dal numero 9 de Lo stato delle città
Quando abbiamo iniziato a ricostruire gli eventi che raccontiamo in questo articolo ci siamo subito resi conto di dovere inevitabilmente entrare nel campo di gioco all’interno del quale istituzioni e poteri pretendono di imprimere un determinato senso ai fatti. La vicinanza temporale degli stessi non aiuta, perché quando gli accadimenti sono prossimi si vanno a toccare le ferite di una vicenda ancora in corso. Nel nostro caso abbiamo dovuto ritessere i ricordi di quanto è successo appena due anni fa, riportando la memoria al primo anno di emergenza pandemica. Ci siamo resi conto così che la velocità dei processi di rimozione collettiva, incrementata dal tentativo di recupero dei ritmi frenetici di vita e consumo, allontana quei momenti fino a farli sembrare irreali, come se non fossero mai accaduti. Ci siamo per questo sforzati di restituirli evitando inutili giri di parole.
Il 14 ottobre del 2020 il presidente della giunta regionale campana, Vincenzo De Luca, firma un’ordinanza con cui inasprisce le misure restrittive già in vigore nel resto del paese a causa dell’emergenza Covid. Sono i giorni del braccio di ferro tra il governo centrale e alcune regioni (in particolare Veneto, Lombardia e Campania) sulle modalità di gestione della pandemia. Il dibattito para-scientifico sul contenimento del virus nasconde una tensione che è anche politica, legata all’accaparramento di spazi di potere nati con l’emergenza e a partire dai quali si ridefiniscono anche le forze interne all’esecutivo, testando quotidianamente la stabilità dei partiti di maggioranza. Uno scenario che lascia presagire l’imminente frantumazione del Partito democratico, annichilito dalle faide interne e incapace di tutelare gli interessi economici e istituzionali.
In questo scenario, il governatore campano ripristina il blocco di tutte le attività commerciali dalle 23 alle 5 del mattino, restringendo le possibilità di esercizi come ristoranti, pizzerie, pub, vinerie (le cui attività saranno consentite fino alle 24 con servizio al tavolo, e fino alle 21 in assenza di servizio al tavolo), oltre che di bar, gelaterie, pasticcerie (per cui è disposto l’obbligo di chiusura dalle 23 alle 5 del giorno successivo, nei giorni dalla domenica al giovedì).
Come spesso accaduto nei mesi precedenti, De Luca si presenta ai cittadini campani in un videomessaggio dai toni assertivi e su posizioni che non ammettono mediazioni, né possibili dietrofront: «Le mezze misure non servono più a niente, prima prendiamo decisioni forti, meglio è. Se tardiamo […] saremo costretti a prendere decisioni ancora più gravi, ma con l’acqua alla gola. È responsabile prendere oggi decisioni difficili senza attendere oltre».
In coerenza con i suoi monologhi infantilizzanti, il governatore ripropone a gran voce la minaccia del lockdown. I campani, e in particolare i napoletani, diventano interlocutori da disciplinare, soggetti le cui condotte irresponsabili e moralmente deprecabili hanno causato l’aumento dei contagi, anche se in questo De Luca è in buona compagnia. Negli stessi giorni, per esempio, la Commissione straordinaria che amministra il comune di Arzano, area nord di Napoli, dispone il lockdown per tutto il territorio comunale. A comunicare la decisione ai cittadini è un annuncio diffuso da una macchina della Protezione civile che si aggira per le strade dopo l’ora del coprifuoco.
Anche a causa di una gestione dell’ordinario così radicale, la tensione cresce giorno dopo giorno. L’ordine del discorso costruito sul terrore del contagio comincia a sgretolarsi di fronte alle difficili condizioni materiali di sopravvivenza, soprattutto delle famiglie senza reddito e riserve. Una folla composta da piccoli commercianti, trasportatori e lavoratori a nero organizza, il 15 ottobre, in modo spontaneo, un blocco stradale nei pressi della Circumvallazione esterna di Napoli, vicino all’aeroporto di Capodichino, un punto nevralgico che delimita e mette in comunicazione i comuni di Napoli (Secondigliano), Casavatore e Casoria.
Il testo dell’ordinanza regionale numero 82 del 20 ottobre restituisce la delicatezza del momento, rendendo palese la preoccupazione istituzionale rispetto alla tenuta dell’ordine pubblico e fornendo anche qualche nota di colore a proposito delle tensioni nate proprio sul territorio di Arzano: “Con ordinanza commissariale n. 36 del 14 ottobre u.s. si è disposta la sospensione delle attività didattiche, la chiusura delle attività commerciali, a eccezione di quelle di prima necessità, la chiusura del cimitero consortile, la sospensione di ogni manifestazione ed evento pubblico, la sospensione del mercato settimanale e il divieto di ogni forma di assembramento in luoghi pubblici o aperti al pubblico al fine di contenere l’allarmante ascesa dei contagi. A seguito di tale provvedimento gli operatori commerciali hanno dato luogo a manifestazioni di proteste e assembramenti, ancora in corso, in punti nevralgici per il traffico cittadino ed extraurbano. È di queste ore la comunicazione da parte di alcuni industriali della zona ASI di assembramenti e proteste anche presso quelle industrie al fine di ottenerne la solidarietà, dagli stessi industriali negata. Tale situazione, come ben può comprendersi, ha amplificato il rischio di ulteriori contagi, in un territorio già duramente colpito, oltre a creare gravi problemi di sicurezza e di ordine pubblico. Premesso quanto sopra, torna utile rappresentare che le peculiarità morfologiche del territorio di questa Città, punto nodale e nevralgico per la viabilità di buona parte della Città Metropolitana, per il collegamento autostradale alle maggiori arterie nonché per l’interconnessione con i comuni limitrofi collegati senza soluzione di continuità, richiedono la necessità di assumere misure più drastiche per evitare spostamenti ‘da e per Arzano’; provvedimenti, questi ultimi, che vengono necessariamente rimessi alle valutazioni della S.V. e della competente Asl alla quale la presente è altresì diretta”.
Più che frutto del delirio di onnipotenza del governatore De Luca, la citazione dell’ordinanza arzanese all’interno di quella regionale mostra come le proteste “irresponsabili” vadano stigmatizzate in quanto pericolosa fonte di contagio, da evitare e reprimere a ogni costo. Una guerra pronta a scoppiare che si affianca a quella sui numeri dei contagi in rapporto ai posti in terapie intensive, condotta da De Luca con toni altrettanto drastici.
Ma questa volta, quando si stringe ancora la vite, la Campania e Napoli tremano. L’equilibrio durato cinque mesi, già messo in discussione da una contrapposizione sotterranea tra necessità di un sostentamento e paura del contagio, si frantuma in poche ore in assenza di una politica comunale, regionale e nazionale che vada oltre la richiesta di sacrificio e che soprattutto prenda in considerazione le enormi sacche di povertà in un territorio che vive per una grande parte di lavoro sommerso.
In poche ore un presidio di lavoratori precari, a partita iva, disoccupati e piccoli commercianti, convocato spontaneamente, senza organizzazione che non vada oltre il passaparola, si riunisce nel centro storico di Napoli sfidando il coprifuoco. Da largo San Giovanni Maggiore Pignatelli parte un corteo in direzione Santa Lucia, sede della regione Campania. La tensione, giunta al limite, sfocia di lì a poco in un confronto corpo a corpo con le forze dell’ordine. La polizia blocca l’accesso alle zone limitrofe al palazzo della Regione. La contesa dello spazio si traduce in diverse cariche e in una fitta pioggia di lacrimogeni; dall’altra parte volano pietre, bottiglie e petardi. Gli scontri durano poco meno di due ore e finiscono con alcuni cassonetti rovesciati e bruciati in strada, alcune macchine delle forze dell’ordine ammaccate e un’altra danneggiata da una scritta.
UNA LETTURA POLITICA
Per questi fatti, la procura di Napoli ha ipotizzato reati gravissimi: devastazione e saccheggio con le aggravanti di agevolazione delle associazioni mafiose e finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Il procedimento è attualmente nella fase delle indagini preliminari, ma tenuto conto del lungo tempo trascorso è facile ipotizzare un’evoluzione processuale nel giro di qualche mese.
La ricostruzione della procura avviene sulla scorta di materiale investigativo fornito dalla Digos di Napoli, dal Nucleo operativo dei carabinieri, dei Ros e dei Reparti anticrimine. Dalle loro informative emerge che la mattina del 23 ottobre era stato attivato un gruppo Facebook denominato “Gli insorgenti”, attraverso il quale erano state organizzate due manifestazioni per la stessa serata: una a largo Sermoneta, nei pressi del lungomare, e l’altra a largo San Giovanni Maggiore, nel centro storico. È quest’ultima a radunare un discreto numero di persone, circa cinquecento, che dalla piazzetta in cui ha sede l’università Orientale cominciano a sfilare verso corso Umberto I. Secondo gli inquirenti è lì che al corteo si sarebbero aggiunti alcuni “facinorosi”.
Alle 23:10 il corteo, che si era ingrossato con l’arrivo di altre persone, alcune delle quali giunte direttamente in scooter, raggiungeva le strade prospicienti la sede della Regione Campania. Lì si trovava davanti un folto schieramento di agenti e lì cominciavano i tafferugli. Intorno alle 2 di notte la zona veniva ritenuta nuovamente sicura e abbandonata dal grosso dei reparti di polizia.
Secondo l’impianto della procura, agli scontri avrebbero partecipato diversi appartenenti a gruppi politici di estrema destra, alcuni ultras vicini alla formazione neofascista Casapound, altri appartenenti a varie sigle del tifo organizzato, soggetti legati alla criminalità camorristica e qualche esponente di gruppi di sinistra radicale. Sulla base dei video ricavati dalle telecamere di sorveglianza e di alcune intercettazioni, si ritiene verificata la presenza in piazza di appartenenti a otto clan della criminalità organizzata cittadina. L’ipotesi accusatoria, tuttavia, tradisce un’incoerenza di fondo e un preoccupante livello di scollamento dalla realtà.
Con riguardo al tifo organizzato, per esempio, gli inquirenti mettono in relazione l’andamento dei fatti con la capacità logistica degli appartenenti ai gruppi ultras nel creare situazioni di allarme per l’ordine pubblico (accostando episodi del dicembre 2018 avvenuti a Milano per la partita Inter-Napoli ad altri, risalenti a qualche mese prima dei fatti, in occasione della gara Napoli-Verona). Una considerazione che non tiene conto in alcun modo del contesto in cui avvengono gli scontri di Santa Lucia e che soprattutto ignora ciò che, in quei momenti, stava accadendo in città e nel paese. Il fatto, per esempio, che vi sia stata una convergenza di numerose realtà già organizzate di per sé ma ideologicamente lontane tra loro, più che essere riconducibile a un’unica regia eversiva sembra essere frutto della confusione che, in quei mesi, caratterizzava tanto le evoluzioni della vita quotidiana dei cittadini quanto la produzione normativa e le scelte politiche in tema di gestione dell’emergenza.
Il teorema proposto, invece, non legge la complessità dei fatti, ma si preoccupa piuttosto di cercare forzosi collegamenti chiamando in causa la “naturale fluidità del contesto sociale e criminale della città di Napoli, non nuova a situazioni di vischiosa compresenza di molteplici realtà e organizzazioni illecite, tipiche del contesto della città (situazione già oggetto anche di verifiche giudiziali e giurisprudenziali, come nel precedente delle drammatiche proteste e violenze di Pianura nel 2008, in occasione della gravissima emergenza rifiuti, e che consentono di contestare la doppia aggravante, quella mafiosa e quella eversiva)”.
È, quest’ultimo, un riferimento svilente per la sua superficialità, che sorvola su tutto il quadro storico in cui si inserivano, nel primo decennio del Duemila, le partecipatissime ed eterogenee lotte contro la devastazione ambientale del territorio.
Sebbene, leggendo gli atti, l’ipotesi che vi sia stata una predeterminazione organizzata tra varie realtà sembri decisamente ardita, la contestazione di fattispecie di reato così gravi mette in evidenza una tendenza affermatasi a partire dal 2001, che è senza dubbio frutto della difficoltà (e incapacità) degli organi investigativi nel provare a leggere “da dentro” i fenomeni che gli stessi indagano. In questa, come in tante altre circostanze, emerge nell’impianto accusatorio una linea fortemente politica: gli investigatori hanno ritenuto che seppure l’emergenza sanitaria mondiale, la conseguente crisi economica e il pericolo di un’ennesima chiusura delle attività commerciali e sociali imponessero la necessaria garanzia di spazi democratici di dissenso, nella pratica questi spazi comportassero il verificarsi di fatti eccezionalmente pericolosi per la tenuta dell’ordine vigente, e che come tali andassero contrastati. Da qui una risposta finalizzata alla punizione delle spinte provenienti dal basso e allo stesso tempo atta a tranquillizzare il resto della collettività, che certo non poteva vivere con serenità l’ennesima costrizione imposta da provvedimenti che per molti erano diventati eccessivi.
È in questo senso che la vera “guerra”, più che per le strade di Santa Lucia, scoppia qualche ora dopo, nel processo di rimozione delle premesse e delle responsabilità che avevano scatenato la protesta, concentrando gli sforzi nella ricostruzione di un dipinto fosco e inaccettabile che monopolizza la narrazione.
Il questore di Napoli, nelle dichiarazioni raccolte a caldo dal Corriere della Sera, afferma per esempio: “Questa sera abbiamo assistito a veri e propri comportamenti criminali verso le forze dell’ordine. Nessuna condizione di disagio, per quanto umanamente comprensibile, può in alcun modo giustificare la violenza”. Ancora, la procura della Repubblica di Napoli, in una nota inviata alla stampa, dichiarava di aver “avviato le indagini di propria competenza. È stato disposto inoltre un ulteriore rafforzamento dei dispositivi di prevenzione e controllo del territorio, per far fronte alle criticità connesse alla situazione in atto e garantire le manifestazioni di dissenso, anche quando motivate da comprensibili ragioni di disagio economico o sociale, dalle infiltrazioni di elementi violenti, per assicurare il rispetto dell’ordine pubblico e delle prescrizioni dettate dalla normativa statale, regionale e locale per il contrasto all’emergenza epidemiologica da Covid-19”.
Anche la stampa fa il proprio dovere. Il quotidiano Libero ricostruisce la protesta messa in atto “dai napoletani”, che avrebbe raggiunto “livelli estremi”, arricchendola con un piccolo squarcio sui protagonisti: “Agenti della polizia sono stati aggrediti da manifestanti a colpi di bastone. In piazza non c’erano solo negozianti e normali cittadini esasperati dal timore di una nuova serrata con conseguente crisi economica, ma anche centinaia di ultras ed estremisti”.
Non sono passati che pochi minuti dai fatti che l’attenzione mediatica si appunta sull’identikit dei possibili partecipanti, spostando il fuoco dall’identificazione delle condotte materiali, eventualmente reputate come reato, allo status dei soggetti.
Nelle stesse ore in cui impazza il valzer delle dichiarazioni la Digos comunica alla stampa i due arresti effettuati nel corso della protesta: sono due trentaduenni, processati per direttissima per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale. RaiNews riferisce dei loro precedenti per droga e la provenienza territoriale: sono entrambi del Vasto, rione popolare a ridosso della stazione centrale. Sono dati che non servono a nulla rispetto alla ricostruzione degli eventi, ma che, messi vicino alle dichiarazioni degli esponenti istituzionali, rafforzano il racconto secondo cui in piazza vi sono stati soprattutto pregiudicati e delinquenti. In poche ore, in una sorta di seduta spiritica collettiva, con l’obiettivo di isolare la rabbia sociale dal contesto della normalità, tutti i demoni della democrazia sono stati efficacemente chiamati in causa: la mafia, gli ultras, gli eversivi, i delinquenti di ogni natura. Una stigmatizzazione che permette l’aggressione attraverso il ricorso a precise categorie sociali, capaci di coprire ogni responsabilità politica sul governo della miseria.
Vale la pena interrogarsi sul fatto che già poche ore dopo gli accadimenti la stampa riferiva dell’arrivo in procura delle informative sugli scontri. Parliamo di indagini delicate, su fatti avvenuti in un quadro di fenomeni assai articolati, e che meriterebbero un’analisi adeguata non solo delle possibili ipotesi di reato, ma anche del contesto in cui queste si sono sviluppate, delle dinamiche attraverso cui hanno preso corpo, in modo da consentire anche all’autorità giudiziaria di scrivere la storia di quegli eventi alla luce di una consapevolezza piena. E invece ciò che emerge è il ruolo di “necessaria urgenza” avvertito della magistratura, a fronte dell’evidente incapacità da parte della politica di gestire i fenomeni che nella città – tanto tra i marginali quanto, come in questo caso, tra le fasce di popolazione che si vedono d’un tratto private delle proprie certezze, come i commercianti – si verificano ed esplodono con dirompenza in situazioni di crisi.
In questo vuoto di conoscenze lo spazio lasciato libero non può che venire occupato da un altro potere, atto a mantenere la legittimità del gioco dialettico dello stato “democratico”. Una dinamica tutt’altro che nuova, che mette in evidenza come le evoluzioni dei sistemi di potere abbiano finito per attribuire alla magistratura “una funzione vicaria di tutto ciò che non è più realizzabile sul piano politico del sistema dei partiti, del governo, dell’esecutivo in genere, del legislativo in particolare” (G. Spazzali, La zecca e il garbuglio. Dai processi allo Stato allo Stato dei processi, 1981). Una condizione che pone l’urgente necessità di nuove modalità di controllo sull’operato della magistratura, che non si limiti a essere meramente interno, ma sia capace di rivedere gli strumenti messi a sua disposizione dalla Costituzione alla luce delle nuove esigenze, emerse almeno negli ultimi trent’anni. (luigi romano / gaia tessitore)
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