Nel settembre 2012, per celebrare la cinquantesima uscita di Napoli Monitor, abbiamo preparato un “numero speciale” chiedendo a redattori e collaboratori del giornale di scrivere dei racconti sulla loro generazione, e ad altrettanti disegnatori di illustrarli a tutta pagina. Ne sono venuti fuori otto pezzi autobiografici – in un arco anagrafico che va dai venti ai quarant’anni – che pubblicheremo nel corso di questo mese di luglio, a distanza di quasi due anni dalla loro scrittura.
‘O cinese, manovale. Capa ‘e chiuovo, spacciatore. Banana, manovale (attualmente alla base Nato di Vicenza per conto di ditte napoletane in subappalto). Walterino, manovale. ‘O chiatto, millemestieri prima, spacciatore poi. Beberòn, custode notturno. ‘O nano, meccanico Stella Polare. Lo squalo, geometra. A vederci da fuori forse sembravamo aggressivi ma stringe bene una strofa di Luchè che fa più o meno così: “Diceno, diceno che vatteno, ma poi ‘e vaje ‘asotto e so’ cchiù soffice ‘e l’ovatta”. Che in prosa equivale a “la spavalderia è una corazza in cui ci si arrocca per spirito di sopravvivenza”.
All’inizio al mare andavamo in autobus, a Pozzuoli. Non si aveva neanche la pazienza di fare cento metri per raggiungere il lungomare imprigionato da eterni lavori, no, ci tuffavamo appena scesi al capolinea: il porto. Questo vuol dire che prendevamo la rincorsa, scarpe al piede, dalla darsena alta almeno tre metri e splash, di petto palla cannolicchio direttamente in un’immensa chiazza d’olio. Nel blu dipinto di nero. Quando si era fortunati nel porto qualche nave dell’est sostava anche un’estate intera, portando il baratro del nostro tuffare più su di almeno dieci metri. Navi né da passeggeri né da carico, tutte arrugginite e con quel poco equipaggio a bordo che quando ci vedeva salire provava a urlarci qualcosa contro, in una lingua che pur potendo non avremmo voluto capire… «GRraE#skjUüwZijeeee!», e noi lì, già sospesi in aria, in uno di quegli attimi che sembrano eterni. Fiuuuum e plaf, gocce di eternit tra i capelli pensando: mare, ti amianto. Di fronte la Sofer che fabbrica treni e dietro il cantiere del Rione Terra come più o meno lo si può vedere adesso.
Quando sono arrivati i motorini, bravo!, prima i sì poi gli zip, le sfera, finalmente free e cilindrata salendo (col trucco o senza – proprio come una donna – tanto che “mezzi preparati” li dicevano) i confini si sono allargati al resto dei Campi Flegrei. E allora Baia, Miseno, Lucrino, Torregaveta. Il petrolio scompariva dall’acqua e compariva in cielo col monossido di poppa dalle marmitte. Bagni migliori certo, nuove amicizie, risse e risate. Poi sono arrivate le macchine a sottrarre quel tanto di selvaggio che restava in queste uscite. Al centro del discorso si facevano largo i nuovi desideri: motori più grossi, fisici più scolpiti, telefoni sempre più piccoli. Roba costosa che facendo appena “i giovani di un mestiere” si poteva pagare o pazientando con annuali attenti risparmi o arrotondando vendendo droga. Fu a quel tempo che vidi trasferire i topolino, i bugs bunny, i gatto silvestro stampati sui vestiti Iceberg (un giubbotto un milione) direttamente sulla pelle di molti di loro. Tatuaggi improbabili, difficilmente spiegabili a posteriori.
Se c’è un preciso punto di rottura non saprei, diciamo che le lenti che inevitabilmente mi stavano vestendo hanno iniziato a infrangersi quando nel ’92 sui navigli di Milano si materializzarono davanti ai miei occhi degli enormi disegni spruzzati a bomboletta, poi ne vidi ancora a Rimini nel ’93, tanto che tornato a Napoli ero pronto a recepire e riprodurre quelli che, anche qui, iniziavano a spuntare a macchia di leopardo. A questo si aggiunse un professore (supplente) delle scuole medie che seppe far germogliare quanto con il titolare “di ruolo” poteva tranquillamente essere sepolto. Il primo giorno di Istituto d’arte poi, Nando, educatore instancabile, mandò a chiamare mio padre perché gli risposi male. È da allora che il nostro conflitto-confronto non ha mai avuto fine e oggi ancora mi chiedo: caos e caso sono un’anagramma? Ecco, qualcuno a un certo punto mi ha insegnato il dubbio, che poi è come educare alla sofferenza, tanto che una cosa che scriveremo a rullo sui muri, non so ancora quando, è: PORCI DUBBI, dove la O, aperta o chiusa come una porta che sbatte al vento, ripropone il momento germinale di quella frattura che da adolescente, per forza di cose, mi separò da quanto avevo attorno.
Del resto tutti quelli della banda di cui sopra, chi più chi meno, hanno scelto una tag, comprato una bomboletta e appresso a me fatto un pezzo sul lungolinea della Cumana. Anch’io li seguivo al mare allo stadio in discoteca, però con la testa ero già distante. Giravo con il cofano gonfio di bombolette, così, quando proprio non reggevo più l’ambiente, me ne uscivo dalla discoteca e andavo a dipingere sui treni, non tanto con qualche altro pittore ma con questi amici affascinati dal veder nascere una creazione: tanti Faussone, abili manovali, attenti al processo più che al risultato.
Lo scambio c’era insomma, solo che la mia inconsapevole proposta culturale prevedeva di ingoiare l’instabilità, farne risorsa senza subirla. Mentre i padri, almeno quelli che tra noi ne avevano uno, spingevano – come se il miracolo non fosse mai finito – a cercare stabilità, garanzie, lavori normali insomma. Avrei potuto prendere il posto nell’azienda di trasporto pubblico dove ha lavorato l’intera vita mio padre, ed essere infelice. Invece ho scelto di essere infelice a modo mio, accollandomi di guardare a fondo, ripensandolo, quel “disonore dell’oggi che c’inquadra e ci riguarda”.
Dai graffiti all’hip hop non c’è salto e alle prime jam potevi stringere con chi sentivi più vicino nell’indole, così nel tempo ho incontrato quelli che poi sono diventati i miei migliori amici. Simme fujute cu ‘e guardie ‘e calcagne pe’ quatte disegne diceva in un rap La Famiglia. E più o meno questo è stato, è, sarà.
Nel ’95 con altri due amici siamo stati arrestati. La Polfer ci sequestrò uno zaino con più di trenta spray e bozzetti stropicciati. Il giudice del tribunale minorile (una donna che dopo qualche anno avrei dovuto rincontrare) scrisse nella non-autorizzazione a procedere che la nostra esigenza di dipingere era così forte da non riuscirsi a placare davanti a un vagone della metropolitana. Ce la cavammo con una tirata d’orecchie tutto sommato, e quel pezzo di carta provocatoriamente lo portai come credito aggiuntivo all’esame di maturità. Fu accettato.
Gli altri due che quella e altre notti erano con me, oggi sono operai. Uno all’Ansaldo, l’altro nella carrozzeria di suo padre. Si dice che il talento è più erotico se sprecato, ma quando penso a Lello che dipinge sportelli d’auto al posto di quelle sue devastanti tavole di legno mi viene da piangere. Aveva, per un breve periodo, messo in piedi un piccolo laboratorio nello “scantinato” del suo palazzo al rione Traiano, quartiere dove esistono l’essere umano, il cittadino, e lo “scantinatista”: gente che dopo il terremoto ha occupato queste cantine senza luce e per disperazione ci ha fatto casa. In quel bunker stretto e buio, tra raffinerie e punti vendita di ogni tipo di droga che, mi diceva, nascondevano nei carrozzini dei neonati, ci piazzò cavalletto, olii e trementina; ma poi non ha avuto la forza di rinunciare a quelli che io so che lui sa di essere falsi bisogni.
Se Lello non dipinge più è perché intimamente sa che un pittore è ben oltre la domenica, sa che le ossessioni ti squarciano il petto dall’interno, svuotandoti. Questo vuoto, sul quale si erge l’opera, è difficile da pensare, impossibile da gestire e, soprattutto, fa di te un emarginato, un alieno che abbraccia quella viscida insicurezza che tutti rifuggono. Vulimme ‘o posto si è urlato, “un posto al sole” ha poi aggiunto qualcuno, e invece niente, ci resta il sole. Accecante e inguardabile come contenesse tutte le immagini del mondo.
E sono queste immagini che mi hanno disegnato. E poi trascinato in un altro mondo. Iniziai allora a cercare suggestioni ovunque: la curiosità (nata con l’universo diceva Lautremont) si amplifica, un tassello aggiunto ne butta giù due e ti resta da gestire una bulimia inarrestabile, senza mezze misure. O è la rivoluzione permanente o la santa ignoranza, ché la culturina di massa non può che essere la strombazzata che annuncia la barbarie. Ma ecco dove voglio arrivare: questa vocazione perseguìta (o che m’ha inseguito) mi ha fatto cambiare gente. Ho iniziato a frequentare gli alfabetizzati e i garantiti, il che spesso coincide con “i militanti”. Dall’interno ho attraversato tutto il movimento post-Seattle, e il rammarico più grande è che non si è mai voluto affrontare seriamente il discorso su mezzi e fini finendo col nascondersi dietro il dito della repressione.
Da un punto di vista estetico – che poi è quello che mi riguarda – il movimento è stato quasi sempre scialbo, restio all’unico cambiamento, quello di linguaggio, che avrebbe potuto rompere la gabbia – anzi meglio – l’acquario, che ci si è costruiti attorno pur di non affrontare se stessi e il proprio tempo. Dopo che anni di pittura/partitura urbana ti sembra abbiano preparato almeno quella parte di città a te affine a nuovi sintagmi di forma, che è anche contenuto, un centro sociale ti chiede di riprodurre la scritta (urlata perché maiuscola) “DISTRUGGI IL POTERE” di dieci anni prima. E allora ti cascano le braccia. E c’è da prendersela con tutti quei se stessi (nessuno escluso) che si assecondano a vicenda, come se non si potesse – tutti insieme – smetterla di mostrare i muscoli del simbolico e iniziare a usare i nervi della persuasione. Quelli con cui puoi parlare di cose che vanno oltre il Sanremo li vedi di rado, stanno nelle Facoltà, nelle biblioteche, o in casa a scrivere cose che leggeranno tra di loro, in un linguaggio spesso autoreferenziale e propedeutico a scalate interne alla loro gabbietta piramidale di cardilli che rifanno Bach.
La tecnocrazia ci sta cambiando la lingua in tavola e, certo, c’è da dire che quasi sempre non fai in tempo a costruire un nuovo alfabeto che arriva la pubblicità a ingoiartelo ma, ecco, quello che mi pare denominatore comune della mia generazione – senza distinzione tra alfabetizzati e non – è l’intossicazione da apparenza. Probabilmente questa nuova droga del “ti guardo guardarmi guardare” è figlia di quel passaggio rivoluzionario che dalla diga dell’analogico ci ha scaraventati nel mare aperto del digitale. S’incassano colpi che non si riconoscono come tali e per il momento si è riunciato a governare la nave, ma non all’inchino sottocosta del due punto zero.
Se prima potevi avere la sensazione di essere tra due fuochi (la gente di strada-distratta da un lato, i cardilli che se la cantano dall’altro) ora mi pare che l’incendio sia unico e immenso e mi odio, perché l’ho attizzato anch’io, fosse anche solo mancando di quell’intransigenza che tempi come questo richiedevano.
Ora non assecondo più nessuno e il lavorìo che spalmo nei luoghi e nei modi che ritengo necessari punta a sottrarsi al soliloquio senza ammiccare alle masse. Non è dialogo, è vento. Da pochi a pochi diceva qualcuno, ma tenendo pur presente un disegno generale (fosse pure uno scarabocchio al negativo del tipo “Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”) che combatta la più pericolosa delle ideologie: “quella che ci dichiara liberi dalle ideologie”.
Negli ultimi due anni mi occupo di politica, dicevo, dipingendo in un quartiere della città prigioniero di un cliché. La pittura e un’incostante presenza-assenza mi permettono di saltare di basso in basso con i ferri del mestiere e conoscere, uno a uno, i suoi abitanti. Il fervore che mi riconoscono è l’autorizzazione a procedere. E ora, dopo tanti e tanti dipinti, ci hanno fatto l’orecchio (i colori vanno suonati), non chiedono più come prima che disegni altro da me, no, chiedono solo nuove opere i più grandi, o di spennellare un po’ i più piccoli. Entrambi senza rinunciare a un’interpretazione che quasi sempre è atrofizzata dall’immaginario televisivo (sei così bravo, perché non vai a Italians got talent?) ma che talvolta è geniale (Ma chill’ ‘int’ ‘a clessidra se sta pippann’ ‘o tiempo?).
In città, devo essere sincero, mi sento solo. In tutti questi anni non ho trovato un solo pittore con cui condividere pensieri e azioni (sì, alcuni vecchi maestri, ma con loro solo pensieri). Alcuni sono andati via, altri non hanno resistito al peso dell’incertezza cercando altri modi per buscarsi il pane. Se questo è deprimente da un lato, dall’altro è stato un grande stimolo a incrociare relazioni con tutte quelle solitudini, silenziose perlopiù, che in altri campi esploravano mezzi a noi sconosciuti: registi, scrittori, fumettisti, fotografi, giornalisti, ceramisti, artigiani e tecnici di varia provenienza.
Forse è solo così, mischiando tutto, facendo esplodere i medium che frequentiamo, che si possono ottenere opere e dunque uomini migliori. Se spesso è il pettine a generare i nodi che gli vengono incontro, non per questo si deve – miei cari alfabetizzati – lasciarsi ammaliare “copiando l’accento delle case popolari”. E voi, miei cari fratelli di strada? Tutto ciò che luccica è loro, se lo tengano. Noi con gusto, in sella al ciuccio, nutriamoci di freselle. (cyop&kaf)
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