Dal 29 gennaio cinque lavoratrici di Eufemia, associazione torinese di promozione sociale, sono in sciopero. Protestano contro demansionamenti e inquadramenti inadeguati, ma denunciano anche, politicamente, le storture di un terzo settore sottoposto a logiche imprenditoriali. Abbiamo intervistato una di loro per capire meglio le origini dello sciopero e le rivendicazioni. Pubblicare questa testimonianza non è solo un gesto di solidarietà verso una lotta specifica, ma un tentativo di diffondere pensieri, esperienze e critiche che trascendono una storia locale.
In occasione dell’otto marzo le lavoratrici in sciopero, insieme a Non Una di Meno, hanno indetto un presidio per il lavoro sociale alle 10:30 davanti a Palazzo di Città.
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Cos’è l’associazione Eufemia e quali sono le sue attività?
Eufemia nasce come associazione nel 2010. Avevamo un ufficio in zona San Paolo, ma da due anni circa ci siamo spostati accanto a Comala, in una parte della Caserma La Marmora. Le attività sono disseminate sul territorio, ci occupiamo di tantissime cose: scambi internazionali, formazione per adulti e laboratori per persone senza dimora e con fragilità psichiatrica, progetti educativi con le scuole, e altro ancora. Ognuno di noi portava avanti dei pezzi importanti di lavoro. Io, per esempio, ero quella che si interfacciava con il Comune e la circoscrizione per la mia area di competenza (e non solo), ma facevo anche tutto il lavoro operativo, pratico.
Qual è il vostro inquadramento come lavoratrici?
Quando sono entrata eravamo cinque persone. All’inizio, nessuno di noi aveva il contratto. Quando i soldi erano pochi, era quasi scontato che le forme di retribuzione dovessero essere, diciamo così, creative. Cresciamo e nel 2020 ci facciamo dei contratti: inizialmente part-time, poi un full-time a 1.250 euro netti, per tutte e tutti, con un inquadramento C1 del CCNL cooperative sociali.
Nel 2020 abbiamo chiuso con cinquecentomila euro di bilancio circa, nel 2022 più di ottocentomila. E i bilanci hanno quasi sempre un avanzo di esercizio di oltre centocinquantamila euro. È tanto. Quindi iniziano le spinte verticistiche di strutturazione dell’associazione che era diventata anche un luogo di lavoro vero e proprio con aumento delle collaborazioni esterne e un lieve aumento dei e delle dipendenti.
Hai menzionato “spinte verticistiche”. Come avvengono, e perché?
Nel 2021 si partecipa a una progettazione di Compagnia di San Paolo, il cui obiettivo era dare strumenti per ristrutturare il terzo settore. La vittoria di questo bando presupponeva di essere seguiti da un’impresa di consulenza che studiava l’associazione e forniva questi strumenti. Uno di questi è stato la creazione di una figura, quella del Program Manager (PM). Guarda, io da subito ho detto: qua stiamo cambiando il lessico, stiamo chiamando le cose con dei nomi che non ci appartengono: il “Program Manager”! E poi la “vision”, la “mission”, tutte ‘ste cazzate qua. Il PM, poi, avrebbe un salario più alto: mille e settecento euro netti, a fronte dei nostri mille e duecento. Per quella posizione il consiglio direttivo sceglie, a maggioranza, l’ex-presidente e fondatore, che si era candidato con altre persone.
Ovviamente inizia il disfacimento delle relazioni: hai creato la gerarchia, il vertice, hai dato strumenti di controllo in un lavoro che invece prevede elasticità, flessibilità, co-responsabilità. Fino a che, quest’estate, ci arriva la proposta, avanzata dal direttivo e dal PM, di un nuovo inquadramento contrattuale. A noi sembra assolutamente fuori luogo: all’epoca eravamo nove dipendenti e questa proposta creava sei diversi scaglioni salariali, aumentando ancora di più il divario tra l’ultimo e il primo.
Questa è l’origine dello sciopero? Cosa succede esattamente?
Ora mi fa sorridere l’ingenuità. A noi questa proposta pare assurda perché è stato accolto il contratto collettivo nazionale del lavoro senza problematizzarlo, abbandonando ogni desiderio di trasformare la società. D’altra parte questa è la stortura del lavoro sociale degli ultimi quindici anni. Quindi decidiamo di rispondere con altre proposte. Convochiamo delle assemblee dei lavoratori e delle lavoratrici per identificare i problemi di questa nuova struttura. In un’associazione come questa, per noi, deve esserci un tetto massimo di salario. Allora immaginiamo quali potrebbero essere le forme retributive eque che ridistribuiscano la ricchezza, visto che ragioniamo anche in termini di ridistribuzione delle responsabilità non in chiave verticistica. Inoltre figuriamo altre forme compensative, come la settimana corta.
Nel frattempo una delle tre persone che allora componevano il direttivo si dimette e dobbiamo andare ad elezioni, perché due soli membri non bastano. Come lavoratori e lavoratrici, allora, pensiamo di candidarci collettivamente, per fare entrare qualcuno di noi in rappresentanza e contribuire anche a questo pezzo di responsabilità. Mettiamo sul tavolo la nostra candidatura collettiva a ottobre inoltrato.
Circa un mese dopo, eravamo a ridosso delle elezioni del 20 dicembre, il PM rassegna le dimissioni, dicendo di non riconoscere “il rapporto di subordinazione con l’associazione”, ma si candida al direttivo. A una settimana dalle elezioni scopriamo che si sono candidate anche persone che negli ultimi anni hanno ruotato intorno all’associazione portando avanti progetti paralleli, partiti da Eufemia. Fra i candidati c’è uno dei fondatori del Gusto del Mondo, impresa sociale nata col supporto, anche economico, di Eufemia. L’impresa è poi quasi fallita, adesso sul tavolo c’è la sua riacquisizione da parte dell’associazione. Si candidano anche il presidente di Escape4Change (E4C), impresa di escape room educative che nasce all’interno di Eufemia, e la progettista di E4C.
Il vero organo decisionale dell’associazione ovviamente è l’assemblea dei soci. A venti giorni dalle elezioni, facciamo richiesta di accesso al libro soci e ci accorgiamo che si sono associate più di centoquaranta persone in due giorni. La quasi totalità dei nuovi associati è composta dalla famiglia del sud di uno, i colleghi delle start up che ho menzionato, e così via.
Quindi si arriva a queste elezioni.
Da almeno tre anni, la partecipazione all’assemblea quasi coincide con le sole lavoratrici e lavoratori, arrivando al massimo, in casi particolari, a venti partecipanti con l’aggiunta di una decina di soci storici. Il giorno delle elezioni del 20 dicembre, nel salone trovo quaranta persone mai viste prima. Con sessanta deleghe! Eravamo sconvolte.
Scopriamo pure una delega falsa. Perché tra i nomi nel libro soci vediamo una persona che è stata compagna di militanza ai tempi dell’università. Una mia collega le scrive e lei ci dice di non avere intenzione di partecipare alle elezioni, ma che le era stato detto che era obbligata ad associarsi per poter lavorare. Non esiste che tu debba esser socio per lavorare, sono due piani separati. Quando quel giorno vediamo la sua delega, appoggiata al tavolo, le scriviamo: ci dice che la firma non è la sua. Questa cosa la facciamo esplodere in assemblea, ma non è sufficiente a bloccare lo svolgimento. Salvo poi ritorsioni sulla ragazza: collaboratrice esterna, aveva un incarico promesso per un progetto che coinvolgeva la sua associazione, ed è stata sollevata dagli incarichi “per rottura del patto di fiducia”. Lì per noi Eufemia muore. Tutto quello che è successo dopo è conseguenza di quell’assemblea, un punto di non ritorno.
Quindi cosa succede?
La quindicina di soci più attivi negli ultimi anni, tra cui noi, è stata sufficiente per far eleggere comunque una delle lavoratrici, che entra in direttivo. L’operazione di abbinamento deleghe-nomi per gli altri soci è funzionale a far eleggere con lei, insieme ai due membri del direttivo precedente, il PM ed ex-presidente, il presidente e la progettista di E4C, il fondatore di Gusto del Mondo.
Subito dopo le feste di Natale ci arriva una doppia convocazione, per il 10 e il 23 gennaio, per presentarci il nuovo organigramma e il piano di sviluppo dell’associazione. In questo organigramma le lavoratrici sono schiacciate al fondo, in ruoli operativi e non decisionali o strategici di coordinamento, mentre si prevede di inserire nelle posizioni quadro e di dirigenza parte dei neoeletti in direttivo con incarichi di gran lunga più generosi di quelli fino a quel momento attribuiti a chi ricopriva quelle posizioni. Appare anche un Organo di indirizzo con la funzione di affiancare il direttivo e il PM nelle decisioni strategiche. L’Organo è composto da alcuni membri del direttivo e dal PM stesso e chi vi fa parte, al contrario di quanto previsto per il direttivo, può ricevere retribuzione! A noi vengono avanzate anche proposte contrattuali. Alcune sono leggermente migliorative rispetto alle precedenti, da C1 a C3 o D1, ma resta comunque il demansionamento rispetto alle attività e responsabilità reali.
Mentre noi rifiutiamo di sottoscrivere l’organigramma, celermente partono le lettere di incarico per il PM, per il fondatore di Gusto del Mondo, per le persone che compongono questo nuovo Organo di indirizzo. I membri dell’Organo hanno un compenso, ma è tutta gente che ha altri lavori!
Questo passaggio è stomachevole. Se vuoi fare l’impresa, vatti a fare l’impresa. Io che vivo del mio lavoro sociale, mica te lo impedisco, anche se credo che l’imprenditoria sociale sia una schifezza. Però esistono gli strumenti giusti, dove paghi le giuste tasse, dove fai l’imprenditore. Perché stai qua, con gli sgravi fiscali, perché sei no profit, perché sei spendibile, perché puoi accedere a più bandi, se in realtà fai imprenditoria?
Come arrivate a decidere di scioperare?
Decidiamo non solo di non firmare la proposta contrattuale, l’organigramma e il piano di sviluppo, ma anzi di chiedere le dimissioni del nuovo direttivo, che per noi è illegittimo. Non riceviamo risposta. Ci consultiamo con le avvocate di diritto del lavoro e di diritto societario, e ci dicono: «Avete mai pensato che in realtà siete delle lavoratrici e non delle volontarie o delle militanti? Potete scioperare». Ci riflettiamo e dal 29 gennaio abbiamo indetto lo sciopero. Alla posizione politica, quindi alla richiesta di dimissioni, avevano aderito tutte le lavoratrici. Allo sciopero aderiscono cinque su sette. E noi siamo ancora in sciopero.
Qual è stata la risposta?
Dopo due settimane di silenzio, la prima comunicazione del datore di lavoro dall’inizio dello sciopero è un provvedimento di urgenza il 13 febbraio, in cui ci hanno escluse dall’associazione, togliendoci la titolarità di socie.
C’è stata un’uscita pubblica dello sciopero?
Subito dopo l’elezione, avevamo inviato un comunicato con una prima ricostruzione solo alle realtà della Caserma La Marmora, poi inviato anche ai collaboratori esterni del giro più stretto. In seguito abbiamo posto la nostra questione in un tavolo con Non Una di Meno e CUB e in un’assemblea lanciata da noi dopo l’inizio dello sciopero, dove sono state raccolte anche tante testimonianze di vecchi collaboratori di Eufemia.
Io faccio militanza da quindici anni, ma ho vissuto per la prima volta quanto è difficile sottolineare un tuo diritto, e rendersi conto che per quanto tu possa credere di stare in un contesto orizzontale, di autonomia, fai parte di una categoria che è quella del lavoratore subordinato. In assemblea si è parlato anche della dinamica relazionale e affettiva, per cui accade che la posizione di una lavoratrice sia sminuita in nome delle relazioni amicali e dei rapporti personali. Così la tua critica politica viene ridotta a una questione privata. La presenza di Non una di Meno ci dà forza. Io sicuramente riconosco il ruolo di potere del maschio in questa vicenda: come lavoratrici siamo tutte femmine. E comunque, accade che le mie competenze nel lavoro di cura vengano dequalificate dicendo che sono solo delle mie “attitudini” in quanto femmina, perché sono “brava a relazionarmi”. Ma che vuol dire? Sono un’educatrice, è il mio lavoro!
Ci sono stati altri riscontri?
Sono usciti degli articoli sui giornali, con una serie di opinioni che non ci rappresentano, e anche un intervento dell’assessore alle politiche sociali di Torino, Rosatelli, che utilizza strumentalmente la sua posizione: dice che il lavoro sottopagato, soprattutto se utilizza finanziamenti pubblici, non è accettabile, però siamo noi a dover denunciare, in modo che l’assessorato possa anche prendere posizione e togliere i finanziamenti a questa realtà che sfruttano. E io vorrei dire: aspetta, così si accetta l’assetto attuale del welfare esternalizzato. Iniziamo a internalizzare di nuovo dei servizi, altrimenti è anche normale che funzioni la logica del profitto, soprattutto se nei bandi il lavoro non me lo fai mettere a budget.
Come avete mosso la rivendicazione sindacale?
Le vertenze sono specifiche, le abbiamo scritte con il sindacato: il salario minimo, il giusto inquadramento e i relativi arretrati, l’abolizione degli strumenti di monitoraggio continuo e di controllo, l’annullamento dell’organigramma che ci demansiona. Noi capiamo la dignità di queste rivendicazioni, sappiamo che è giusto e che sono nostri diritti, ma prima delle elezioni del direttivo a nessuna di noi era passato per la testa di fare causa al datore di lavoro per queste stesse buone ragioni. Adesso, invece, abbiamo dovuto creare una frattura immediata. Era lo strumento che avevamo, più come lavoratrici che come socie, contro l’invisibilizzazione e la normalizzazione di un problema.
Attraverso la delegata sindacale abbiamo esposto le nostre richieste. A quelle che riguardano le nostre posizioni, la datrice di lavoro è sembrata disponibile, probabilmente per silenziare tutto il resto, soprattutto perché stiamo creando danni alla loro immagine. Ma abbiamo maturato la consapevolezza che per portare a casa i risultati della contrattazione sindacale avremmo rischiato di dover abdicare alla posizione politica. Per questo siamo uscite pubblicamente anche sui social. Per noi è tutto strumentale: questa gente non deve essere più legittimata a sedersi ai tavoli con la bella faccia: non col nostro lavoro, né nei contesti che abbiamo aiutato a costruire come lavoratrici e socie attive.
Sarebbe importante, attraverso i passaggi di questa vicenda, aprire al dibattito sul terzo settore a livello di città, considerando tensioni che magari prima non sono mai state riconosciute, costruire spazi di solidarietà.
Vorremmo chiamare un secondo momento pubblico, di discussione collettiva, lavorare a una posizione strutturata a livello cittadino. Tanto siamo in sciopero, il reddito non ce l’abbiamo, almeno ci stiamo leggendo delle cose, studiamo. Sarebbe bellissimo avere degli strumenti a disposizione, per formarci collettivamente, per resistere. (intervista a cura di stefania spinelli)
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