Sarà presentato a Milano questa sera, venerdì 30 settembre, alle ore 20:30 al Csoa Cox18 (via Conchetta, 18), il nuovo numero della rivista Officina Primo Maggio. La presentazione avrà per tema principale la questione abitativa a Milano, anche alla luce del recente attacco agli attivisti del Comitato abitanti Giambellino-Lorenteggio, imputati nel processo milanese “Robin Hood” iniziato nell’aprile 2019.
Alla presentazione parteciperanno Andrea Bottalico (redazione di Officina Primo Maggio), Salvatore Porcaro (redazione di Napoli Monitor), alcune imputate del processo “Robin Hood”, e attivisti e attiviste dei comitati di lotta per l’abitare a Milano.
Pubblichiamo a seguire alcuni estratti dalla lunga intervista rilasciata dagli attivisti e le attiviste del Gruppo di lavoro per le periferie alla redazione di Officina Primo Maggio, dal numero 5 della rivista.
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Franca Caffa: «Ho svolto un impegno di oltre trent’anni sulla città. Lo definisco così perché in questo modo ho inteso il mio lavoro locale sulle tremila case popolari dei quartieri Erp (Edilizia residenziale pubblica) Molise-Calvairate- Ponti. Su questa esperienza, vissuta quotidianamente oltre i limiti degli orari di quanti hanno collaborato con me, dalla mattina alla sera, e spesso anche il sabato, talora la domenica, ho costantemente fondato una visione cittadina, una proposta cittadina di costruzione di unità, sia dei vari soggetti impegnati, sia della popolazione abitante nelle case popolari. In questo modo ho inteso assumere il compito di una battaglia culturale, politica, in contrasto con la frequente tendenza dei vari soggetti, associazioni, comitati, a isolare nella città un malinteso interesse del proprio quartiere, della propria esperienza, e questo non già, come è giusto, per distinguerlo nei suoi tratti peculiari, ma per affermarne in certo modo il primato, soggiacendo alla frammentazione generale dell’impegno […]. Questa frammentazione conviene agli interessi che calano dalle istituzioni con politiche che creano competizione, finalizzate alla divisione. Ho concluso la mia esperienza nel Comitato degli inquilini dei tre vecchi quartieri storici situati a sud est della città, e a marzo del 2019 ho proposto di costituire il Gruppo di lavoro per le periferie. Ne ho parlato come primo passo con Ermanno Ronda (del Sindacato inquilini casa e territorio, ndr) e poi insieme abbiamo fatto una proposta a tutto il giro di compagni e amici, persone con cui abbiamo fatto esperienze comuni sulla questione case popolari e, più in generale, sulla questione casa. Il mio intento è che il Gruppo di lavoro per le periferie lavori per la presa di coscienza della disastrosa sconfitta a cui la parte popolare della società è andata incontro negli ultimi decenni. Mi sono detta: prendiamo in esame anche le nostre politiche dal basso e le nostre derive e cerchiamo la risposta alla domanda: come dobbiamo provare a cambiarle? Quale deve essere il nostro cambiamento?
«A questo scopo, con la mia esperienza di inquilina di una casa popolare, do il mio contributo al Gruppo. A seguito di uno sfratto nel 1976 ho avuto in assegnazione un alloggio di trentatré metri quadri (abitabili) nel quartiere Calvairate, costruito nel 1929. Le case Erp non si chiamano “case”, non si chiamano “appartamenti”, nella lingua propria delle istituzioni preposte alle politiche della casa si chiamano “alloggi”. In proposito possiamo chiedere lumi alla linguistica. Perché “alloggi”? Ebbene, con un accenno possiamo richiamarne la semantica: il termine “alloggio” è connotato da un significato di ordine deteriore. Mi sono dunque trasferita con il mio bambino di otto anni nell’alloggio che mi era stato assegnato e le vicine di casa al mio arrivo mi hanno salutata così: “Lei è venuta ad abitare nella scala delle puttane e dei barboni”. È stata la scala da cui è partita l’iniziativa del riscatto, con la costituzione del Comitato degli inquilini. Data questa mia esperienza, ho maturato un convincimento che mi porta a dire a chi ha funzione di rappresentanza o di ricerca: che cosa sai tu dell’alloggiare in un quartiere Erp di degrado e di esclusione? In profondo, ognuno conosce la casa in cui abita o quelle in cui ha abitato, con la sua famiglia o in solitudine. E questo attiene alla funzione politica e sindacale della rappresentanza, alla funzione della ricerca, oggi, alle loro grandi inadeguatezze, attiene a chi la svolge, come e a quale distanza dalla realtà.
«Il mio pensiero va ad Antonio Tosi, docente di sociologia urbana al Politecnico di Milano, che per oltre vent’anni ci è stato vicino e da ultimo ha fatto parte del Gruppo, dalla sua costituzione. È morto il 10 luglio 2021, a ottantatré anni. Non un solo necrologio espresso dall’accademia cita la sua partecipazione al Gruppo. È nella nostra memoria. Al tempo stesso richiamo le responsabilità dell’università, e in particolare del Politecnico, in larga misura responsabile di un lavoro definito “ricerca”, che ricerca non è, perché la ricerca per definizione è disinteressata». […]
Alfredo Alietti: «Un problema che abbiamo messo al centro è quello della rappresentanza. Non c’è una piattaforma nazionale sulla questione abitativa, in Italia abbiamo tante iniziative e tante esperienze di intervento e lotta sulla casa, ma non c’è una vera piattaforma nazionale. Abbiamo buoni interventi locali e per il resto alcune nicchie ecologiche che non si parlano. Così manca la forza per una rivendicazione sulla casa di respiro più ampio».
Loris Panzieri: «A Milano troppe persone la casa non ce l’hanno e quindi occupano, se possono. Situazioni precarie e viene spesso a mancare la cura per una situazione che non sentono loro, manca quindi l’attenzione e l’amore per il contesto in cui si vive. Vengono occupate persino le cantine. Appartamenti con porte d’ingresso murate con lastre metalliche, appartamenti sfitti, degrado, mancanza di controllo e di aiuto. Ricordo un campo di sfollati per la guerra civile in Somalia. Le abitazioni erano capanne di paglia e plastica. Non un pezzetto di plastica fuori posto, non una sola immondizia visibile. Sfollati, precari, ma forti del clan, del prosieguo del loro modo di vivere. Nei quartieri di case popolari, al contrario, mancano una logica e un lavoro sulla convivenza di problematiche differenti e contrapposte. Per esempio, a causa degli sgomberi dei campi rom, sgomberi selvaggi e continui, molti rom hanno occupato appartamenti popolari perché cacciati da campi dove avevano deciso di vivere. Il loro inserimento nei complessi di case popolari non è una scelta ma una necessità, con tutto quello che questo comporta. Conosco gente che ha subito più sgomberi degli anni che ha. Spesso occupano malamente, con rabbia. Sono situazioni complesse e non si vede una strategia condivisibile da parte dell’ente locale e i suoi servizi sociali».
Luciana Salimbeni: «A Molise-Calvairate abbiamo cinquecento alloggi sfitti, ristrutturati e non assegnati. Abbiamo chiesto all’Aler perché, ma non abbiamo ottenuto risposte. Ma potrei dirvi di altri alloggi sfitti. E non ci rispondono. Abbiamo il paradosso di avere case disponibili e persone per strada che hanno bisogno di una casa; è come invitare la gente a occupare».
Franca Caffa: «Noi siamo stati ricchi di proposte, ma i responsabili istituzionali non ci hanno ascoltato, mentre battono la grancassa della partecipazione. Del resto, hanno manifestato indifferenza anche soggetti di impegno e di rappresentanza, incoerenti con il loro ruolo. [….] L’11 gennaio 2013 al Teatro Puccini nel corso di un incontro del forum per le politiche sociali “Tutta la Milano possibile”, il sindaco Pisapia ci ha detto: “Parlateci con franchezza”. Dal 15 gennaio 2013 all’11 ottobre 2015 gli ho scritto cinquantasei lettere aperte in cui ho dato la parola a chi abita nelle case popolari. Jaca Book mi ha proposto di pubblicarle ma, in prossimità delle elezioni del 2016, improvvisamente mi ha scritto: “In quattro mesi non siamo riusciti a trovare chi osasse fare la prefazione”. Un noto sociologo si è dichiarato disponibile, non è stato contattato dall’editore e ha commentato così: “Le case editrici subiscono pressioni”. Le mie lettere aperte al sindaco Pisapia, finora inedite, costituiscono una particolare documentazione delle politiche del centrosinistra a Milano, della sua continuità e nei suoi sviluppi fino all’amministrazione Sala».
Ermanno Ronda: «Nel 2021 è uscita tutta una serie di dati che ci danno ragione, perché dicono che ci sono 146 mila nuclei familiari a Milano che non riescono a sostenere un affitto privato perché hanno un reddito da 1.000-1.500 euro al mese. Le istituzioni dovrebbero trarne delle conclusioni in coerenza con i dati di realtà, ma se le traessero farebbero politiche diverse, invece fanno il contrario. Il Comune dice che a Milano c’è bisogno di edilizia convenzionata, sapendo che l’edilizia convenzionata a Milano (che parte da 70-90 euro/m2) sta leggermente sotto al mercato che comunque è altissimo e drogatissimo. E noi continuiamo come un disco rotto a dire: ci vogliono case popolari, ci vogliono case popolari, ci vogliono case popolari».
Alfredo Alietti: «Non è vero che i dati non ci sono. Noi ne abbiamo raccolti diversi sulla marginalità abitativa, ma anche l’Unione europea raccoglie dati sull’Italia da trent’anni. Sappiamo quanto spende lo Stato per le case popolari, quanti sono gli affittuari, quanti gli esclusi. E poi abbiamo gli scenari immobiliari, ogni anno esce il quadro per i privati e i fondi immobiliari, ma sono dati buoni anche per noi. Noi ormai i dati li abbiamo, facciamo ricerche da anni con il Comitato inquilini, con il Sicet e ora con il Gruppo di lavoro per le periferie. I dati dicono cose chiarissime e ci siamo anche stancati di ripeterle. I dati ci dicono che c’è un’assenza totale di politiche. Ma questa assenza di politiche non è indifferenza al problema, è una strategia ben programmata per creare costantemente esclusione. L’attacco alle classi popolari è passato anche per la casa, noi sappiamo benissimo che il capitale estrae ricchezza dalla casa».
Ermanno Ronda: «Il Gruppo di lavoro delle periferie nasce nel 2019, ma i tentativi fatti in precedenza hanno una vita molto più lunga, stiamo parlando di trent’anni. Ovviamente le fasi politiche ed economiche sono cambiate nel tempo. Quello che ci ha ispirato per provare a costruire un punto di pensiero e di analisi è quello di uscire dall’isolamento e dalla frammentazione. Bisognerebbe fare un lungo discorso sulla rappresentanza oggi e capire quali sono i limiti della lotta economica. La lotta economica dal punto di vista del sindacato inquilini è il tentativo di difendere il salario sociale in termini di servizi erogati sul territorio. E che cos’è la lotta ideologica? Bisognerebbe trasformare questi bisogni in lotta di cambiamento per la società. Capisco i limiti della lotta economica che diventano ancora più gravi in una situazione in cui lo Stato si ritira e delega ai corpi intermedi e al terzo settore questo compito di dare delle risposte in sostituzione della pubblica amministrazione dello Stato. […] Gli obiettivi del Gruppo non sono solo di riflettere ed elaborare proposte, ma di intervenire nei quartieri per muovere partecipazione e cercare di instillare critica e promuovere il conflitto. Non ci siamo ancora riusciti, questo è il nostro limite. Ma ci è chiaro che questo Gruppo può essere un modo per collegare altri gruppi e inquilini. L’obiettivo del Gruppo non è solo mettere cerotti, ma provare a stabilire delle cure per fare dei passettini in avanti che provino a unire ciò che è stato diviso. […] Il sindacato nella sua fase più evoluta era riuscito a trattare anche di salario sociale e non solo di lavoro. E la casa ne era la dimensione centrale. Non sto qui a far la storia delle sconfitte e degli arretramenti, ma […] il sindacato è diventato un sindacato di trincea, di ultima istanza, a cui però non possiamo sottrarci. Non è un alibi, ma è un limite. Se viene una famiglia senza casa, uno sfrattato e tutte le richieste quotidiane del sottoproletariato non possiamo dire no, dobbiamo occuparci dell’ultima istanza, lasciando sul terreno macerie e un’infinità di situazioni che non riesci a gestire».
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