Quaranta anni fa, il 29 agosto 1980, Franco Basaglia muore a soli cinquantasei anni, due anni dopo l’approvazione della legge 180 che sancisce il primo passo normativo per la chiusura dei manicomi, risultato di una lotta iniziata negli anni Sessanta, di cui sulla scena nazionale e internazionale lo psichiatra veneziano è simbolo culturale e politico. A Belo Horizzonte, durante il viaggio in Brasile dove da giugno a novembre del 1979 tiene quattordici conferenze il 19 novembre, Basaglia afferma: «Noi psichiatri democratici pur avendo ispirato la nuova legge siamo una minoranza […] Io non credo che si ottenga niente spontaneamente; si ottiene solo e soltanto attraverso la lotta. Dopo vent’anni di lotta, e dopo aver convinto non tanto il governo quanto le organizzazioni politiche e sociali della necessità di un cambiamento nell’assistenza psichiatrica, abbiamo ottenuto una legge che dobbiamo difendere giorno per giorno perché, anche se si tratta di una legge dello Stato, la maggioranza non vorrebbe applicarla, gli psichiatri tradizionali non vorrebbero applicarla perché segna la perdita del loro potere. Di fatto questa legge è la perdita di potere degli psichiatri ma insieme la messa in opera di un nuovo sapere. Naturalmente noi dobbiamo essere molto vigili perché questa minoranza, una volta catturata, può diventare la nuova maggioranza riciclata». Basaglia già prefigura come, pure a fronte dei principi sanciti dalla 180, una sua mancata o parziale applicazione riproponga quello che definisce “il fascino discreto del manicomio”.
Ancora oggi, la “questione” salute mentale, come fotografa l’ultimo Rapporto sulla Salute mentale presentato dal ministero continua a evidenziare grandi ambiguità e criticità. Tra i diversi dati disponibili colpisce soprattutto come, per oltre un quarto degli oltre 837 mila utenti psichiatrici, non siano noti nemmeno stato civile e titolo di studio, mentre per oltre un terzo è sconosciuta perfino la condizione abitativa. Indizi di una deriva che, depauperando i processi di cura e presa in carico dei portati sociali e relazionali, ha trasformato i servizi territoriali in dispensari di farmaci volti per lo più a silenziare i sintomi della sofferenza psichica e i presidi ospedalieri in reparti chiusi, isolati e desolati, destinati alle acuzie con ricorso routinario alla contenzione fisica, chimica e ambientale.
Nel mentre le grandi strutture della residenzialità privata hanno assunto il ruolo di contenitori neo-manicomiali per quanti tornano a essere definiti “i cronici”, mutuando logiche e linguaggi asilari. I dati manifestano ancora un’applicazione disomogenea della riforma, carenze strutturali, di operatori e di investimenti, che assumono forme drammatiche particolarmente al Sud.
Eppure, il Meridione, a partire dalla Campania, innanzitutto con Sergio Piro, è stato parte importante di quel movimento di deistituzionalizzazione e riforma, fino a far fiorire quella che Teresa Capacchione ha chiamato “Primavera 180”. Con Piro, tra l’altro, nel manicomio di Nocera, si realizzò la prima esperienza di comunità terapeutica al Sud, la seconda nel paese dopo quella goriziana che è rimasta il punto di riferimento più avanzato. Così lo stesso Piro, in un convegno nel 2005, ricordava quella esperienza e il dialogo con Basaglia: «A metà degli anni Sessanta vi erano due sole direzioni di manicomio in mano a gente di questo gruppo [di psichiatria critica]: una era quella di Basaglia ed una era la mia. C’è questa telefonata che io schematizzo un po’: “Franco è vero che tu vuoi fare una comunità terapeutica in tutto l’ospedale? A Me sembra una pazzia”. Lui risponde “Perché ti sembra una pazzia?” Ed io “Perché il nostro amico comune, Maxwell Jones, l’ha fatta con trenta persone di un reparto unico. Noi abbiamo tanti reparti e mille ricoverati”. Risponde “Ed io la faccio in tutti i reparti, e poi faccio un’assemblea generale a cui affluiscono”. La cosa importante è che lo fece, per cui io […] non potetti che cercare di imitare. Non raggiunsi mai la perfezione goriziana che era molto organizzata, non avevo i mezzi per fare tutte le assemblee di reparto e tutte quelle generali, ma basammo comunque la nuova ossatura sull’assemblea generale e su quella dei reparti che mano a mano andavano liberandosi. Franco Basaglia aveva imposto un nuovo modo di fare, senza usare mezzi coattivi, ma con la forza della convinzione, e la forza di convinzione di Basaglia era appunto la forza del fare».
È solo un breve passaggio che testimonia un legame politico, umano e culturale che unì per decenni questi due straordinari intellettuali e militanti che seppero darsi una organizzazione comune (Psichiatria Democratica) e agire senza mai separare il campo teorico dalla pratica degli interventi. Con forza e tenerezza, all’indomani della morte di Franco Basaglia, Sergio Piro, da membro della segreteria nazionale di Psichiatria Democratica e come “suo compagno”, scrive questa lettera (pubblicata anche sul Mattino del 30 agosto 1980), che qui restituiamo integralmente, convinti con lui che la memoria non possa essere solo ricordo, che la testimonianza debba farsi impegno e lotta costante, contribuendo a costruire saperi e prassi di liberazione, sì da assumere la sfida di raccoglierne l’eredità e rifiutare la retorica celebrazione di sepolcri imbiancati. (dario stefano dell’aquila / antonio esposito)
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SIAMO PRONTI A RACCOGLIERNE L’EREDITÀ
Quando muore un uomo come Franco Basaglia, quando cade un compagno che è stato così avanti nelle lotte e così significativo per un movimento, quando si chiude un’esistenza che profondamente ha trasformato il destino di tante altre esistenze, né il silenzio, né la parola possono più compirsi di senso, né possono dire tutto quello che deve esser detto. Così, chi scrive queste righe deve tacere della perdita umana, culturale, politica e non può parlare dell’amico di tanti anni e del compagno di tante lotte: deve tentare di ricordare e deve trovare un senso che sia di tutti.
Il nome di Franco Basaglia per la gente del nostro paese e dell’intero mondo occidentale porta con sé il significato pieno che ha il nome di tutti i protagonisti delle grandi lotte di liberazione: per la sua intelligenza, per il suo coraggio, per il suo impegno politico e umano, il problema terribile e difficile della segregazione di massa dei malati mentali divenne parte della coscienza civile di un paese.
Egli fu il primo e il più autorevole a dire della condizione atroce in cui sono gettati i malati mentali nei manicomi e nelle altre istituzioni analoghe; ma fu soprattutto il primo a operare nella pratica, in modo immediato e diretto, per rimuovere le sbarre, per combattere la violenza istituzionale, per restituire comunicazione, senso e vita a coloro che ne erano stati privati. Ciò fu fatto negli anni Sessanta a Gorizia quando tutti erano contro di lui e quando la repressione del dominio operava in modi altrettanto diretti e concreti.
Intorno a lui nacque un movimento che fu sempre più forte, che trovò qui da noi, nel Sud, una prima risposta negli anni Sessanta e si estese poi in tutta Italia. E non fu, come in malafede si dice e si scrive, soltanto un movimento politico-pratico che mirava a una riforma del settore, ma fu un complesso e multiforme crogiuolo di critica, di verifica, di lavoro culturale teorico, che profondamente incise e trasformò in maniera decisiva una delle ideologie di massa più dure e persistenti: quella che appunto condannava il malato mentale alla segregazione, che stigmatizzava tratti differenziati, che ancora esprime una sottoideologia razzistica dura a morire.
Di questa ricchezza estrema del movimento che nacque a Gorizia, del suo articolarsi con tutta una complessità in trasformazione, del suo legame con le lotte operaie e studentesche, con tutti gli altri movimenti di liberazione, Basaglia era pienamente consapevole. Nessuno dei vecchi dogmi delle psichiatrie positivistiche, delle ortodossie psicoanalitiche, delle vecchie concezioni medicali della sofferenza psichica ha resistito alla critica pratica che Basaglia ha avviato e che ha lasciato un segno irreversibile nella conoscenza.
Perché non è solo una nuova legge sulla psichiatria, una delle più avanzate del mondo, il risultato di tutto questo travaglio, di queste lotte, di queste esistenze domate, ma è la possibilità di una conoscenza diversa, più profonda e autentica, più scientifica e libera, quella che si è delineata e continua a delinearsi nella nostra cultura. Non è qui luogo di estendere questo discorso, ma certamente alle anime piccole che sono state sempre, per vocazione, nemiche di Basaglia e del movimento, e che ancora parlano – dai loro studi professionali o dalle nuove sedi di potere – di un prevalente o esclusivo significato politico-sanitario del lavoro di Basaglia, a queste anime piccole deve essere opposta la ferma constatazione della più profonda rivoluzione scientifica e culturale che sia avvenuta in un settore specifico, la psichiatria, dell’intero mondo occidentale.
Un’importante serie di realizzazioni nuove va avanti in Italia, soprattutto in quelle parti del paese che hanno strutture amministrative decise e solide o in altre parti del paese dove operano, sia pure fra mille ostacoli e difficoltà, i compagni di Basaglia: la malattia mentale non è più una cupa mostruosità biologica da segregare in manicomio, ma è una condizione di disagio che deve essere affrontata là dove essa nasce, all’interno della comunità, fuori dalle istituzioni distruttive: questa condizione di disagio non si configura a volte nemmeno come malattia, ma direttamente esprime tensioni, conflitti, oppressioni che vengono dalla comunità e che possono essere affrontati con l’intera comunità. Questo è il risultato pratico e conoscitivo dell’esistenza di Franco Basaglia.
Bisogna ricordare di lui la sua profonda semplicità e la sua lontananza da ogni forma di superbia intellettuale: pronto a discutere accanitamente per ore con il primo interlocutore interessato, fosse pure l’ultimo arrivato. Ma parimenti bisogna ricordare il suo sdegno di fronte alla malafede dei potenti, dei mercanti della salute, dei farisei, dei conservatori. In questo fu un combattente tenace e forte. Negli ultimi mesi la malattia gli ha impedito di essere sulla breccia qui nel Sud ancora una volta, contro i mercanti della salute. Ma in tutti gli anni precedenti il suo interesse per il Meridione e la sua preoccupazione per le difficoltà che qui s’incontrano sono stati costanti e la sua presenza fra noi fu frequentissima.
Questa presenza è venuta meno mentre in tutto il paese, nel Sud in particolare, farisei, potenti, conservatori e mercanti sono al contrattacco per limitare, snaturare, ritrattare il risultato dell’opera di Franco Basaglia. Il movimento darà a tutto ciò una risposta fortissima: vi è un significato che va oltre la vita del singolo compagno, dell’amico diletto. Questo è il coraggio di Franco Basaglia. (sergio piro)
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