Il 31 marzo era il giorno dello sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati. Si sono tenuti presidi di fronte alla prefettura di Foggia e Modena, davanti all’ufficio immigrazione della questura di Milano e Torino e in piazza Esquilino a Roma. Nella piana di Gioia Tauro, distretto di punta per l’industria degli agrumi, è avvenuto un volantinaggio in sostegno, nonostante il maltempo. La giornata di lotta contestava la guerra quotidiana alle persone immigrate, le frontiere, il razzismo e lo sfruttamento. Lo sciopero, ancora, richiedeva il permesso di soggiorno per tutte e tutti.
Il coordinamento organizzatore si chiama Documenti per Tutt ed è composto da persone immigrate di diverse comunità auto-organizzate, insieme a solidali italiani di tutta la penisola. I membri del coordinamento portano avanti da anni un lavoro di rete che ha dato vita a una piattaforma di rivendicazione comune. La piattaforma richiede di regolarizzare chi oggi è in attesa di documento, o ne è privo, eliminando il legame del permesso di soggiorno con il contratto di lavoro e con la residenza anagrafica. Inoltre si chiede lo ius soli, l’estensione della possibilità di ricongiungimenti familiari, un accesso più agevole alla cittadinanza e l’abolizione dei decreti sicurezza. In merito alle politiche frontaliere il coordinamento vuole un permesso valido in tutta Europa, e quindi l’apertura delle frontiere interne ed esterne del continente, e la chiusura dei centri di detenzione.
Il sistema dei documenti funziona per inclusione differenziale, ed è mirato alla gestione e non all’abolizione della clandestinità, utile per un esercito di lavoratori di riserva a basso costo immediatamente pronto quando richiesto. Questo impianto legislativo è affiancato da un sistema di discrezionalità e di abusi perpetuato da impiegati degli uffici, forze dell’ordine, polizia di frontiera: un razzismo immanente alle istituzioni. Quando non vi è una legge, vi sono anche piccoli regolamenti o consuetudini burocratiche a opporsi alle persone immigrate. Tra loro i casi possono essere i più diversi: c’è chi aspetta da due anni risposte dalla domanda di emersione, la cosiddetta sanatoria, chi più di recente ha fatto domanda di protezione speciale, chi è stato registrato altrove e non può accedere alla protezione nel nostro paese, chi non ha mai avuto un documento o l’ha perso. Anche un ingresso regolare non è una garanzia nel tempo: un giovane accolto per ragioni di studio non può convertire il suo documento in un permesso di lavoro senza prima conseguire la laurea.
UN’ANALISI DELLE CONTRADDIZIONI
Oggi in Italia è quasi impossibile un ingresso regolare o usufruire di canali di emersione. Le quote annuali stabilite dai cosiddetti decreti flussi, quote di ingresso per i lavoratori stagionali e non, sono state praticamente sospese tra il 2012 e il 2021. Sebbene le quote, per legge, dovrebbero essere destinate a lavoratori non ancora entrati in Europa, di fatto sono usate come strumento per piccole sanatorie per chi è già entrato, con numeri decisamente inferiori alla popolazione totale di sans-papiers. Chi proviene da determinati paesi, come la Tunisia, addirittura rischia un respingimento immediato. Se un giovane non accompagnato non riesce a entrare in nessun progetto al compimento della maggiore età, e se viene dal paese “sbagliato”, può essere tagliato fuori.
Nel frattempo, le leggi di emersione delle persone irregolari soggiornanti nel nostro paese, le cosiddette sanatorie, sono state realizzate saltuariamente e a distanza di molti anni tra di loro, sempre in concomitanza con i momenti di maggiore lotta da parte dei lavoratori immigrati. Questi canali sono aperti quando necessario – per avere un numero maggiore di lavoratori regolari o per alleggerire la pressione – e poi sono chiusi subito dopo. La sanatoria del 2020 è giunta otto anni dopo la precedente ed è stata riservata esclusivamente a braccianti e colf. Ne era stata promessa un’altra, per tutte le categorie lavorative, che non è mai arrivata. A quasi due anni di distanza la maggioranza dei richiedenti aspetta una risposta, o ha ricevuto un diniego, senza ottenere nemmeno un permesso di ricerca lavoro della durata di sei mesi. Questo avviene nonostante il lavoro e le migliaia di euro pagate in contributi. E spesso è stata denunciata la speculazione dei datori di lavoro sulle persone irregolari, chiamate a pagare da sé la domanda e la documentazione. Eppure a oggi, delle oltre 240 mila domande presentate, secondo l’ASGI, nemmeno un quinto dei richiedenti ha ottenuto un documento.
Talvolta i canali di regolarizzazione vengono taciuti mediaticamente: è il caso del permesso per protezione speciale istituito col decreto Lamorgese. Secondo una circolare del ministero dell’interno dello scorso luglio, tale permesso può essere richiesto tramite domanda diretta al questore, che a sua volta invia le richieste alla commissione territoriale. Il documento ha la durata di due anni e, se ottenuto come risultato di una domanda di protezione internazionale, al suo termine può essere convertito in un permesso per lavoro. Grazie a questa via si può sperare di mantenersi regolari sul territorio, magari un giorno ottenere la carta di soggiorno. Nonostante il silenzio mediatico, il passaparola tra le comunità ha permesso a molte persone di farne domanda, al punto che alcune questure hanno cercato arbitrariamente di impedire le richieste. Così il ministero, sotto la pressione delle stesse questure, ha diramato una seconda circolare secondo la quale il permesso ottenuto tramite richiesta al questore non sarà convertibile in nessun altro tipo di documento. Un limbo giuridico costruito dalla volontà politica di stringere le maglie della regolarizzazione.
LE PROTESTE
La sanatoria è stata al centro della protesta di Modena, dove ci si è recati di fronte alla prefettura a chiedere risposte. A Roma il ministero aveva promesso un incontro, ma questo è stato poi negato, nonostante la richiesta della piazza di averlo subito. A Milano si è deciso di occupare la strada di fronte la questura per diverse ore, così da protestare contro l’indifferenza delle istituzioni. La giornata è stata anche un’occasione per denunciare le condizioni di vita e abitative di chi lavora nelle campagne. La protesta, per esempio, ha coinvolto il Cara di Borgo Mezzanone, adiacente al ghetto di Mexico. Solo una recinzione divide i due spazi.
A Foggia, nel corso di questi ultimi mesi, diverse persone si sono accampate fuori dall’ufficio immigrazione della questura. Attendevano la mattina per richiedere la protezione speciale, finché la questura non ha arbitrariamente smesso di trasmettere le richieste. Così nella giornata del 31 un corteo ha sfidato la pioggia e ha ottenuto la promessa di una riapertura delle domande. A una settimana dalla protesta le persone ammesse però sono pochissime. La lotta allora è il solo strumento per ottenere dei miglioramenti, e la piccola apertura conseguita a Foggia non è solo il frutto di una singola giornata, ma il risultato di un percorso di anni nelle campagne della Capitanata, centro strategico dell’agricoltura nazionale.
ESCLUDERE E DIFFERENZIARE
Ora giungono in Europa nuovi rifugiati provenienti dall’Ucraina. I vertici dell’Unione europea si sono detti pronti ad accogliere milioni di persone in fuga. Intanto in rete circolano i video dei respingimenti al confine polacco per chi non ha la pelle bianca. Ai rifugiati dall’Ucraina è stato garantito un riconoscimento immediato di protezione temporanea, dunque il rilascio di un permesso di soggiorno senza commissioni d’asilo: in pochi giorni è stato dimostrato come basti la volontà politica per regolarizzare i flussi migratori. Eppure alcuni paesi interni all’Unione, tra cui l’Italia, vogliono concedere protezione garantita solo ai cittadini ucraini e non agli stranieri residenti. Chi sarà tagliato fuori dovrà passare dalla procedura di protezione internazionale e si aggiungerà alle migliaia di persone che a oggi non hanno canali d’ingresso regolari.
Durante il 31 marzo s’è ragionato anche di queste contraddizioni senza opporsi ai nuovi profughi, ma mostrando una solidarietà che non accetta divisioni. Ai primi rifugiati ospitati sono già arrivate le prime minacce di sgombero dagli hotel, come a Ravenna o a Rimini. Qui molti rifugiati accolti hanno deciso di opporsi al trasferimento coatto tra Puglia e Basilicata, dove sarebbero allontanati dalle proprie reti familiari e comunitarie. Anche loro hanno deciso di presentarsi di fronte la prefettura di Rimini per protestare. In Piemonte, in prossimità della stagione di raccolta, la Regione propone l’assunzione nei campi. Ancora si cerca di utilizzare l’emergenza per altri scopi: infoltire le fila della forza lavoro, abbassare i salari, generare divisioni funzionali al conflitto tra gli sfruttati.
Mentre scrivo uomini e donne continuano a morire nel Mediterraneo, le vite soffocano nei campi e persistono le omissioni di soccorso nel silenzio di stampa e istituzioni internazionali. E con le contraddizioni si susseguono le forme di resistenza. A Zarzis, in Tunisia, centinaia di persone vivono da febbraio fuori dai rifugi chiusi dell’Unhcr, sgomberati per volontà della stessa organizzazione nazionale. Chiedono asilo e l’apertura delle frontiere, si difendono dalle rappresaglie della polizia tunisina e dei gruppi di destra. Le lotte alle frontiere esterne dell’Europa sono le stesse che avvengono al suo interno, tra i confini dei paesi della rotta balcanica, nei campi profughi in Grecia o a Calais.
Anche quando bucano le reti d’informazione queste lotte sono spesso percepite e restituite in modo superficiale: a essere rappresentati sono subalterni, schiavi, sfruttati, invisibili. Mai protagonisti. Spesso nuovi e vecchi leader, professionisti della politica, salgono alla ribalta come portavoce delle richieste degli immigrati, dei senza voce, mettendo in secondo piano le lotte auto-organizzate dal basso. Solo la spettacolarizzazione del discorso è favorita. Oppure, quando gli echi delle lotte dal basso emergono dalle nostre reti di informazione, spesso non ricevono un’adeguata copertura e sostegno necessario. Così è più difficile la creazione di reti di solidarietà attiva tra le mobilitazioni degli esclusi, tra chi possiede il giusto documento e chi no. Questo a oggi è uno degli ostacoli alla formazione di rapporti di forza necessari al rovesciamento dell’impianto razzista dei permessi di soggiorno. Ed è per questo che la giornata del 31 marzo è stata un punto importante di snodo e di rilancio della lotta. (piergiorgio solombrino)
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