Come altre città venete, anche la benestante Padova si è arricchita sfruttando l’acqua fluviale, incanalata durante l’espansione mercantile di Venezia per permettere il trasporto delle merci. Il Bacchiglione le scorre a sud, ma ne attraversa in più punti il centro storico. Negli ultimi anni è su questi navigli che le forze politiche ed economiche che governano in città hanno puntato per portare avanti la “rigenerazione urbana”. Il recente recupero dei Giardini dell’Arena, che si trovano sulla strada che collega la stazione e le famose piazze signorili, ne è un chiaro esempio. Qui tavolini di bar, eventi musicali e mercatini vintage stanno permettendo una nuova privatizzazione dello spazio pubblico come mezzo di contrasto al “degrado”. Sembrerebbe una soluzione non violenta per togliere a stranieri impoveriti il diritto di stare in questa parte di città. Una soluzione più accettabile se la confrontiamo con quella scelta quasi vent’anni fa, nel 2006, quando l’amministrazione comunale aveva eretto un vero e proprio muro alto tre metri per circondare le palazzine di via Anelli, dove dall’inizio degli anni Novanta avevano trovato casa numerosi stranieri. Ora che l’ultima palazzina è stata abbattuta, qui a breve inizieranno i lavori di costruzione della nuova questura, che si prevede a “zero impatto ecologico”. Come per le caserme “green”, numerose previste proprio nel Nordest, l’apparato poliziesco e militare si ammanta dell’immaginario ecologista per rafforzarsi.
Saldandosi con i nuovi arredi della spensieratezza da aperitivo, la presenza securitaria continua a espandersi nella porzione urbana che collega stazione e centro storico. Un nuovo posto di polizia è stato aperto a fine gennaio in piazza Gasparotto, luogo porticato che fa da riparo a persone senza fissa dimora e per questo investito dall’azione repressiva, che in autunno ha portato allo sgombero dei giacigli di chi non ha altro posto dove dormire. Rivolgendosi anche alla giunta, accusata di “inseguire la destra sul terreno della destra”, alcune realtà associative hanno criticato l’apertura del nuovo posto di polizia, che renderà ancora più complesso portare avanti attività culturali e sociali senza favorire i processi di speculazione e “sbiancamento” di questa zona.
Il fiume Brenta, invece, costeggia Padova a nord, là dove il miracolo industriale veneto ha trasformato luoghi contadini in fabbriche ormai in crisi, svincoli autostradali, strade a grande scorrimento e case a prezzi più accessibili. È qui, in frazioni come Pontevigodarzere, o comuni limitrofi come Limena, che abitano molti residenti stranieri che gravitano in città. È qui che il 10 gennaio è morto affogato Oussama Ben Rebha dopo un controllo di polizia. Oussama era nato in Tunisia e aveva ventitré anni. E, pur con un figlio di un anno, non aveva un permesso di soggiorno. Una sua amica, che era in videochiamata con lui durante il controllo, ha raccontato che Oussama è stato pestato dalla polizia ed è scappato per fuggire dalle botte. Le forze dell’ordine sostengono invece che Oussama si sarebbe buttato da solo nel Brenta, dopo avere aggredito un agente. La procura ha disposto l’autopsia troppo tardi perché i segni dell’aggressione risultassero certificabili e non ha richiesto la visione delle telecamere che avrebbero permesso di far luce sulla responsabilità della sua morte.
Oussama non è l’unico ad aver trovato la morte per affogamento in questi luoghi. Un anno e mezzo prima, il 4 giugno 2021, Khadim Khole, anche lui ventitreenne, nato in provincia di Padova da genitori senegalesi, è morto qualche chilometro più in là, sempre nello stesso fiume, nel tentativo di sottrarsi a un arresto. La madre aveva raccontato in un’intervista che “non si è mai sentito italiano fino in fondo e negli ultimi tempi questa cosa lo faceva stare parecchio male, soffriva. Mio figlio è nato a Cittadella ed è cresciuto qui, ma ha subito discriminazioni che non riusciva ad accettare. Io magari sono matura e certe cose le capisco, lui reagiva male e non si tratteneva. Voleva andare via perché pretendeva diritti che qui non trovava”.
La comunità senegalese aveva organizzato una fiaccolata per ricordare Khadim e denunciare l’ingiustizia della sua morte. La morte di Oussama stava invece passando sotto silenzio in città e per questo il Coordinamento antirazzista italiano ha lanciato per sabato 28 gennaio una mobilitazione nazionale “contro il razzismo istituzionale, gli abusi della polizia, i CPR”.
Supportando la comunità nigeriana, che era scesa da sola in strada all’indomani della morte di Alika Ogorchuwuku, ammazzato di botte nell’estate del 2022 in pieno giorno in una via centrale di Civitanova Marche, il neonato Coordinamento aveva allora contribuito a promuovere una manifestazione per rivendicare giustizia, ed è quanto si è tentato di fare anche a Padova. Militanti antirazziste provenienti da più città d’Italia si sono radunate in un freddo sabato pomeriggio davanti alla stazione, per partire in corteo e urlare forte alla città che non può passare sotto silenzio la morte di una persona solo perché senza documenti e non italiana, che questo è razzismo. Purtroppo, ad accogliere il corteo c’erano spavaldi maschi che, nascondendosi dietro le barriere dal cavalcavia dove passa il tram, hanno lanciato uova sul corteo. Come è stato detto dal megafono, alcune uova sono poca cosa rispetto alla violenza a cui si è esposti ogni giorno e al razzismo che uccide come ha ucciso Oussama. L’impunità e la continuità tra neofascismo e forze dell’ordine sono poi state confermate, visto che gli impavidi se ne sono andati indisturbati nonostante la presenza nelle vicinanze di agenti della polizia investigativa.
Le grida che rivendicavano “verità e giustizia” per Oussama hanno risuonato nelle vie del placido centro cittadino, sovrastando le chiacchiere nei tavolini da bar. Per una volta il passeggio da shopping di un sabato pomeriggio è stato interrotto dalle voci di chi non può e non vuole restare in silenzio di fronte agli abusi della polizia in strada, nelle questure da cui si dipende per rinnovare il permesso di soggiorno, negli sfratti e negli sgomberi delle case occupate. Voci nate in Italia, razzializzate in un paese in cui vige ancora il diritto di sangue. Figlie di persone che, come loro, vengono sfruttate e costantemente esposte a umiliazioni e violenze istituzionali. Come quelle che si stanno intensificando a Milano in queste settimane, dove si è arrivati a fare cariche e lanciare lacrimogeni contro chi è costretto a ore di coda al gelo per chiedere asilo.
Il corteo si è chiuso davanti alla Prefettura, a indicare la responsabilità dello stato nell’insabbiamento della morte di Oussama. E a chiarire che una morte apparentemente sfortunata, non è responsabilità del singolo che poteva evitare di morire, ma di un assetto sociale, giuridico ed economico che rende potenzialmente letale l’incontro con il potere di polizia. Ed è fondamentale cambiare la narrazione di fronte a queste morti che vengono sempre più spesso descritte come sospette, evitabili, in ultimo cercate proprio da chi muore. Così è stato fatto a Livorno nella primavera del 2021, quando Fares Shgater, venticinquenne nato in Tunisia, è morto affogato in un fosso per sfuggire a polizia e militari. Anche in quella occasione la non eccezionalità degli abusi polizieschi era emersa grazie alla mobilitazione organizzata dalla comunità tunisina per chiedere verità e giustizia, e c’era chi aveva raccontato di essere stato già a sua volta gettato in acqua dai poliziotti. La responsabilità di stato viene costantemente denunciata dalle attiviste anche a Ventimiglia, dove per evitare di incontrare la polizia si muore fulminati e investiti e dove anche il fiume Roja ha visto negli anni affogare troppe persone migranti.
Davanti alla Prefettura, il coro “No border, no nation, stop deportation” ha denunciato il continuum della deportazione che rende insicure le vite di migliaia di persone nella democratica Italia. Oussama, peraltro, se non fosse morto sarebbe probabilmente finito in un Cpr, come molti altri suoi concittadini tunisini. Anche nei Cpr si incontra la morte. Come l’ultimo uomo marocchino deceduto in dicembre in quello di Brindisi, rimasto ancora, dopo più di un mese, senza nome e senza giustizia. I Cpr sono centri di detenzione dove non fanno che susseguirsi rivolte, come quella della notte tra il 4 e il 5 febbraio a Torino, violentemente represse. Strutture dove le vite sono invivibili e l’unica possibilità di difenderle diventa quello di rischiare la morte. (zoe)
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