Venerdì 19 dicembre, alle ore 21,30, nell’ambito della rassegna Astradoc, sarà proiettato al cinema Astra (via Mezzocannone, 109) il film The New Wild. Life in the Abandoned Lands di Cristopher Thomson. Sarà presente il regista.
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Era estate nella Liguria interna, vicino alla frontiera francese. Pranzavamo nel porticato della casa rosa e sopra di noi vedevamo un paese arrampicato sulla parete aprica. Al tavolo sedeva il sindaco e diceva: «Oggi è difficile tornare a coltivare perché i cinghiali infestano le colline in abbandono. Devastano, scavano, fanno crollare i muretti a secco che sostengono le vecchie terrazze. Questi cinghiali provengono dal nord Europa e dalla Jugoslavia; sono i porcastri, più grossi dei nostri, più prolifici. Sono stati i cacciatori, decenni fa, a portarli qui. Ancora ricordo quella volta, erano gli anni Settanta, quando uccidemmo il primo cinghiale e il cadavere fu trascinato in piazza, sotto i due campanili. La novità aveva richiamato tutto il paese: uomini e donne e bambini erano in cerchio intorno alla bestia, avevano gli occhi sgranati».
Le colline franano, le terrazze si disfano smussate dall’acqua, i rovi s’avvinghiano ai ciottoli dei sentieri e gli animali selvaggi – come il wild boar, verro selvatico – abitano le foreste cresciute dietro casa. Dove un tempo erano coltivi, ora una nuova natura ritorna e ricopre l’abbandono. Sono ricordi e pensieri evocati dalla visione di The New Wild. Life in the Abandoned Lands di Cristopher Thomson. Sullo schermo vedo un antico muro cadente che argina un cammino, dalle fenditure crescono felci e muschi bruniti; fra alberi vestiti d’autunno compare appena una costruzione solitaria dalle cui finestre senza vetri s’affacciano verzure emergenti; «una fila di faggi che segnava un vecchio confine ora torreggia su giovani alberi da entrambi i lati» sussurra al mio orecchio una voce; un ruscello scorre ancora, ma la ruota del mulino giace inerte e arrugginita. Il “new wild” è una natura ritornante in luoghi che abbiamo dimenticato: le erbacce di ieri sono ora boschi senza vie, senza confini.
Le immagini del film di Thomson negli occhi, ritrovo un piccolo libro di Tocqueville: Quindici giorni nel deserto americano. Tocqueville racconta un’esplorazione del nuovo mondo, stende le memorie della traversata de «l’interno di una foresta vergine». Sono distese silenti, deserti boschivi ancora intatti, che attendono l’avanzata irresistibile della civiltà bianca: «I soli sentimenti che si provano percorrendo questi deserti fioriti […] sono un’ammirazione tranquilla, un’emozione dolce e malinconica, un disgusto vago della vita civilizzata, una specie di istinto selvaggio che fa pensare con dolore che presto questa deliziosa solitudine avrà cessato di esistere». Lo scritto di Tocqueville mi sembra l’anello di congiunzione fra le passeggiate sognanti di Rousseau e le camminate di Thoreau. Quest’ultimo, trent’anni dopo Tocqueville, scrive: «Lasciatemi vivere dove desidero: da questo lato della città, da quel lato delle lande selvagge. E sempre più lascerò la città, ritirandomi nel selvaggio. […] Datemi gli oceani, i deserti o le terre selvagge!». Erano i tempi del “vecchio Wild”: l’uomo occidentale, turbato dal progresso, trovava rifugio in paesaggi ancora vergini. Il “nuovo Wild” di Thomson, invece, cresce sui resti dimenticati di una civiltà contadina sepolta come i templi dei Maya.
Thomson raccoglie le immagini lungo l’arco alpino orientale italiano, a ridosso dei confini austriaci e sloveni. Ecco una porta dal legno smangiato: qualcuno, prima di andarsene, ha lasciato le forbici appese a un chiodo conficcato alla parete. Uno straccio per lavare a terra è disteso su un filo, una molletta ingrigita ne morde il tessuto. «Dentro un cartone umido un topo sgranocchia foto ingiallite», mi dice ancora la voce; appare poi un vecchio ingresso di pietra incrostato dal muschio. Gli oggetti umani sono immobili, come cristallizzati in un eterno presente, e mi domando: sono forse diventati natura? Eppure la natura, intorno, scorre come l’acqua di un ruscello, si muove indifferente come i raggi del sole che presto spariranno dietro il crinale. In questo mondo le cose che appartennero agli uomini respirano un tempo di mobile quiete, deragliato dalle rotaie del prima e del dopo. Mi torna a mente una scena dove John Berger s’aggira in un boschetto: le innumerevoli direzioni possibili gli suggeriscono una forma del tempo alternativa alla retta linea del progresso. Berger sta recitando in Case sparse. Visioni di case che crollano di Gianni Celati dove vecchie cascine abbandonate nella pianura appaiono come lontane costruzioni aliene, immerse in un tempo antico che fluisce come il Po.
La voce che accompagna le immagini in The New Wild è un sussurro che attrae lo spettatore dentro l’immagine: il paesaggio non è davanti a me, ma intorno. La parola umana, per quanto flebile, riscalda e rassicura l’esploratore che si trova di nuovo smarrito nella solitudine d’un deserto di fronde. «Perché dobbiamo pure confessarlo: il paesaggio ci è estraneo, e terribilmente solo è l’uomo in mezzo agli alberi che fioriscono e ai ruscelli che scorrono; soli con un morto, non si è alla lunga abbandonati come soli con degli alberi. Per quanto grande possa essere il mistero della morte, ancora più grande è il mistero di una vita che non è la nostra vita, che non partecipa alla nostra e che, come ignorandoci, celebra feste alle quali noi guardiamo con un certo imbarazzo, come ospiti sopravvenuti per caso e che si esprimano con una lingua diversa». Sono frasi ritrovate sfogliando un vecchio libro di Rilke.
Un angelo di pietra con i boccoli e le ali distese emerge fra le foglie secche e mi avverte che il “new wild”, per quanto remoto e silente possa apparire, è civiltà umana trasfigurata: i campi coltivati, le vigne e gli alberi da frutta si sono tramutati, come per incantesimo, in natura selvaggia. Allora non è tanto interessante il dualismo fra natura e cultura, quanto la mutazione, il processo di transizione da una condizione ad un’altra. (La trasfigurazione mi sembra un esercizio fecondo. I paesaggi di Gomorra s’impongono oltre e nonostante la sceneggiatura e sono forse le apparizioni più stimolanti della serie. A volte gioco con gli sfondi: immagino che la metropoli sia intrico organico e frondoso, i quartieri giungle pericolose; vedo allora i piloni del cavalcavia innalzarsi come querce annose). Mi dice la voce di The New Wild: «Se ci ricordassimo di vedere la cultura nei nostri paesaggi naturali, forse vedremmo la natura nei nostri paesaggi umani».
Alla fine del viaggio Tocqueville scorge lontano un “indiano”. Che cosa vede, e cosa sente l’indiano? «Non saprei dirlo», scrive l’europeo. Ora posso immaginare che l’uomo selvaggio non veda il “wild”, né possa averne mai inventato il concetto. La “natura selvaggia” è la più insidiosa delle proiezioni: un trucco inventato da una civiltà afferrata dalla nostalgia di quanto s’è perduto. Thomson si trova a Dordolla, villaggio che «siede precario al margine di un momento», un’aggregazione di civiltà che cresce fra il mondo delle città e il silenzio immemore del “new wild”. Dordolla è il luogo giusto per saggiare la frontiera mobile delle opposizioni – forse, a chi vive laggiù, sarà possibile un giorno vedere il paesaggio nell’attimo puro, e selvaggio, dove le cose non abbisognano più di parole. (francesco migliaccio)
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