Sarà presentato domani, martedì 13 dicembre alle 17:30, a Roma, alla biblioteca Enzo Tortora (via Nicola Zabaglia, 27/b), il libro La residenza contesa. Rapporto 2022 sulle migrazioni interne in Italia a cura di Michele Colucci, Stefano Gallo ed Enrico Gargiulo.
Discuteranno del volume con gli autori Lucie Bargel (Université Côte d’Azur) e Francesco Ferri (Action Aid Italia).
Pubblichiamo a seguire un estratto dall’introduzione del libro.
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Nel racconto Il gaio futuro, pubblicato nel 1972, Ennio Flaiano si sofferma sulle peripezie di un uomo che si reca all’anagrafe a causa di un documento ricevuto con un nome sbagliato. Il protagonista resta allo stesso tempo turbato e affascinato dagli uffici, dal personale, dalle richieste dei cittadini. Descrive l’anagrafe come un ambiente in cui le persone sono «preoccupate di essere ciò che sui registri non risultano». Più di un secolo prima, in un capolavoro di Nikolaj Gogol’ veniva narrata una vicenda tratta da un fatto di cronaca: un losco faccendiere acquistava le “anime morte”, ossia i servi della gleba registrati nel censimento e poi deceduti, formalmente ancora validi per provare la ricchezza di un proprietario. In entrambi i casi il mondo delle carte validate dal sistema burocratico aveva degli effetti concreti sul mondo reale, generando inquietudini e reazioni.
La spinta a occuparci del tema della residenza, oggetto di questo volume, ha origine da un’evidenza con cui hanno fatto i conti generazioni di funzionari pubblici, scienziati sociali, osservatori e soprattutto persone in carne e ossa, preoccupate di non trovare nei registri ufficiali un riscontro effettivo della propria esistenza. Si tratta della stessa evidenza che aveva notato Flaiano e che attraversa a ben guardare tempi e spazi differenti. Soprattutto in età contemporanea, la certificazione anagrafica della residenza rappresenta una sorta di certificazione di esistenza in vita. Quando tutto fila liscio, quando la corrispondenza tra residenza reale e residenza legale non viene messa in discussione, la questione non si pone. Ma appena sorgono problemi, intoppi e dinieghi la questione può balzare agli occhi come un ostacolo insormontabile alla fruizione dei diritti più elementari.
La centralità del tema si è resa sempre più evidente negli ultimi anni a partire da diversi lavori di carattere storico, demografico, sociologico e statistico, in cui possiamo annoverare anche il progetto di ricerca sulle migrazioni interne da cui sono scaturiti dal 2014 a oggi sei volumi, fino a questo. Il tentativo di intrecciare percorsi differenti, ma vicini nelle domande e nelle strategie interpretative, ha suggerito la presenza di un terzo curatore, Enrico Gargiulo, sociologo che da tempo sta portando avanti analisi a più livelli sul tema della residenza. Le domande su cui sollecitare i saggi che compongono questo volume sono quindi scaturite da un confronto autenticamente interdisciplinare, che ci auguriamo possa essere apprezzato e letto nei suoi caratteri laboratoriali. Per mappare, quantificare e descrivere la mobilità territoriale entro i confini nazionali si comincia sempre analizzando i cambia- menti di residenza tra un comune e l’altro. Ma quanti movimenti migratori sfuggono a tali rilevamenti? E soprattutto: cosa succede quando si scava in profondità dentro gli atti amministrativi di richiesta e attribuzione della residenza? Quali sono le dinamiche sociali, i conflitti, gli interessi che emergono? Con questo volume intendiamo costruire alcune risposte a questi quesiti, mettendo in relazione innanzitutto il fenomeno delle migrazioni con il tema dell’iscrizione all’anagrafe e degli spostamenti di residenza ma allo stesso tempo indagando ad ampio raggio – sulla base di contributi provenienti da campi disciplinari differenti – la centralità della residenza come questione sociale e politica.
Il tema rappresenta una costante nelle inchieste sociali sull’Italia contemporanea fin dagli anni della ricostruzione post-bellica e del miracolo economico. Come verrà analizzato approfonditamente in diversi contributi del volume, l’Italia repubblicana eredita dal fascismo una legislazione che vincola il cambio di residenza da un comune all’altro (e quindi il diritto a un percorso migratorio non irregolare) alla sussistenza di un contratto di lavoro nel luogo di destinazione. Questo «peccato originale» dell’Italia repubblicana produce immediatamente effetti sociali pesanti, aumentando le disuguaglianze e le discriminazioni: chi si sposta nelle medie e grandi città e non è in grado di rispettare i requisiti per il cambio di residenza è privato della possibilità di iscriversi all’anagrafe e, quindi, di numerosi diritti fondamentali. A essere interessate dall’esclusione anagrafica sono fasce ampie e numerose della popolazione: circa un milione di persone alla fine degli anni Cinquanta, come si può leggere nel saggio di Michele Colucci in questo volume.
Franco Alasia e Danilo Montaldi nel celebre Milano, Corea del 1960 ricordano come i non residenti a Milano potessero accedere solo alle risorse fornite dalla Chiesa cattolica e dagli enti assistenziali non pubblici. La mensa dell’Eca, Ente comunale di assistenza, era ad esempio riservata solo ai residenti in città. Nella stessa inchiesta, riportano le testimonianze di coloro che denunciano gli arbitri degli uffici comunali nell’assegnazione della residenza, i raggiri e le raccomandazioni, come ricorda Pasquale P., immigrato pugliese: «Io confermo che voi date la residenza con un biglietto del prete». In Borgate di Roma, Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta (1960) individuano nella mancanza di residenza uno degli elementi centrali su cui si basava lo sfruttamento della manodopera immigrata nella capitale. L’elenco di inchieste e testimonianze potrebbe continuare a lungo e non finirebbe con il 1961, anno in cui finalmente il Parlamento italiano approvò l’abrogazione delle leggi fasciste sull’urbanesimo. La questione della residenza rappresenta, infatti, un terreno di conflitti anche nella fase successiva, nel corso dei decenni seguenti, proprio perché si trova al centro di interessi divergenti e convergenti allo stesso tempo degli enti locali, dei soggetti sociali, dei decisori politici, dei prefetti, dei questori. L’arrivo dell’immigrazione straniera sul territorio nazionale – diventato di massa a partire dagli anni Settanta – ha poi aggiunto ulteriori fattori di criticità e livelli di stratificazione nell’accesso ai diritti.
Oltre alla spinta proveniente dal legame indissolubile tra lo studio delle migrazioni e l’accesso alla residenza e alle anagrafi, questo volume nasce anche all’interno di un preciso contesto storico, politico e sociale. Negli ultimi quindici anni, infatti, in Italia il peso dell’uso della residenza come strumento di accesso e negazione dei diritti sociali e civili è cresciuto in maniera esponenziale. Tale crescita ha conosciuto due momenti di grande visibilità pubblica, sui quali si soffermano lungamente alcuni contributi del libro: l’approvazione del Piano casa nel 2014 attraverso la cosiddetta Legge Renzi-Lupi e l’approvazione dei decreti sicurezza nel 2018 a opera dell’allora ministro dell’Interno Salvini. Il tema della residenza ha quindi conosciuto un’inattesa popolarità, dovuta alle polemiche e alle proteste che hanno accompagnato tali provvedimenti. Alla luce della visibilità assunta dalla questione, abbiamo ritenuto opportuno proporre in questo volume alcune chiavi di lettura e approfondimenti con lo scopo di comprendere la dimensione strutturale della residenza come terreno di conflitti, da non delimitare soltanto all’interno di determinate congiunture storiche o politiche ma da saper declinare in maniera ampia, come elemento di lunga durata al confine tra la dinamica giuridica, politica, sociale e amministrativa. […]
LE PROPOSTE DEL VOLUME
La residenza è, secondo una diffusa e felice formula, un “diritto a esercitare altri diritti”. Dal punto di vista giuridico, si tratta di un istituto piuttosto semplice [Dinelli 2011; Morozzo della Rocca 2017]: l’articolo 43 del Codice civile definisce la residenza come il luogo di dimora abituale e la differenzia dal domicilio, che costituisce la sede principale degli affari e interessi individuali. Le due nozioni rimandano a stati di fatto diversi, ossia a stili di vita e rapporti con il territorio tra loro piuttosto dissimili. La residenza esprime una presenza materiale, presupponendo di conseguenza la disponibilità di un alloggio – anche precario o di fortuna – e una certa stabilità temporale. Il domicilio si riferisce invece a un legame elettivo, vale a dire a relazioni di carattere economico o semplicemente affettivo che possono essere rarefatte nel tempo e sussistere anche a distanza o, comunque, in assenza di un radicamento alloggiativo. […]
Chiaramente, a seconda che si segua il criterio della residenza o quello del domicilio la registrazione avviene con modalità diverse: nel primo caso si va a verificare che la persona dimori in modo abituale nel luogo indicato, mentre nel secondo che abbia un qualche legame con il territorio comunale. I controlli da effettuare sono perciò differenti: da un lato hanno a che fare con la presenza fisica; dall’altro con interessi e relazioni, anche puramente affettive, che non presuppongono un rapporto materiale con lo spazio municipale. Di conseguenza, se per le persone dimoranti abitualmente la residenza anagrafica viene riconosciuta in un’abitazione – o, comunque, in un «luogo», anche se precario – per le persone senza fissa dimora è «localizzata» in un indirizzo virtuale. […]
Una conoscenza precisa e dettagliata della popolazione è fondamentale per organizzare e gestire in maniera efficiente servizi pubblici essenziali (sociali, sanitari, fiscali, ambientali, ecc.). Nonostante la rilevanza strategica dell’iscrizione anagrafica, e a dispetto della semplicità delle categorie giuridiche su cui si fonda, il percorso di registrazione, in concreto, si fa spesso tortuoso e incerto. In molti comuni, vincoli alla mobilità e obblighi comportamentali costituiscono il prerequisito per il riconoscimento della residenza a persone senza fissa dimora, che vivono in condizioni abitative ritenute non adeguate o, semplicemente, prive della cittadinanza italiana. In questi casi, l’anagrafe, da strumento di monitoraggio del territorio, tende a trasformarsi in un dispositivo di selezione della popolazione ritenuta “legittima”: anziché seguire una logica inclusiva perché conoscitiva, ne segue una di tipo opposto, escludente in quanto selettiva e ricattatoria.
La residenza, dunque, è una sorta di cittadinanza locale, ossia di appartenenza territoriale formalizzata a livello municipale, che presenta caratteristiche piuttosto particolari. Lo status giuridico di residente, infatti, è molto diverso da forme di membership come la cittadinanza statale: non si basa su un qualche legame profondo – di famiglia, di sangue o di suolo – tra individuo e territorio, ma sulla semplice presenza del primo all’interno del secondo o, in alternativa, sulla sussistenza di una relazione significativa tra i due. Eppure è stato spesso interpretato dai governi centrali come da quelli locali al pari di uno statuto carico di significati e di implicazioni politiche. Elementi del tutto estranei alla sua logica costitutiva sono stati volta a volta chiamati in causa come requisiti selettivi ed escludenti: il lavoro, il reddito, la provenienza geografica, l’appartenenza a gruppi “etnici”, la pericolosità sociale, le condizioni abitative, lo stile di vita, eccetera.
PROSPETTIVE
Chiaramente, il fatto che all’appartenenza locale sia strettamente legato l’esercizio dei diritti è un elemento strategico capace di spiegare buona parte delle iniziative escludenti. L’esclusione dalla residenza rischia di assumere in un futuro prossimo connotazioni discriminatorie ancora più subdole e sottili. Le trasformazioni tecnologiche che ormai da diversi anni stanno interessando l’anagrafe (Pelizza, 2016) rappresentano, almeno potenzialmente, nuovi filtri all’ingresso: il processo di digitalizzazione, soprattutto a seguito del passaggio ormai compiuto dalle anagrafi comunali a una Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), si sta traducendo nell’utilizzo di strumenti di identità digitale – Spid, Cie (la carta di identità elettronica) e Cns (Carta nazionale dei servizi) – quali vie d’accesso obbligate alle procedure amministrative. Per entrare in possesso di questi dispositivi, tuttavia, è necessario disporre di un documento di identificazione, il cui rilascio ha quasi sempre come prerequisito l’iscrizione in anagrafe, e di un certo grado di risorse cognitive, informatiche e infrastrutturali. Chi ne è privo, per ragioni di età, condizioni di vita, reddito o altro, rischia di rimanere tagliato fuori dalla possibilità di ottenere la registrazione, con tutte le conseguenze negative.
L’apertura di questo cantiere di ricerca sul tema della residenza intende rappresentare un punto di partenza e un osservatorio per continuare a tenere alta l’attenzione a livello scientifico sulla questione. Sono moltissimi gli spunti ancora da approfondire, che sono stati solo accennati in questo libro. A livello di studi storici, occorre rilanciare le connessioni di lungo periodo tra residenza, assistenza e politiche sociali, nella prospettiva di ricomporre un quadro ampio capace di mettere in relazione attorno al tema dell’inclusione e dell’esclusione anagrafica tutti quegli attori che interagiscono con i soggetti sociali più fragili, partendo proprio dalle strategie messe in atto da questi ultimi per aggirare e superare i provvedimenti discriminatori. […] L’impressione è che siano ancora tutte da indagare le pratiche quotidiane delle amministrazioni in ambito anagrafico, di cui emergono segnali di una discrezionalità selettiva intesa come “normalità procedurale”, soprattutto nei periodi e nei contesti in cui a livello pubblico non veniva puntata l’attenzione nei loro confronti. Le differenze e le analogie nell’accesso alla residenza tra la popolazione di cittadinanza italiana e la popolazione non italiana rappresentano un ulteriore elemento di stimolo a proseguire nelle ricerche, al pari della dimensione di genere e delle tante forme con cui l’esclusione anagrafica si manifesta, in maniera subdola e poco visibile, negli interstizi delle procedure amministrative, come emerge in diversi capitoli del volume.
Da questa prospettiva, le scienze sociali sono chiamate a loro volta a fornire un contributo fondamentale, superando in primo luogo alcune semplificazioni terminologiche e concettuali. Generalmente, infatti, l’esclusione anagrafica ha determinato, tanto a livello scientifico quanto a livello politico e mediatico, la tendenza a considerare “invisibili” i cittadini abitanti ma non residenti. Un’immagine del genere, tuttavia, non fa giustizia di quanto, ieri come oggi, questi cittadini abbiano fatto di tutto per rendersi “visibili”. La loro presunta invisibilità, piuttosto, non corrisponde alla loro quotidiana e palpabile presenza sociale, economica, politica e civile. Per comprendere fino in fondo le origini e le conseguenze delle contraddizioni anagrafiche e del tema della residenza è necessario allora riformulare la questione in termini di “invisibilizzazione”, enfatizzando cioè il fatto che la condizione di “invisibilità” – salvo rari casi – non è il frutto di scelte individuali ma è l’effetto di azioni istituzionali, più o meno deliberate ed esplicite, che rendono le persone “invisibili” in senso amministrativo. In questo modo è possibile anche superare le forzature e le stigmatizzazioni che l’etichetta di “invisibili” inevitabilmente finisce per produrre, anche al di là delle intenzioni di chi la impiega (Dal Lago, 1999).
L’esclusione anagrafica, inoltre, è spesso interpretata come un insieme di pratiche che alterano il normale funzionamento di uno strumento che altrimenti sarebbe capace, pur con inevitabili limiti tecnici, di “vedere” la popolazione per come è e per come si muove “naturalmente”. Eppure, rifacendosi alle categorie pro- poste dalla sociologia della conoscenza, dagli studi sul rapporto tra scienza e tecnologia, dalle ricerche critiche sulla sicurezza e sui confini e dall’analisi filosofica, sociologica e antropologica del diritto – ma anche recuperando semplicemente gli spunti letterari proposti all’inizio di questa introduzione –, è possibile comprendere come l’anagrafe sia uno strumento intrinsecamente performativo, che dà forma cioè alla realtà sociale anche quando è impiegato in maniera appropriata e conforme alle funzioni per cui è pensato. Ponendosi da una prospettiva del genere, la capacità di comprensione della macchina amministrativa e delle poste in gioco che ruotano attorno alle scelte pubbliche migliorerebbe di molto. Mettendo a fuoco la residenza, più in generale, è possibile intercettare in maniera molto chiara la profondità e il funzionamento di molteplici pratiche sociali e istituzionali, allargando i campo ben oltre la questione specifica dell’iscrizione anagrafica. Grazie a questa chiave di lettura, gli studi sulle migrazioni e sulle trasformazioni della società contemporanea potrebbero compiere significativi passi in avanti.
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