Si parla molto di Cina in relazione all’emergenza Covid-19. Dalla presunta origine del virus nel mercato di Wuhan alla reazione iniziale del governo, negazionista e oppressiva, che avrebbe potuto invece aiutare a contenere la crisi sanitaria prima che assumesse una dimensione globale. A Hong Kong, quindi dietro l’angolo, la faccenda Covid si è andata a inserire in una ben più complessa relazione tra la regione amministrativa a statuto speciale e la madre patria, che nel 2019 ha toccato picchi inediti di crudezza durante l’assedio delle forze armate al Politecnico nel mese di novembre.
L’inizio del 2020 ha visto un quasi totale stop delle manifestazioni, in larga parte come conseguenza dei primi segnali dell’epidemia. La reazione del paese non è stata però guidata dal governo come altrove, ma dalla società civile, specie la parte Cina-scettica, prendendo sul serio l’emergenza sanitaria in un momento nel quale l’amministrazione locale era del tutto allineata con quella centrale di Beijing sulla linea negazionista.
Fin da gennaio le critiche dei gruppi di manifestanti, e più largamente della società civile, si sono concentrate sulle risposte troppo morbide del governo a una crisi che in Cina aveva già raggiunto livelli di diffusione allarmanti, arrivando poi in città con i primi casi accertati il 22 gennaio di pazienti che erano stati nella zona dello Hubei nei precedenti quattordici giorni. Impressionante è stato lo sciopero generale del personale medico durato cinque giorni a partire dal 5 febbraio, che ha forzato il governo a limitare, pur senza chiudere del tutto, gli ingressi dei vicini cinesi in città.
Sono stati quindi il sentimento anti-cinese e la generale diffidenza nei confronti delle “rassicurazioni ufficiali” la prima barriera contro il virus. I cittadini, autonomamente, hanno cominciato a prendere le precauzioni già messe in atto durante la Sars nel 2003 che, seppur con numeri assai diversi, inferiori su scala globale ma molto più alti a livello locale (298 vittime nella sola Hong Kong), ha lasciato una cicatrice profonda nella popolazione. La cosiddetta “cultura” asiatica di indossare mascherine in luoghi pubblici anche quando si hanno banali raffreddori ne è stata una diretta conseguenza. Solo il 25 marzo, quando ormai l’Oms aveva annunciato lo stato di pandemia globale e la maggior parte dei paesi in Asia avevano chiuso del tutto le frontiere, Hong Kong si è adeguata alle misure più restrittive riuscendo poi a contenere quasi del tutto l’epidemia (1.066 casi accertati e sole 4 vittime a oggi).
Con la crisi sanitaria sotto controllo l’attenzione della città è tornata a concentrarsi sui problemi lasciati irrisolti a dicembre, in particolare le accuse di abuso di potere e uso eccessivo di violenza da parte delle forze dell’ordine. Tuttavia le restrizioni relative agli assembramenti di più di quattro persone, entrati in vigore a marzo, hanno trovato in questa seconda fase una nuova funzione nel sedare le piccole proteste che spontaneamente cominciavano a ricrearsi in alcuni centri commerciali. Molto discussa è stata la scelta di estendere tali misure restrittive ogni quattordici giorni, nonostante la totale assenza di contagi locali da settimane, andando con la più recente a coprire e di fatto a impedire l’annuale veglia commemorativa della strage di Tienanmen, che si tiene ogni anno il 4 giugno.
LE PRIME SENTENZE
Questo periodo di pausa ha portato anche le prime conseguenze legali degli eventi dello scorso anno. Il primo episodio, avvenuto il 18 aprile, ha visto l’arresto di quindici figure di spicco all’interno dei movimenti democratici della città, accusati di avere avuto un ruolo organizzativo nelle manifestazioni non autorizzate del 18 agosto e 1 ottobre 2019. Sebbene gli arrestati siano stati rilasciati su cauzione, l’episodio ha mandato un messaggio chiaro: a Beijing non si fa nessuna distinzione tra i rappresentati democratici di un pensiero di opposizione e le frange più estremiste dei manifestanti.
La fine di aprile ha visto anche l’emanazione di due sentenze, la prima relativa al caso di un cittadino contrario alle proteste che ha attaccato con un coltello due manifestati e una giornalista presso uno dei tanti “Lennon wall” (muri sparsi per la città e adibiti a bacheche pubbliche dove i manifestanti attaccano manifesti e messaggi) mandando i malcapitati in ospedale con la giornalista in condizioni critiche. Alla lettura della condanna di tre anni e nove mesi di reclusione, il giudice ha però voluto aggiungere una nota personale nella quale esprimeva la propria simpatia per l’uomo sostenendo come l’esasperazione causata dalle proteste fosse all’origine di un gesto così estremo, arrivando a definire l’assalitore una vittima delle circostanze. Il commento ha immediatamente scatenato polemiche e al giudice sono stati sottratti i casi relativi alle proteste dello scorso anno, senza però alcuna forma concreta di penalizzazione.
La seconda condanna, a quattro anni, coinvolge invece un bagnino di ventidue anni che ha ammesso la propria colpevolezza in relazione agli eventi dello scorso 12 giugno durante i quali ha partecipato alla forzatura di un blocco della polizia, poi finito in uno scontro durante il quale i manifestanti hanno lanciato mattoni e altri oggetti contro le forze dell’ordine. Il ragazzo è il primo a rispondere del capo di accusa di rioting, usato per la prima volta in relazione alla manifestazione del 12 giugno e poi al centro di molte proteste successive poiché considerato dai manifestanti come ingiusto. La manifestazione sopracitata è stata particolarmente significativa poiché inizialmente autorizzata ma poi degenerata a causa dell’uso di gas lacrimogeni e altri strumenti di dispersione da parte della polizia.
“UN PAESE, UN SISTEMA”
Anche la Cina sta vivendo la ripresa dalla crisi Covid. Il mese di maggio è anche quello delle “due sessioni”, ovvero il CPPCC (Chinese People’s Political Consultative Conference, la più grande conferenza delle varie forze di leadership nella nazione), in concomitanza con sessioni plenarie dell’NPC (National People’s Congress), evento annuale durante il quale vengono prese le più importanti decisioni a livello nazionale.
Fino a oggi, seppure con la forte influenza del governo centrale, Hong Kong aveva gestito autonomamente i moti anti-governativi nel rispetto della Basic Law, la mini costituzione post-coloniale che regola la città, seppure non senza sbavature, e alle volte appigliandosi a cavilli e minuzie legali obsolete e in disuso. Il ruolo della Basic Law è da tempo al centro del dibattito tra giuristi in quanto creata per tutelare l’indipendenza della città riconoscendo però la sovranità cinese, in un delicato equilibrio noto come “one country, two system”. Questa intrinseca contraddizione è diventata lampante durante le proteste, quando il governo ha negato il diritto a manifestare contro il proprio operato, specie nella fase iniziale in cui le proteste non avevano ancora assunto una dimensione violenta.
Nell’incredulità generale, il governo di Beijing ha deciso di risolvere il contenzioso una volta per tutte. Il 22 maggio, durante la prima giornata del CPPCC, è stata annunciata una nuova legge per la sicurezza nazionale a Hong Kong emanata dal governo centrale, scavalcando per la prima volta il sistema legislativo locale. In particolare, il premier Li Keqiang ha parlato di un più solido meccanismo di risposta e intervento a tutela dell’ordine in città. L’affermazione è risultata ancora più forte anche per l’omissione da parte del premier di qualunque riferimento alla Basic Law, a differenza di quanto aveva affermato nel 2019 dicendo che Beijing “avrebbe agito con rigore e rispetto della costituzione cinese e della Basic Law delle regioni amministrative a statuto speciale di Hong Kong e Macao”.
Sebbene i dettagli della nuova legge non siano ancora chiari è già emerso come questa porterà alla creazione a Hong Kong di “agenzie locali” atte a “prevenire, frustrare e punire” le minacce alla sicurezza nazionale legate ad atti illegali di stampo secessionista, sovversivo e terrorista, come ormai la Cina definisce i manifestanti.
Nella giornata successiva il vice-premier Han Zheng ha poi aggiunto che le proteste dello scorso anno hanno mostrato la presenza di un “vuoto” nel sistema legale della città che questa legge creata su misura mira a riempire, specificando però che le norme restrittive andranno a toccare solo “una minoranza di sovversivi all’interno della popolazione”. Si vede che la rassicurazione non è apparsa sufficiente poiché i mercati hanno immediatamente registrato un crollo dei titoli con una fuga degli investitori e ripercussioni su scala globale dovute al ruolo di hub che la città ancora ricopre nel mondo della finanza globale. Non sono tardate anche le allarmate risposte politiche, tanto da parte di enti esteri quanto dai leader dei partiti di opposizione e gruppi per i diritti civili locali, molti dei quali definiscono la legge come “la morte di Hong Kong” e il definitivo passaggio a un “one country, one system”. Come era poi prevedibile, la giornata di domenica 24 maggio ha visto la prima grande manifestazione pubblica nelle strade di Causeway Bay contro la legge annunciata. Puntuale è arrivato anche l’intervento della polizia con lacrimogeni e cannoni ad acqua, protrattosi fino alla sera e concluso con numerosi arresti.
La verità è che l’originale rapporto tra Hong Kong e la madre patria era stato definito nel 1997 sulla base di parametri perlopiù superati. L’idea originale che Hong Kong mantenesse la propria indipendenza al fine di diventare un modello tanto economico quanto di progresso sociale per il resto della Cina è andata affievolendosi per poi essere completamente abbandonata con la salita al potere del presidente Xi. Nella visione corrente, con il primato economico ormai passato ad altre grandi città quali Shanghai, Beijing e Shenzhen, il ruolo di hub finanziario della città si affievolisce e la storia dei diritti civili suona sempre più come un’utopia da benpensanti occidentali, irrilevante nell’economia complessiva del paese. È ormai chiaro che lo spazientito presidente Xi è pronto a pagare tutte le conseguenze del caso, persino sacrificare lo status della città, se questo possa servire a estirpare l’erbaccia della democrazia una volta per tutte. (gianluca crudele)
Leave a Reply