L. è una donna di trentasette anni, con una fobia sociale pre-esistente e acuita dal periodo. Anche lei si è rivolta al medesimo sportello, dopo che l’Asl di zona le aveva prospettato un’attesa di circa dieci mesi prima di poter avere un consulto. Le richieste che arrivano allo sportello sono trasversali: dinamiche familiari complesse esacerbate dalla vicinanza forzata, persone di età diverse le cui vite sembrano improvvisamente aver perso di senso, un profondo sentimento di solitudine che le accompagna. I casi seguiti dagli psicologi in questo periodo sono spesso accomunati da un filo rosso: è come se la pandemia avesse segnato, per molti, uno spartiacque tra la vita di prima e quella di adesso. Da quella che viene considerata la data d’arrivo del virus in Italia è passato un anno e, a oggi, sono aumentati il consumo di ansiolitici e le richieste di supporto psicologico. Soltanto fino a giugno 2020 sono state cinquantamila le richieste arrivate al numero verde per il supporto psicologico attivato dal ministero della salute con la Protezione civile. La pandemia ha giocato un ruolo non trascurabile nell’incremento di sintomatologie depressive e di suicidi tra i più giovani. Se, da un lato, la convivenza forzata e le conseguenze del Covid sulla sfera economico-lavorativa hanno contribuito a esasperare situazioni di malessere pregresse, dall’altro l’isolamento sociale ha obbligato molti a fermarsi e riflettere sulla propria vita, a mettere in discussione l’imperativo dominante, quello di andare più velocemente possibile.
Lo sportello a cui si sono rivolte le due donne non è l’unica iniziativa del genere nata nell’ultimo anno. Associazioni, singoli psicologi, in alcuni casi i comuni, hanno messo in piedi sportelli di ascolto o di supporto psicologico gratuiti o a tariffe agevolate. Iniziative che hanno fatto da tampone a un disagio diffuso, ma che rivelano anche l’inefficienza del pubblico nel fare fronte alla richiesta. Sono vari i nervi scoperti dei servizi pubblici per la salute mentale che affiorano in questo periodo. A parlare delle criticità ataviche che si incontrano nelle Asl è Carmela Longo, psicoterapeuta al SerD, il servizio per le dipendenze di Telese Terme, comune della provincia beneventana: «Spesso – dice Longo – i servizi sono dislocati in aree non adeguatamente servite dai mezzi pubblici, cosicché risulta difficile per gli utenti accedervi. Spesso le sedi sono al limite dell’abitabilità, senza adeguamenti per le persone diversamente abili, non idonee strutturalmente. Questi problemi sono resi più evidenti dalle necessità del distanziamento sociale e di prevedere opportune vie di entrata e di uscita. Spesso sono insufficienti anche la rete internet e i supporti tecnico-informatici, che non consentono di partecipare a videochiamate e riunioni online. Gli operatori, per fare fronte a tale mancanza, utilizzano per lo più il loro cellulare, sia con gli utenti che con gli operatori di altri servizi per le riunioni di rete».
I servizi per le dipendenze, nello specifico, devono tenere conto delle continue evoluzioni del fenomeno, con un’utenza che va intercettata nel suo contesto, sul territorio. Risulta quindi di primaria importanza favorire un lavoro capillare, migliorando l’integrazione tra i servizi pubblici e tra questi e il privato sociale. Prosegue la dottoressa Longo: «Il servizio sociale, il servizio pubblico per le dipendenze patologiche, gli altri servizi sanitari e territoriali nonché quelli ospedalieri, devono sapere e potere lavorare in rete, ancora di più in una situazione come quella che stiamo vivendo. Ma innanzitutto lo devono volere. La legge 328/2000 da sola non potrà inculcare la voglia di lavorare in rete, se questa voglia non c’è. La burocrazia spesso ostacola questo lavoro. In un articolo comparso nel 2013 su Forum PA, Carlo Mochi Sismondi parla di necrofilia amministrativa. Il necrofilo amministrativo si riconosce dalla costante paura della responsabilità e dall’incapacità di guardare fuori dal suo palazzo. Io penso che molte Asl si siano messe, nascondendosi dietro la pandemia, in modalità di necrofilia amministrativa, ancora di più rispetto a quello che già facevano».
In questo contesto, allora, è più che mai necessario interrogarsi ancora una volta sulle radici sociali e politiche della salute mentale, sulla tendenza diffusa a considerarla una questione privata, da risolvere tra le mura domestiche, attraverso percorsi farmacologici o psicoterapeutici ma, per la maggioranza dei casi, individuali. Tutto questo rischia non solo di colpevolizzare l’individuo che soffre, ma anche di de-responsabilizzare la collettività che invece dovrebbe farsene carico. Lo psichiatra Benedetto Saraceno nel suo libro Psicopolitica sostiene che è la città stessa a produrre sofferenze e malattie che sono collettive, perché colpiscono gruppi interi di soggetti vulnerabili. Il paradosso è che la stessa città nega questa dimensione collettiva e fornisce risposte che sono de-soggettivanti. Scrive Mark Fisher in Realismo capitalista: “L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro de-politicizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme”. E lancia la sfida di ri-politicizzare la salute mentale: “Non esiste – scrive – niente che sia innatamente politico: la politicizzazione richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una messa-in-palio”.
Cosa c’è oggi da mettere in palio? Forse il concetto stesso di cura. Il primo passo per la ri-politicizzazione della salute mentale è riscoprirsi parte di una comunità che si prende cura dei suoi individui. In un percorso di psicoterapia la cura passa anche per il riconoscimento e la valorizzazione delle risorse dell’individuo. Il percorso di una comunità dovrebbe assecondare questo tipo di movimento. Curare vuol dire anche riconoscere gli individui per le loro potenzialità. La cura passa anche per i diritti di cittadinanza. L’Italia può vantare anche esempi virtuosi che hanno dimostrato come soddisfare il bisogno di un’abitazione, di un lavoro, di relazioni sociali appaganti per i pazienti psichiatrici migliori il loro stato di salute. Ma la questione non può, come invece sta avvenendo in modo sempre più accelerato, essere delegata unicamente a cooperative e realtà del terzo settore. Bisogna che ci coinvolga tutti. (giulia tesauro)
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