Lila Cerullo ed Elena Greco – protagonista la prima e io narrante la seconda de L’amica geniale, ultimo romanzo di Elena Ferrante edito da e/o – sono poco più che bambine di un rione popolare non distante dalla stazione centrale di Napoli. Nonostante la loro età non esitano a entrare nel tunnel del “prima”, indagando il “cosa ha generato cosa”, addentrandosi in un territorio dove tutto si ammanta di colpe, e, risalendo di ingiustizia in ingiustizia, vengono trascinate nel pozzo senza fondo della storia: un’azione dal costo emotivo molto pesante ma vissuta dalle due con urgenza irresistibile.
È il dopoguerra e il loro è un rione miserabile, che ripropone schemi comportamentali, lingua, atteggiamenti che si tramandano ininterrotti da secoli. Napoli però, come tutto il resto d’Italia, sta cambiando, e un’ondata di benessere sta per travolgere tutti. Raccontando le gesta delle due protagoniste e di tutti gli altri personaggi del rione, la Ferrante, con lucida delicatezza ci racconta, via via che si produce, la frattura tra le tradizioni, gli usi e i costumi fino ad allora condivisi e quelli nuovi, figli di uno “sviluppo senza progresso”, portatori di quell’ideologia del consumo che avrebbe sì portato il necessario che fino ad allora era mancato, ma anche molto di quel superfluo che oggi (nonostante la gridata crisi) ci stritola da più parti.
Nel rione è facile lasciar comprimere la propria intelligenza dall’atavica asfissia delle classi sociali, sembra impossibile sfuggire alle gabbie ereditarie, eppure Elena Greco, a differenza dei suoi coetanei, va ben oltre le elementari. Dopo le medie, su pressione della maestra Oliviero, frequenta, distinguendosi per diligenza, il liceo classico di corso Garibaldi e – sono pur sempre gli anni Cinquanta – fa inevitabilmente quel salto che la fa sentire di non appartenere più a una specie ma che, di fatto, non la lega neanche a quell’altra, quella delle signore ben vestite di via dei Mille intraviste in una facinorosa uscita con i ragazzi del rione. È in queste uscite con i vecchi amici che Elena sente che il rione le resta appiccicato addosso, la sua lingua la perseguita. Non ti riconosci più nelle persone con cui sei cresciuto e hai poco o nulla da condividere con le altre, quelle alfabetizzate, che ti guardano con un po’ di sospetto, se non con la puzza sotto al naso.
Anche la sua amica, “l’amica geniale” Lila, dotata di una curiosità inarrestabile, intelligente al limite della cattiveria, potrebbe e forse vorrebbe percorrere la sua stessa strada. Però la sua è una curiosità che una volta appagata vuole subito divorare altro. Impara latino e greco pur non continuando gli studi, prende quattro libri a settimana dalla biblioteca del quartiere, disegna modelli di scarpe che insieme al fratello realizzerà contro il volere del padre calzolaio, tentando e riuscendo a trasformare la piccola bottega paterna in un negozio di eleganti scarpe fatte a mano. Lila vuole capire tutto, vedere oltre le apparenze. Questo la porterà a essere vittima di quelle che più avanti chiamerà “smarginature”, ossia la percezione del mondo oltre la sua stessa consistenza fisica, la solidità dei corpi, ogni senso dichiarato: “Hai visto che la gente quando si sveglia è brutta, tutta deformata, non ha sguardo?”. Lila parla del fratello Rino ma – è qui il fascino di questa narrazione popolare – potrebbe alludere alla nazione intera. L’Italia del miracolo economico e le sue nascenti ossessioni filtrano attraverso microavvenimenti di gente comune in piena mutazione. Lila, appartiene a quella plebe sempre disprezzata dalle classi superiori ma anche da chi se n’è da poco tirato fuori a furia di ricchezze accumulate più che di reale emancipazione. Sa bene che riesce in tutto quello che fa e per questo sconcerta vederla a un certo punto sacrificarsi alle imposizioni taciute del quartiere con un matrimonio e un modo di vivere che intimamente non le appartengono. Ma in fondo questo è solo il primo libro di quello che, a leggere le indicazioni degli editori, è un vasto progetto di scrittura.
In parallelo andrebbe letto un libro di cui abbiamo già scritto nelle pagine di Napoli Monitor, Insegnare al principe di Danimarca, di Carla Melazzini (vedi numero 42, settembre 2011). Spesso leggendo ci è tornato in mente il prezioso diario che questa educatrice ci ha lasciato in consegna. Un po’ perché l’area geografica è la stessa, ma soprattutto perché l’ansia di consumo, la modernità subita più che vissuta di cui la Ferrante ricostruisce la genesi ce la ritroviamo amplificata e se possibile degradata nei figli della generazione del dopoguerra. I figli ideali di Elena e Lila. Quelli di cui l’intervento di Carla e di Chance si sono occupati.
Dopo l’ubriacatura del secolo passato sembra che la povertà si stia riaffacciando a queste latitudini: certo, quasi nessuno più fa la fame, ma con cosa abbiamo scambiato questo benessere materiale? Cosa abbiamo guadagnato e cosa perso nel frattempo? Quante informazioni utili tramandate da un antico sapere abbiamo gettato troppo in fretta? Sembra essere tempo di bilanci e ci auguriamo che si possa leggere anche questo tra le righe dei libri che ci diranno il resto delle avventure di questa affascinante coppia di geniali napoletane. (cyop&kaf)
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