La Conferenza delle Parti di Glasgow – o COP26 – ha concluso i lavori della prima di due settimane in un turbinio di annunci da parte di capi di stato, magnati della finanza, e alleanze di governi volenterosi. Tutte insieme, le promesse inanellate nelle stanze della COP metterebbero le emissioni planetarie di gas serra, per la prima volta dagli accordi di Parigi, su una traiettoria di riduzione che dovrebbe condurre a non sfondare il tetto di 2°C di aumento della temperatura media globale – fermando la sua marcia implacabile tra 1,9 e 1,8°C. A stretto giro, il segretariato sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite ci ha tenuto a precisare che, al di là degli annunci, secondo i piani ufficiali già consegnati dagli stati, entro il 2030 le emissioni aumenteranno di circa il 14% rispetto al 2010, rendendo probabile, come afferma un rapporto recente dello stesso ente, una temperatura media globale di 2,7°C entro il 2060. In ogni caso, tra promesse e realtà, siamo ben oltre la soglia posta come limite di sicurezza dagli scienziati di 1,5°C. Per centrare questo obiettivo, secondo l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), le emissioni devono diminuire del 45% entro il 2030. Quest’anno, le emissioni globali sono aumentate del 5%. Più che degli annunci, siamo quindi nel campo delle “annunciazioni”: pur di non agire alla radice del problema, i capi di stato alla COP26 ormai si affidano ai miracoli come unica chance per mantenere il pianeta abitabile. Oltre che sulle emissioni, i delegati dei paesi ricchi alla COP26 stanno anche fallendo nel dare seguito agli impegni di mettere a disposizione risorse (economiche, tecnologiche e politiche) per l’adattamento e la compensazione dei danni nei paesi più vulnerabili, uno dei nodi più urgenti della congiuntura attuale.
È in questo contesto che la marcia globale per la giustizia climatica di sabato 6 novembre a Glasgow ha dissolto la retorica della Conferenza delle Parti esponendo la visione radicalmente alternativa di politica climatica della COP popolare, la Conference of People, l’alleanza di movimenti, comunità vulnerabili e società civile che condensa le rivendicazioni della maggioranza del pianeta. In parallelo al convergere di jet privati e aerei di stato, a Glasgow sono arrivati con ogni mezzo – dalle bici ai treni, e perfino in barca sfidando il blocco navale delle autorità – decine di migliaia di attivisti di tutto il mondo per mettere il fiato sul collo ai negoziatori “della COP piú escludente di sempre” e per chiarire le implicazioni complessive – ben oltre la gestione del carbonio nell’atmosfera – che la crisi climatica impone di affrontare, attraverso niente di meno che la messa in questione totale delle ineguaglianze sociali passate e presenti, intrecciate alle cause, alle conseguenze e alle soluzioni del rapporto distruttivo tra economia capitalista e ambiente.
A coordinare l’organizzazione e lo svolgimento della marcia – cosí come del People’s Summit di Glasgow dal 7 all’11 novembre – è la Coalizione della COP26, un network di centinaia di gruppi della società civile con base nel Regno Unito, il cui scopo principale è contrastare con la giustizia climatica le “false soluzioni” prodotte dalla COP26 ufficiale, mettendo al centro le voci delle comunità più vulnerabili e meno responsabili della crisi. La Coalizione ha quattro richieste principali: concentrare tutti gli sforzi entro il limite di 1,5°C; abbandonare le aspirazioni allo zero netto di emissioni per puntare invece sullo zero reale; fermare l’estrazione e l’espansione dei combustibili fossili; rigettare le false soluzioni, in particolare i mercati di carbonio e l’affidarsi a tecnologie oggi inesistenti. Obiettivi da realizzare, secondo la Coalizione, entro una transizione dell’economia che non lasci indietro nessun lavoratore e basata sulla redistribuzione della ricchezza verso il Sud del mondo e le comunità vulnerabili (non tramite ulteriori debiti ma come riparazioni dovute del furto coloniale). Questa la linea posta dal basso alle timide ambizioni della COP dei potenti.
E per affermarla con forza, la marcia del 6 novembre, in contemporanea con una cinquantina di manifestazione nel Regno Unito e centinaia intorno al globo, ha attraversato Glasgow da Kelvingrove Park, a ovest della città, fino al parco di Glasgow Green nella parte est. La pioggia nordica, a tratti soffusa e a tratti pesante, ha accompagnato più di centomila persone per tutto il tragitto, senza però scalfire il calore emanato dalla sensazione di vedere materializzata una volontà collettiva frutto di esperienze diversissime, che attraverso il clima tenta la difficile ma improrogabile strada della ricomposizione delle vertenze, dei bisogni e dei desideri contro il disfacimento ecologico e sociale che avanza.
Ogni blocco del corteo ha contribuito ad aggiungere un ordito al tessuto delle rivendicazioni. Le delegazioni dei popoli indigeni e delle comunità sulla linea del fronte degli impatti climatici hanno aperto la marcia, rigettando la qualifica di vittime inevitabili e forti delle proprie soluzioni territoriali alla spaccatura tra metabolismo sociale ed ecologico. A seguire, le reti anti-razziste e per la libertà di movimento, le associazioni degli agricoltori e lavoratori del mare, le realtà attiviste di Glasgow, i gruppi religiosi, i giovani e giovanissimi di Fridays for Future e Extinction Rebellion. Nel mezzo, in diversi e nutriti blocchi, i sindacati e le associazioni di lavoratori del Regno Unito e oltre – dai pompieri alle infermiere –, a concretizzare la solidarietà di classe e planetaria alla base del progetto della giustizia climatica.
La cifra della marcia è stata questa convergenza tra identità, storie e temi messi in comune dai partecipanti. La complessità della crisi climatica, e dell’effettiva politica che richiede, racchiusa in pochi cardini imprescindibili. Mettere le rivendicazioni e le soluzioni delle comunità marginalizzate – popoli indigeni, abitanti delle isole del Pacifico, minoranze etniche e razziali, ma anche lavoratori, donne e giovani – al centro, contro gli interessi di chi intende mantenere lo status quo “cambiando tutto affinchè nulla cambi”. Con le false promesse e soluzioni della COP26 rispedite al mittente, si pretende l’inclusione delle clausole di responsabilità negli accordi climatici, un elemento che garantirebbe la ripartizione equa dei costi e dei benefici, opposto da sempre dai paesi ricchi in quanto li vedrebbe nella posizione di debitori, piuttosto che nella solita veste di creditori, dei paesi poveri. Alla fine, quando un corteo stanco ma elettrizzato ha ascoltato gli interventi dal palco di Glasgow Green, sembrava di essere sul margine estremo della storia, nel luogo in cui il passato irrisolto ora pretende di essere onestamente giudicato e affrontato, per avere qualche opportunità di futuro per la maggioranza che non sia più distopico del presente.
La COP degli stati non porta soluzioni, al contrario, dando un’impressione di controllo contribuisce a narcotizzare le ansie sociali con promesse e annunci spettacolari, mentre le scelte necessarie sono ignorate o rimandate, riducendo con ogni mese e anno che passa l’opportunità di mantenere un clima stabile. Anche nel 1992 all’Earth Summit di Rio de Janeiro, che diede inizio alle conferenze su ambiente e clima, i governi convinsero tutti che il problema era in fase di risoluzione. Dopo trent’anni (durante i quali è stata emessa la stessa quantità di gas serra dei precedenti centocinquanta anni), l’entusiasmo degli annunci non è cambiato ma i margini di azione si sono ridotti enormemente. Pur se il greenwashing si è perfezionato, il proliferare di eventi estremi è arduo da minimizzare. Quel che la Coalizione dei movimenti ha mostrato, ancora una volta, è che per andare oltre la depressione, lo sconforto, la percezione della mancanza di futuro, bisogna trovare il modo di mettersi insieme tra esperienze differenti. A Glasgow sono arrivati gli esiti di percorsi che provano a costruire potere sociale sui territori e nelle città per consolidare una rete globale alternativa e conflittuale ai club dei potenti. Per convincere chi ancora tentenna che “il cambiamento sta arrivando, che lo vogliate oppure no”. (salvatore de rosa)
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