Il numero di maggio 2016 (n.143) di CQFD, mensile di critica e sperimentazione sociale, dedica uno speciale di otto pagine agli avvenimenti che stanno ponendo in discussione la legittimità del potere costituito in Francia. Qui uno degli articoli del dossier.
La prima sensazione è di sbalordimento. Anche se l’immersione non è immediata; prima di tuffarci, con l’alluce saggiamo l’acqua per un po’. Place de la République, in fondo, non è un mare amico; in questo non-luogo haussmaniano pochi mesi fa i capi di stato sfilavano insieme dopo gli attentati. Notiamo che qualcuno viene a raccogliersi in onore delle vittime, per esempio questa signora con un bel cappotto che arriva fino a terra spazzando via un po’ di candele commemorative. A fianco alle iscrizioni in omaggio a Charlie o ai morti del Bataclan, si può leggere: “Mangiamoci i ricchi”, “Abbasso lo Stato, le guardie e l’Unef”, “Solidarietà con i rifugiati”. Questa stratificazione è più esplicita di qualunque discorso: la sequenza è cambiata.
All’inizio, non sai bene da che parte prendere questa Nuit Debout di cui tutti parlano. Pensi a Occupy, a piazza Tahrir, alla Puerta del Sol. Quel che sembrava inimmaginabile ancora un mese fa adesso è qui? In pieno stato d’emergenza, quando la destra reazionaria aveva monopolizzato le ultime grandi manifestazioni attraverso la Manif per tutti, quando nessuno ci credeva più, ci sarebbero delle persone, in questa irrespirabile capitale, pronte a occupare una piazza e riaprire le finestre alla primavera?
La notte scende e si montano gli stand: una libreria libertaria, una mensa solidale, degli economisti di sinistra, un tavolo per gli ecologisti, un altro per i sans-papier e la tenda del Diritto all’abitare (DAL), che ha consegnato in prefettura l’autorizzazione a occupare la piazza. Si sente odore di salsicce, mentre qua e là si aprono le lattine di birra. Simpatico, ma… allo sbalordimento subentra la diffidenza: la Nuit Debout come una festa dell’Humanité rivisitata? Uno sfogo a vuoto? Su una metà dell’immensa spianata si danza, si barcolla, si fa festa. Punkabbestia, festaioli, clochard della zona, sbandati, liceali, suonatori di djembè e sound system. Un baracchino ospita il dj. Come sottotitolo, con l’evidenziatore: “Niente può fermare un popolo che danza”. Ok per la danza, Emma, ma dov’è la rivoluzione?[1].
Magari sull’altra metà della piazza. Ci apriamo un varco tra la folla. Un semicerchio in piedi nasconde una marea seduta. Di fronte alla pedana e agli altoparlanti, le mani in alto formano delle onde cifrate: riconosciamo i metodi già utilizzati nelle assemblee spagnole del 2011 o nei vertici anti-globalizzazione post-Seattle: una mano che si agita per approvare, le braccia incrociate in aria per un’opposizione radicale, il pollice e l’indice che vanno e vengono per una risposta diretta, e così via. Altrettanti modi di esprimersi senza urla, applausi e interruzioni del discorso.
L’aria si è rinfrescata, ma ci si riscalda subito, seduti in mezzo a sconosciuti che ascoltano i frementi discorsi che si susseguono. C’è chi esita, chi proclama. Qualcuno consulta con mano incerta dei piccoli fogli, altri si fanno lirici, esplodono, ridono apertamente. Non uno uguale all’altro. Ma tutti ascoltati. A volte assurdi, spesso memorabili, sempre arrischiati, una successione di prime volte inframmezzate da discorsi più professionali. Collettivi di migranti, storie di vita, l’ex ministro greco Varoufakis, poeti da quattro soldi, anziani dall’eloquio desueto, giovani delle periferie o membri di quelle commissioni che sono state create nel corso delle notti precedenti. È la volta della commissione Femminismo: «Continuano a palpeggiarci. Come bisogna fare perché le ragazze si sentano a proprio agio in questo posto? Perché ci sia dell’attenzione anche dopo le dieci di sera, da questa parte della piazza come dall’altra? Dobbiamo tutte e tutti organizzarci perché Nuit Debout resti accogliente! Quelle che vogliono parlarne possono raggiungermi dietro il palco, ci troveremo un posto».
Una decina di donne attraversano i flutti dell’assemblea per raggiungerla. Un annuncio dei moderatori interrompe la scena: «Dei musicisti sono stati bloccati dalla polizia dall’altra parte della piazza!». L’assemblea si svuota in un attimo per andare a mettere pressione alle guardie. Dieci minuti più tardi tutti rientrano. Sentiamo l’eco di quelli che ascoltano l’assemblea riprendere: «Fa bene parlarsi». «Che cosa aspettavamo fino a ora?».
Il giorno dopo, verso le 13, le nuvole lasciano finalmente passare qualche raggio di sole. Sparsi tra le tende, si formano lentamente dei piccoli circoli. Al centro di ciascuno, un cartellone annuncia il tema in discussione. Ci sono le commissioni: “Libertà d’espressione”, “Lgbt”, “Infermeria”. E le discussioni “ufficiose”: “Antispecismo”, “Entriamo in clandestinità” o “Come non diventare un partito”. Ci sediamo intorno a “Violenze poliziesche e identificazioni”.
Dopo un momento di educazione popolare sul concetto di stato di diritto, comincia il dibattito. Abdallah, un anziano con una fine barba bianca, pesta i piedi per l’impazienza che arrivi il proprio turno. «Chiedo alle persone anziane come me – dice, infine – di interporsi tra la polizia e i nostri figli o nipoti per evitargli i controlli. Basta avere paura!». Viene il turno di un trentenne agitato: «Essere identificati quattro volte al giorno, braccia e gambe divaricate contro il muro, non possiamo dire che questo rafforza il sentimento di appartenenza alla società. E quando ci rifiutiamo di mostrare i documenti, ci portano via! Come ne veniamo fuori se, in ogni caso, finiamo per essere umiliati? E guardatela un po’ dal mio punto di vista, non solo dal vostro», dice rivolgendosi a una giudice, membro del sindacato della magistratura.
In un altro circolo, un sans-papier interpella – appunto – la commissione Sans-papier, composta quel giorno da una decina di persone. Si agita molto, e sputacchia incazzato. Non lontano, due punk l’apostrofano: «Calma, bisogna parlare normalmente!». L’altro scatta: «Non ci capite niente voi!». E se ne va offeso. Incontro mancato. Non sempre funziona, ma qualche volta sì. Al riparo dalla confusione, una donna porta un cartello che la identifica come specialista di “Zorro e la California degli inizi del XX secolo”, tema al quale ha dedicato la sua tesi. Un nerd esangue le si avvicina e comincia un dialogo, sbilenco e assurdo. Lui evoca i videogiochi, lei gli risponde parlando di Bernardo (il servo muto di Zorro, ndr). Questi due hanno bisogno di parlare. Semplicemente. Giusto alle loro spalle, un microfono comincia a gracchiare. «Raphael ci parlerà della sua esperienza in Rojava». Un biondone avanza, pallido, i capelli a coda di cavallo. Racconta gli ospedali di Kobane, la lotta contro Daesh, il bordello infame della geopolitica, i combattenti curdi e il loro coraggio. A decine l’ascoltano, appassionati. E questa cosa continua così tutta la giornata, mescolando piccole e grandi cause.
Dopo una decina di notti e di giorni a battere la piazza, di una cosa siamo certi: con buona pace degli scettici, quel che si sta svolgendo qui non è per niente un’adunata di figli di papà. Niente di idilliaco, ma tutto o quasi si prova e si sperimenta, con la goffaggine e talvolta la fortuna dei debuttanti, precari per la maggior parte. Insomma, una cosa vitale. Ai margini della piazza sono in corso dei laboratori: “Giardinaggio”, con uno scambio di esperienze sulle sementi; “Genere e Sessualità”, dove si passa più tempo a spiegare il concetto di non-mixité ai ragazzi presenti che a discutere dei temi previsti; o ancora “Mobilificio mobile”, che fabbrica panche e tavoli a rotelle con dei bancali tagliati e ripuliti, poi dipinti.
Notte bianca
Altra serata, altra assemblea. All’ordine del giorno un tema controverso: le “violenze” durante le manifestazioni contro la Loi Travail. Media e politici hanno intimato a Nuit Debout di prendere posizione, così la commissione Comunicazione è stata incaricata di redigere un testo. Dopo dibattiti e votazione, la seconda versione viene nuovamente rifiutata dall’assemblea: troppo ambigua. La maggioranza dei presenti questa sera rifiuta la possibilità che Nuit Debout condanni pubblicamente la rottura delle vetrine delle banche o le strategie di difesa dei manifestanti contro le violenze della polizia. Il rappresentante della commissione sbotta: «Sono quarantotto ore che lavoriamo su questo testo, non ne possiamo più!». Così invita coloro che criticano a riunirsi per rimettere a fuoco la questione. In più di cinquanta argomentano e contro-argomentano per tre ore piene. Bilancio: Nuit Debout non ha nulla da condannare, e, ancora più importante, Nuit Debout non ha necessità di prendere posizione ufficiale su questi temi.
Niente rappresentanti, niente comunicati, nessuna sottomissione alle logiche dei media, ecco l’aria che tira nel movimento. La piazza resta uno spazio di incontri, di opinioni divergenti, di esperienze ineguali o di strategie complementari. Il rifiuto del vecchio mondo passa per questo rifiuto di allinearsi alle sue logiche, e le azioni come i discorsi si elaborano sul filo delle discussioni e dei contraddittori. Eppure il movimento non dimentica mai da dove viene, né i suoi prerequisiti politici – in assemblea, in commissione o… in occasione di un incontro inatteso con dei tassisti venuti a sostenere l’occupazione della piazza a fine turno. «La precarizzazione colpisce tutti, noi lo vediamo bene nel nostro mestiere. Dobbiamo batterci tutti contro la Loi Travail. Vi aiuteremo, noi della vecchia guardia: non la faremo passare», sostiene Milan, un tempo legionario e oggi sedotto da altre battaglie. Se le persone ancora presenti a quest’ora tarda sembrano entusiaste di questa base comune, non basterà l’intera notte per accordarsi sulle questioni più spinose. Alcuni definiscono i disoccupati come “assistiti”, e allora si ricomincia a litigare. Una tappa necessaria: si confrontano qui quelli che normalmente si ignorano o si disprezzano.
Notte di luna piena
È a questo punto, dopo lo sbalordimento, la diffidenza, la curiosità e l’entusiasmo, ai confini della notte, con gli occhi gonfi per i fumi dei lacrimogeni e la mancanza di sonno, che ci viene la voglia di vederci più chiaro. Dove è cominciata davvero la notte e come si tiene in piedi? Chi decide di portare avanti questa o quella azione, di mettere questo o quel dibattito all’ordine del giorno? Sappiamo bene che le figure di François Ruffin e Frédéric Lordon hanno promosso l’occupazione della piazza, il 31 marzo, ma in giro non li abbiamo mai visti. E succedono troppe cose qui intorno per credere che qualcuno stia tirando le fila all’ombra dei platani. Allora ci domandiamo: come si organizzano le assemblee serali, attorno a cui ruota ogni Nuit Debout?
I primi giorni si votavano le azioni da portare avanti collettivamente, la solidarietà da portare alle diverse lotte, la manutenzione della piazza, le domande da porsi insieme. Poi è stato votato di non votare più. «Era troppo improvvisato, con la gente che viene la sera per assistere allo spettacolo – spiega Gérard, cinquantenne anarchico dal berretto nero, impegnato nella commissione Azione –. Ci vuole del tempo per riflettere e per seguire un po’ quel che succede, prima di poter votare, altrimenti diventa la democrazia dei turisti, dei boccaloni e dei militanti di professione». Si continua a chiedere ai presenti di alzare la mano, ma in realtà la consultazione ha rimpiazzato la decisione. Cosa che comunque non ha risolto niente, perché un voto di massa continua a essere usato da chi ne ha bisogno per giustificare l’approvazione popolare. Allo stesso tempo, le energie si sono concentrate nelle commissioni, dove i voti sfociano ancora nelle decisioni: testi, azioni o costruzioni. Tanto che le commissioni hanno un po’ alla volta disertato l’assemblea, che è andata svuotandosi di contenuto politico per diventare un microfono aperto dal ritmo certamente sociale ma presto stancante.
Dopo un mese di occupazione, di piogge, di tensioni e di violenze della polizia, il tema centrale della commissione Democrazia e Assemblea generale è diventato: come tenere in vita e rilanciare l’assemblea che sta perdendo slancio? Tra i partecipanti, molti seguono gli avvenimenti fin dall’inizio. Entriamo qui nel regno del Protocollo, dove ogni punto è pesato e ripesato, sottoposto al voto e all’opinione di ciascuno. Dopo aver discusso per ore sull’opportunità di creare delle sotto-commissioni con il compito di accelerare i dibattiti, o di ribattezzare la commissione stessa (Democrazia in piazza, la spunterà al voto), una delle partecipanti più assidue sbotta: «Comincio ad avere paura di questo eccesso di procedure, che crea delle sotto-commissioni di sotto-commissioni per dimenticare e affossare i problemi».
Alla fine, una scheda circola tra chi vuole prendere in carico la serata. I tempi dell’assemblea si dividono in tornate di tre giri di parola libera, più tre giri di commissione. Due sessioni: 18-21 e 21-23. Diversi ruoli: moderatore, facilitatore, oratore, cronometro (per verificare che gli interventi non superino i due minuti). Chi si iscrive questa sera lo fa per la prima volta, prova che i dibattiti in assemblea non sono monopolizzati da un pugno di aspiranti politicanti, come vorrebbero certe voci che circolano in piazza.
Notte nera
Andiamo avanti. Nuove grandi manifestazioni si avvicinano e la lotta contro la Loi Travail “e il suo mondo” deve continuare. Oltre alla commissione Logistica, le più attive sono Azione, Convergenza delle lotte e Sciopero generale (che poi verranno fuse sotto il nome di Lutte Debout). È in quest’ultima che termineremo le nostre notti. In occasione della serata alla Borsa del lavoro intitolata “La prossima tappa”, la squadra di Fakir propone di collegare il movimento Nuit Debout con le organizzazioni sindacali per il primo maggio, attraverso una serata di incontro e di festa. Un testo, che segue per grandi linee la proposta di François Ruffin, viene rapidamente adottato dalla commissione Convergenza delle lotte, e approvato in assemblea.
Per molti, però, tutto questo va troppo di fretta: con il pretesto dell’efficacia e dell’urgenza, il piano di Ruffin ha saltato qualche tappa democratica: non sono state discusse le modalità d’intervento dei sindacati nella piazza. La commissione Sciopero generale prende allora in mano la concertazione. Prima decisione collettiva: spostare la data di convergenza al 28 aprile, giorno annunciato da alcuni settori in lotta per uno sciopero rinnovabile. Poi vengono i dibattiti. «Dobbiamo imporgli le nostre regole – dice qualcuno – non possiamo abbandonare i nostri principi per qualche leader sindacale».
Un altro, assiduo della piazza: «Vi immaginate i sindacati che arrivano con le loro bandiere? Siamo riusciti a preservare Nuit Debout da ogni colore e voi mandereste tutto all’aria per farvi belli con i capi della CGT o di Force Ouvrière! È l’inizio della fine!» Una vecchia volpe riprende: «Senza sindacati, nessuna manifestazione di massa, nessuno sciopero generale! Devono essere scavalcati dalla gente, da noi, ma noi abbiamo bisogno di loro per imporre un rapporto di forza. Facciamoli venire, e quando saranno qui glielo diremo in faccia che cosa pensiamo dei loro palloncini!». (…) Dopo tre giorni di sperimentazione di democrazia diretta, un compromesso viene trovato: Nuit Debout invita i sindacati e i loro rappresentanti a discutere con l’assemblea popolare, rispettando le regole che valgono per tutti.
Il 28 aprile, dopo la manifestazione, gli interventi si succedono. Prima il coordinamento dei liceali, poi gli universitari. Seguono i sindacati di base e i collettivi dei precari venuti da Montreuil. Scena memorabile: Philippe Martinez, segretario della CGT, prende la parola dopo una delegata della CNT, con lo stesso tempo a disposizione per esprimersi. Mai visto prima. Martinez comincia con un pio desiderio: che lo sciopero generale cessi di essere un semplice slogan. Poi rincula: lo sciopero dovrà essere deciso nelle assemblee di ciascuna delle imprese in lotta. A questo punto una folla di un migliaio di persone comincia a scandire: «Sciopero generale! Sciopero generale!». A Fatima, vecchia sindacalista CGT, il compito di dare lezioni di organizzazione a un timido segretario generale: «No, signor Martinez, non è corretto dire che ogni assemblea di fabbrica deve decidere se arrivare o meno allo sciopero generale. Se volete che si vada avanti, bisognerà ascoltare quel che dice la base, incoraggiare le assemblee quotidiane, organizzare delle casse di sostegno e dei momenti come questi, dove siamo tutte e tutti sullo stesso piano».
La Nuit Debout, piena di gente, vince quella sera una sfida importante: rompere i muri dei luoghi istituzionali del sindacato, allargare la place de la République. Una liberazione della parola che reclama delle azioni. E, infatti, dopo il blocco dell’accesso al porto di Gennevilliers a opera di studenti e sindacalisti di base quella mattina stessa, gran parte dell’assemblea raggiunge la sera i precari espulsi dal teatro dell’Odéon, mentre delle barricate vengono costruite nel mezzo della piazza. Poi le manganellate arriveranno con brutalità cieca… Il giorno dopo la solidarietà con i lavoratori dei McDonald’s, con i postali, le donne delle pulizie, i migranti riprenderà vigore come se niente fosse. Quale che sia lo sbocco di questo movimento, non finirà qui. Il dado è tratto. Il mese di marzo 2016 resterà il più lungo. Quello in cui è stato forgiato uno strumento ulteriore, capace di distruggere con più forza di prima e di ricostruire più gioiosamente. Marzo o morte! (ferdinand cazalis, con la collaborazione di émilien bernard / traduzione di luca rossomando)
[1] L’anarchica russa Emma Goldman (1869-1940) pronunciò un giorno questa grande frase: «Se non posso danzare, non voglio prendere parte alla vostra rivoluzione!».
Leave a Reply