La prigione e la piazza è una mostra-mercato di libri da e sul carcere che si svolgerà tra maggio e ottobre in diverse città italiane. La prima tappa della rassegna avrà luogo a Napoli venerdì 13 e sabato 14 maggio, tra piazza del Gesù, piazza San Domenico e il cortile di Santa Fede Liberata (via San Giovanni Maggiore Pignatelli, 2).
Contestualmente al programma pubblichiamo oggi la postfazione scritta da Riccardo Rosa al libro Morti in una città silente. La strage dell’8 marzo al carcere Sant’Anna di Modena, in uscita nelle prossime settimane per Sensibili alle foglie.
Sara Manzoli, autrice del volume, sarà ospite de La prigione e la piazza venerdì 13 (ore 20:30, Santa Fede Liberata) in un incontro sulle violenze della polizia nel marzo 2020, tra i reparti del carcere di Modena.
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Ho sentito per la prima volta delle violenze avvenute ad aprile 2020 nel penitenziario “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere pochissimi giorni dopo i fatti. Sulla casella e-mail della redazione di Monitor ricevemmo una registrazione in cui un detenuto raccontava, durante un colloquio telefonico con una sua familiare, la violenza cieca di quei momenti e i pestaggi della polizia. L’uomo rispondeva a fatica alle domande dei suoi cari, svelando con monosillabi la barbarie, oscillando la sua voce e il suo stato d’animo tra la rabbia e la rassegnazione.
Abbiamo riflettuto per un po’ sull’opportunità di diffondere quella telefonata, e alla fine abbiamo deciso di renderla pubblica attraverso il nostro sito internet, nell’urgenza di fornire una testimonianza diretta di quanto successo nel carcere casertano, ma solo nella consapevolezza di collocare quel documento tra una serie di tasselli che avevamo messo insieme fin da un mese prima, provando a raccontare la gestione della pandemia negli istituti penitenziari e la violenza adoperata dalla polizia per mantenere il controllo delle carceri del paese.
Al momento della scrittura di questo testo, per le violenze di Santa Maria è in corso un processo che vede imputate 108 persone tra agenti delle forze dell’ordine e funzionari dell’amministrazione penitenziaria; i reati sono tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. La brutalità e la freddezza con cui quelle torture sono state messe in atto a danno di detenuti inermi sono arrivate intanto sugli schermi di tutto il mondo, grazie a immagini riprese dalle telecamere a circuito chiuso del carcere che sono rimaste attive in quei concitati momenti, nonostante i tentativi di sabotaggio.
L’EQUILIBRIO COMPROMESSO
È evidente la continuità tra i fatti di Santa Maria Capua Vetere e le violenze poliziesche che un mese prima avevano interessato tanto le carceri in cui i detenuti si erano sollevati, quanto alcune tra quelle in cui avevano semplicemente protestato per la gestione dell’epidemia di Coronavirus. Una continuità che non è rappresentata solo dal contesto pandemico e che è importante evidenziare in ogni sede.
Sia a marzo che ad aprile le proteste, e in alcuni casi le rivolte, scoppiano in cinquanta carceri italiane come reazione al decreto che ordina la sospensione dei colloqui, dei permessi, e di tutte le attività che prevedono l’ingresso in carcere del personale non appartenente all’amministrazione penitenziaria. Il decreto è l’atto concreto che va a esacerbare una situazione già molto tesa a causa della paura dei contagi e del bombardamento mediatico a cui sono sottoposti i detenuti, a cui non corrispondono né azioni né comunicazioni adeguate da parte dell’amministrazione penitenziaria. Questi elementi sono denominatori comuni in tutte le carceri interessate dalle proteste, così come lo è, nella maggior parte dei casi, la risposta della polizia: sia a caldo, con il ripristino dell’ordine manu militare; sia a freddo, con le tantissime operazioni repressive “a posteriori”, testimoniate dalle denunce di numerosi ristretti e familiari. Altro elemento comune è il tentativo di mistificare e depistare messo in atto da polizia e amministrazioni, al fine di coprire le violenze perpetrate per sedare le rivolte o anche per “vendicarsi” di chi aveva osato mettere in discussione l’ordine del carcere. Di queste opache operazioni fanno parte il carosello di trasferimenti che ha contribuito alla morte di alcuni tra i quattordici detenuti deceduti, la sparizione o l’irreperibilità di documentazioni, e altre manovre che hanno avuto un ruolo nel determinare indecorose archiviazioni come quelle di Modena, di cui racconta con precisione Sara Manzoli in questo volume.
Si diceva, però, che piuttosto che ricondurre le sollevazioni esclusivamente alla situazione pandemica, sarebbe più onesto considerare il clima di tensione provocato dal Covid come una causa scatenante, l’elemento di rottura di un equilibrio già compromesso dalle condizioni di invivibilità dei penitenziari, dal sovraffollamento, dalla situazione igienico-sanitaria, dalla mancanza di educatori e opportunità di re-inserimento per i detenuti, in definitiva dal mal funzionamento in toto di una istituzione i cui obiettivi dichiarati sono stati bocciati senza appello dalla storia.
D’altro canto, anche la risposta dello Stato all’escalation di proteste appare tutt’altro che estemporanea, configurandosi come il meditato tentativo di auto-salvaguardia di una istituzione consapevole di trovarsi in estrema difficoltà. In quest’ottica va letta la creazione di gruppi preposti alla risposta militare in caso di emergenza, e in questo senso vanno letti anche gli interventi sul medio-lungo termine, come quelli dei progetti per il PNRR destinati – ancora una volta! – al business dell’edilizia penitenziaria, all’aumento delle strutture e delle capienze, a dispetto di un numero di reati in costante diminuzione. Perché i quattordici decessi, insomma, la compromissione delle vite delle persone torturate, i procedimenti giudiziari che si avviano a essere lunghi anni (a dispetto di altri che non vedranno mai la luce) non siano accaduti e non accadano invano, è necessario avere il coraggio e la forza di connettere i fatti della primavera del 2020 a una più ampia analisi della condizione del carcere nel nostro paese.
CARCERE E VIOLENZA
La violenza della polizia e delle amministrazioni penitenziarie è stata una reazione slegata dal tipo di azione a cui queste pretendevano di rispondere, ma ciò non può indignare se non si ha il coraggio di mettere in discussione l’istituzione nella sua totalità. Il carcere, oggi e sempre, è violenza. Da molto tempo, d’altronde, questa istituzione ha rinunciato alla funzione risocializzante della pena, dedicandosi esclusivamente al contenimento. È per questo che la violenza pervade il suo funzionamento e lo attraversa in tutte le sue manifestazioni, comprese quelle più sottili come l’idea della “concessione” dei diritti, l’infantilizzazione del recluso, l’iter della “domandina”, la gestione dei rapporti gerarchici tra guardie e detenuti e tra i detenuti stessi. Eventi come quelli di marzo e aprile 2020 mandano in tilt il sistema perché alla violenza unilaterale che regola il carcere corrisponde una risposta da parte dei subalterni. Si tratta però di una risposta (e occasionalmente di una violenza) che dal basso si esercita verso l’alto, identificando come bersaglio i simboli più immediati: le strutture e i suoi guardiani.
È per questo che sono da maneggiare con cautela le produzioni giornalistiche, letterarie, filmiche di denuncia, e ancora di più le immagini documentarie come quelle delle telecamere del carcere di Santa Maria. Un utilizzo troppo ingenuo (o forse, al contrario, estremamente ragionato) di queste immagini sul terreno isolato della denuncia ha infatti l’effetto di depotenziare quei frammenti visuali, derubricando le brutalità dell’istituzione carceraria a una pratica occasionale, le condotte violente della penitenziaria ad azioni di poche “mele marce”, la dinamica di sopraffazione a un fatto episodico che è possibile liquidare con risposte esemplari. Non è così che funziona il carcere, e questo volume, così come poche altre narrazioni che sono emerse negli ultimi due anni, hanno il merito di raccontarcelo: quella di marzo e aprile 2020 è la più grande e meno occultabile crisi del sistema carcere nel nostro paese.
CHE FARE?
Il tema, a questo punto, è quello delle soluzioni. Se non si può più nascondere che il carcere ha fallito il suo compito è indispensabile la presa d’atto di un suo necessario superamento. È legittimo, anzi necessario, oggi, avere l’ambizione di un cambiamento epocale, al pari di quelli rappresentati dall’abolizione dello schiavismo o dei manicomi, o dall’introduzione del divorzio, orizzonti apparsi per tempo immemore irraggiungibili, eppure divenuti reali con le evoluzioni sociali. È necessario che questa prospettiva venga mantenuta con forza e costanza, che sia una premessa a ogni ragionamento sul carcere, oppure anche le lotte – allo stato attuale indispensabili – per la tutela dei diritti dei detenuti, per il miglioramento delle condizioni sanitarie nelle carceri, per un aumento delle pene alternative e la depenalizzazione di alcuni reati, per una rilettura del sistema dei servizi sociali all’interno delle prigioni, rischiano di contribuire all’accettazione del sistema.
Il carcere va abolito, fortunatamente c’è chi lo dice, oggi, ma questa voce non è abbastanza forte. Non bastano le discussioni tra gli addetti ai lavori, la presa di parola dei giuristi, degli accademici e degli intellettuali, un dibattito che negli ultimi trent’anni è stato estremamente debole, ma che in certi settori, proprio dopo gli eventi della primavera 2020, sta lentamente riprendendo. È necessario, ora, un lavoro sui territori, un dialogo con quelle fasce di popolazione che dal carcere entrano ed escono, che all’interno del carcere riportano gli orizzonti verso cui le strutture oppressive li hanno costretti dall’esterno, fino a imporre dentro di loro la punizione come l’unico possibile scenario per espiare peccati originali di cui spesso non sono responsabili. A differenza di quanto accadeva quaranta o cinquant’anni fa, oggi sono soltanto loro quelli che il carcere lo vivono, e che sperimentano sulla propria pelle la violenza sistemica e l’insensatezza di una istituzione che ha il solo fine di contenere la miseria e la violenza da questa provocata. Senza la loro consapevolezza e il loro contributo, sarà impossibile immaginare nuovi orizzonti.
Di fatto, invece, i nuovi orizzonti e le strade alternative ci sono, sebbene possano sembrare rischiose o utopistiche. Quando negli anni Settanta si cominciava a far strada l’idea del superamento dei manicomi, erano tanti quelli per cui non era possibile immaginare una società senza la contenzione fisica dei “matti”; eppure oggi, a distanza di soli cinquant’anni, quell’istituzione è riconosciuta come superata dalla storia. È questo quello che deve e può avvenire per il carcere. Vi sono giuristi che teorizzano e fanno ricerca da decenni ormai sull’elaborazione di un diritto penale minimo, che possa gradualmente portare a una consapevolezza sull’insensatezza del carcere; vi sono strumenti tecnici per lavorare sulle lacune di una possibile giustizia riparativa, migliorandola e incrementandola; vi sono spinte per una depenalizzazione immediata di alcuni reati, come quelli legati all’uso delle sostanze o alla gestione dei fenomeni migratori. È un percorso complesso, lungo e faticoso, ma se non lo si intraprende, e se non lo si mantiene come orizzonte costante, sarà impossibile che la battaglia contro il carcere possa smuoversi dai piani attuali.
È importante, alla luce di ciò, che gli omicidi con cui lo Stato ha risposto alle sollevazioni del 2020, così come i dolorosi conflitti avvenuti nelle prigioni italiane durante gli ultimi decenni del Novecento, non vengano più considerati come incidenti o come il passaggio di un percorso sacrificale, quanto come una spinta per la creazione di una consapevolezza diffusa. Sarebbe l’unico modo per rendere giustizia alle quattordici vite, e a tutte le altre, spezzate nel tempo dall’oppressione carceraria. (riccardo rosa)
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