Pubblichiamo un articolo dal numero 11 de Lo stato delle città. L’autrice discuterà di violenza frontaliera e detenzione amministrativa lungo i confini orientali dell’Europa mercoledì 6 dicembre alle 20:30 presso la libreria Comunardi di Torino. Insieme a lei parleranno Manuela Cencetti e persone che hanno attraversato i confini europei meridionali.
* * *
Nella tarda estate del 2021, il numero di persone che tenta di entrare nell’Unione europea tramite la cosiddetta Via di Confine Orientale – che include la Lituania, la Lettonia e la Polonia – comincia a crescere. L’afflusso migratorio arriva attraverso la Bielorussia. Il paese ha facilitato la concessione di visti per cittadini mediorientali: le procedure burocratiche di rilascio dei visti sono affidate ad agenzie di viaggio che sponsorizzano “tour” per Minsk con la sottesa promessa di passare in Unione europea, mentre le compagnie aeree – in particolare Belavia, compagnia statale bielorussa – attivano collegamenti diretti e frequenti tra Minsk e le capitali di Turchia, Siria ed Emirati Arabi Uniti.
I migranti che tentano questa “rotta bielorussa”, spendendo cifre notevoli per affrontare il viaggio, sono in prevalenza giovani uomini, da Afghanistan, Siria, Iraq, Camerun, Ghana, ma ad arrivare alle porte dell’Europa sono anche donne e bambini. Una volta arrivati nel paese governato da Alexander Lukashenko, verranno scortati con appositi trasporti predisposti dalle forze di sicurezza fino all’estremità occidentale della Bielorussia, o si affideranno a trafficanti. L’ultimo tratto della rotta prevede di attraversare a piedi il confine con la Polonia, una zona di densi boschi, foreste primordiali, paludi e fiumi che, all’inizio dell’estate 2021, era poco sorvegliata dalle guardie di frontiera.
La situazione, nel giro di poco tempo, è molto cambiata. Già a inizio luglio 2021, a causa di questa pressione migratoria, la Lituania introduce uno stato di emergenza sull’intero territorio e comincia la costruzione di una barriera di confine. Il 20 agosto il ministro degli interni polacco pubblica un atto che “legalizza” le espulsioni: secondo questo nuovo regolamento, i soggetti che hanno attraversato illegalmente la frontiera devono essere rispediti indietro, senza eccezioni, compreso chi voglia presentare domanda di protezione internazionale (dopo un emendamento, poiché la legislazione è in contrasto con il diritto internazionale, il provvedimento entrerà in vigore il 26 ottobre).
Ora migliaia di soldati polacchi pattugliano il confine. Iniziano a essere documentati respingimenti ripetuti (i cosiddetti pushbacks) per coloro che tentano di passare: le persone sono braccate, fermate dalla polizia di frontiera polacca e respinte a forza verso la parte bielorussa, quindi brutalmente costrette dalle guardie di frontiera bielorusse a rientrare in Polonia. Anche coloro che si siano ormai resi conto di essere in trappola e vorrebbero tornare nei propri paesi di origine non possono farlo. Donne e uomini migranti trascorrono settimane nei boschi, esposti al freddo e alle intemperie, senza accesso a cibo, acqua pulita e assistenza medica. A partire da metà settembre si registrano le prime vittime: i corpi vengono trovati nella foresta. Tra questi, nella notte tra il 26 e il 27 settembre, vi è anche un ragazzo iracheno di sedici anni.
Il 2 settembre 2021 uno “stato di emergenza” viene sancito in Polonia in quasi duecento comuni delle regioni della Podlachia e di Lublino, e successivamente esteso, a più riprese, fino al primo luglio 2022. Le restrizioni comportano il divieto di ingresso nella “zona rossa”, ma anche di effettuare qualsiasi registrazione di luoghi e oggetti. La violenza usata dagli agenti di entrambi i paesi – Bielorussia e Polonia – contro i migranti, è aggravata dalla mancanza di monitoraggio, documentazione e assistenza umanitaria, perché ai giornalisti e agli attivisti è impedito di entrare nella zona. Data la natura del terreno e per le temperature che scenderanno presto sotto zero, alcuni singoli e organizzazioni solidali tentano comunque di portare aiuto alle persone migranti, nonostante il clima di criminalizzazione e ostilità. L’associazione Medycy na Granicy (Medici al confine), per esempio, svolge a partire da ottobre sessioni di guardia e risponde alle chiamate di assistenza, ma cesserà di operare nell’arco di un mese (in occasione di un’operazione di soccorso il personale medico troverà le ruote della propria ambulanza sgonfiate e, in seguito, le proprie auto private distrutte da autori sconosciuti), verrà poi sostituita dalla Squadra di soccorso medico del Centro polacco per gli aiuti internazionali.
Si parla ormai di “guerra ibrida” da parte del regime bielorusso, condotta col fine di creare confusione e generare un conflitto polarizzato nella società polacca e nei vicini paesi europei. I servizi bielorussi trasferiscono gruppi di centinaia di migranti lungo l’intera linea di confine per indurli a spingersi attraverso la recinzione di filo spinato ed entrare in territorio polacco. Vicino al valico di frontiera a Kuźnica Białostocka, a inizio novembre, si registra il primo tentativo di effrazione: i servizi bielorussi forniscono ai migranti strumenti per facilitare la distruzione delle recinzioni e si verificano attacchi alle forze dell’ordine e alle truppe militari, mentre gas lacrimogeno viene impiegato contro le persone che si spingono attraverso le recinzioni. I media nazionali polacchi dipingono i migranti come aggressivi e violenti, una pericolosa minaccia per il paese. Secondo un report di Grupa Granica (Gruppo di confine) – che riunisce attivisti e rappresentanti di Ong che si coordinano fin dai primi giorni in risposta all’emergenza – erano a Kuźnica circa dodicimila soldati, ottomila ufficiali della guardia di frontiera e mille agenti di polizia.
È il 2 novembre 2021 quando il presidente polacco Andrzej Duda firma le misure di sicurezza delle frontiere nazionali, stabilendo che una barriera di sei metri di altezza venga costruita sul confine polacco-bielorusso, con un investimento stimato di oltre un miliardo e mezzo di złoty (circa trecentocinquanta milioni di euro). Il muro, già annunciato a luglio dal ministro polacco della difesa sul modello di quello costruito dall’Ungheria alla frontiera con la Serbia nel 2015, andrà a sostituire la recinzione di filo spinato già presente, per impedire l’ingresso di migranti dal vicino paese orientale. Intanto la Commissione europea stabilisce di aumentare il Fondo per la gestione integrata delle frontiere (Ibmf) e di destinare venticinque milioni di euro alla crisi migratoria ai confini con la Bielorussia per sostenere gli stati membri. La costruzione del muro di confine polacco, lungo cento e ottantasei chilometri e alto cinque metri e mezzo, nel bel mezzo di una delle ultime foreste primordiali europee, verrà completata a luglio 2022.
I CENTRI SORVEGLIATI
La crisi umanitaria sul confine polacco-bielorusso è tuttora in corso. Ancora una volta il caldo, le insolazioni, la disidratazione, le zecche e le zanzare si trasformano in gelate notturne, piogge, umidità e fango; poi arriverà la neve. Quando le persone in movimento sorpassano il confine e vengono intercettate dalla polizia di frontiera polacca, se non vengono respinte in Bielorussia, con buona probabilità vengono portate in un centro di detenzione. In Polonia il sistema prevede due tipi di centri per migranti. I “centri per stranieri” e i “centri sorvegliati per stranieri” (SOC). I primi sono gestiti dall’Ufficio Stranieri ed è lì che, di norma, dovrebbero recarsi tutte le persone che richiedano la protezione internazionale. Sono centri “aperti”, ovvero prevedono che chi vi soggiorna possa uscirne abbastanza liberamente, per esempio per lavorare. I “centri sorvegliati”, invece, sono gestiti dalla guardia di frontiera. In Polonia se ne contano sei, ma dall’agosto 2021 sono state adattate alle esigenze dei SOC altre tre strutture – due appartenenti all’Ufficio Stranieri e il centro di addestramento militare di Wędrzyn –, poi chiuse circa un anno dopo. Alcuni di questi “centri chiusi” sono destinati a famiglie con bambini, altri a soli uomini. Le persone vi sperimentano una grave privazione della libertà, i centri assomigliano a prigioni, nell’aspetto e nel funzionamento. Chi vi è detenuto è soggetto a numerosi divieti, tra cui non poter avere smartphone che accedano a internet e possano registrare suoni e immagini. Le parti comuni degli edifici sono sorvegliate da telecamere, i migranti sono soggetti a perquisizioni e ispezioni personali, l’accesso al cortile all’aperto è concesso in alcuni centri solo in orari prestabiliti, gli incontri e la frequenza delle visite con esterni (per esempio avvocati) sono limitati, così come lo è la possibilità di scrivere e-mail e guardare la televisione.
Secondo la legislazione polacca, il motivo della decisione di collocare un migrante in un centro di questo tipo comprende, tra gli altri, la necessità di accertarne l’identità, la mancanza dei documenti necessari per l’ingresso nel paese, il rischio di fuga, ovvero “quando ciò sia richiesto per ragioni di difesa o di sicurezza dello Stato o di tutela dell’ordine e dell’incolumità pubblica”. In realtà, le persone rimangono recluse nei centri sorvegliati anche quando la loro identità è già confermata, e molto spesso vengono avviate le procedure di rimpatrio anche se il soggetto ha già fatto domanda per aprire un procedimento di protezione internazionale. «Ci sono solo sette giorni per fare ricorso contro l’obbligo di rimpatrio, ma per lo più le persone non ne sono consapevoli», commenta Ewa, un’attivista di Grupa Granica che si occupa di offrire supporto per le persone in ingresso o in uscita nei SOC. «Molto spesso, inoltre, contestualmente all’apertura della procedura di rimpatrio, le persone ricevono un documento da firmare in cui si dichiara che non presenteranno ricorso: questo è un grave abuso dei servizi, che monitoriamo. Per fortuna, grazie alla giurisprudenza, adesso i minori non accompagnati o le famiglie con bambini vengono messi nei “centri sorvegliati” meno spesso rispetto a un tempo, e la guardia di frontiera in questi casi ha cominciato ad agire in modo più ragionevole. Purtroppo, comunque, ci sono gravi negligenze e abusi, le persone vengono, semplicemente, automaticamente rinchiuse».
Mentre cercavo informazioni sui SOC in Polonia, mi sono imbattuta in alcuni video diffusi dalla guardia di frontiera polacca che ne mostrano alcuni locali interni: l’infermeria, la biblioteca, una sala con apparecchiature elettroniche composte da uno schermo orizzontale con grande tastiera, la palestra, il campo da gioco, una sala per la preghiera. Voci fuori campo parlano delle attività artistiche e delle lezioni linguistiche proposte ai reclusi, mentre un sergente racconta del Programma di Ritorno Volontario e Reinserimento, finanziato dall’agenzia Frontex in collaborazione con la guardia di frontiera polacca, che prevede che gli stranieri che ritornano nel proprio paese ricevano “sostegno finanziario e l’assistenza di lavoratori qualificati che li aiuteranno a trovare un lavoro, a completare corsi aggiuntivi e a integrarsi con la società”.
Chiedo conto all’attivista di Grupa Granica dell’apparente paradosso prodotto dalle immagini, convinta di aver osservato un ingranaggio della macchina della propaganda, ma nondimeno stupita dall’operazione. «Quando si tratta di questi centri, c’è una biblioteca ovunque e tutto sembra carino nelle foto, ma, per esempio, contrariamente alle dichiarazioni – che parlano di diete vegetariane, per celiaci o senza carne di maiale – la cucina è trattata come una mensa della guardia di frontiera destinata secondariamente anche agli stranieri, senza che si tenga conto delle loro necessità: molto spesso, quando le persone lasciano i centri, la prima cosa che ci chiedono è di soddisfare finalmente il loro fabbisogno nutrizionale. Nei centri le condizioni delle persone sono terribili. Recentemente ho parlato con un ragazzo che ha attraversato molti di questi centri, gli ho chiesto quale fosse stato il più sopportabile per lui. Mi ha detto: “Non c’è differenza, ma il peggiore è stato Przemyśl. Negli altri centri era difficile, a volte dormivamo per terra perché non c’erano letti, era angusto, non c’era comunicazione quotidiana, ma almeno non c’era terrore nell’aria nella vita di tutti i giorni”».
SCIOPERI DELLA FAME
«In generale gli stranieri con cui prendiamo contatto fanno notare che nel SOC di Przemyśl c’è molta violenza, che si tratti di intimidazioni verbali o percosse fisiche. E lì si è verificata la morte di uno straniero nel marzo 2023». Ewa si riferisce a Mahmoud, un ventenne siriano, che, colpito da un malore, aveva ripetutamente chiesto aiuto medico, prima di morire. I compagni di reclusione raccontano che nella notte anche loro avevano cominciato a chiedere aiuto, portando Mahmoud davanti alle telecamere in modo che potessero vedere come stava male, ma nessuno è intervenuto, e infine Mahmoud è stato preso a calci da un agente. Al mattino è arrivata l’ambulanza, ma ormai era tardi.
È proprio nel SOC di Przemyśl, nel sud- est della Polonia, che a inizio settembre 2023 si è verificato uno sciopero della fame che ha registrato un’adesione notevole. «Abbiamo avuto informazioni che il secondo giorno di sciopero solo tre persone sono uscite a fare colazione – mi conferma Ewa –, mentre in quel momento nel centro c’erano quasi cento persone. La guardia di frontiera, ovviamente, ha incoraggiato gli stranieri a mangiare, li ha minacciati di isolamento, quindi loro hanno gradualmente abbandonato lo sciopero. L’8 settembre, quando lo sciopero è stato pacificato, circa sessanta persone erano ancora in sciopero».
Settanta degli uomini in protesta hanno reso note le loro richieste firmando una lettera che è stata inviata a Grupa Granica e da questi diffusa. I manifestanti chiedono il rispetto dei loro diritti e della loro dignità (che si smetta, per esempio, di usare dei numeri identificativi al posto del proprio nome e cognome); la fine della violenza mentale e fisica contro di loro; accesso alle cure mediche, comprese le cure psicologiche e psichiatriche; un miglioramento della quantità e della qualità del cibo; di poter entrare in contatto con i propri cari attraverso i social media. Chiedono inoltre l’esame individuale di ciascun caso; di poter ricevere i documenti per iscritto in una lingua a loro comprensibile; la cessazione delle deportazioni forzate, in particolare verso paesi in cui siano in corso conflitti armati o guerre civili. Gli stranieri informano che si tratta di una protesta pacifica, indetta non solo per il proprio bene e per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica in Polonia, ma pensando alle future persone che saranno trattenute. La protesta sarebbe stata scatenata, tra le altre cose, da un tentativo di suicidio da parte di una delle persone che si trovavano nel centro. In quell’occasione un amico dell’uomo, che cercava di sapere che cosa fosse successo, è stato afferrato per il collo e poi colpito da una guardia: le persone presenti nel cortile hanno visto tutto da una finestra. Anche il giorno della pacificazione i reclusi riferiscono di episodi di violenza contro di loro. Quando gli uomini vengono a sapere che alcuni dovrebbero venire trasferiti, si verifica un’altra protesta, per cercare di fare in modo che l’autobus non possa partire.
Sebbene sia durato solo pochi giorni, questo sciopero è finora quello che ha coinvolto il più grande numero di persone nei centri sorvegliati per stranieri polacchi, ma non il primo. In realtà, già dall’autunno 2021 sono scoppiati diversi scioperi della fame a causa delle pessime condizioni di reclusione, nonché della prolungata e incomprensibile privazione della libertà. Il 25 novembre 2021 nel SOC di Wędrzyn la protesta scoppia quando i migranti di un blocco si rifiutano di andare a cena e iniziano a cantare “libertà”. Si uniscono a loro persone di altri blocchi e i manifestanti distruggono le recinzioni che li separano, coprono le telecamere nel corridoio con il dentifricio. Manifestano circa duecento persone. A un certo punto le guardie si radunano all’esterno, con un cannone ad acqua. I migranti inviano alcuni portavoce per negoziare, chiedono risposte alle loro domande e un’accelerazione delle procedure. Secondo i migranti, la protesta è pacifica fino a quando gli agenti entrano in equipaggiamento antisommossa e sparano gas all’interno dei blocchi, attraverso le finestre aperte, e chiudono le porte dei corridoi. A quel punto i migranti buttano giù le finestre e cercano di strappare le sbarre. Le foto di questi danni vengono mostrate dalla polizia, dalla guardia di frontiera e dalla propaganda della TVP, canale televisivo polacco, come risultato dell’aggressione dei migranti. Dopo un secondo turno di trattative, i migranti ricevono rassicurazioni sulle loro richieste (vengono promessi sforzi per accelerare le procedure a Varsavia) e così tutti vanno a dormire. Nel cuore della notte, le guardie di frontiera e i poliziotti entrano nel centro, gettando fuori le persone addormentate e picchiandone alcune, mettono sottosopra le stanze, rivoltano i materassi, gettano via coperte e vestiti, riversano prodotti alimentari e bagnoschiuma al centro della stanza; dichiarano di stare cercando armi e oggetti di metallo, ma forse l’oggetto della rabbia è un telefono con fotocamera, che un ragazzo era riuscito a conservare nonostante i divieti e che ha registrato la ribellione. Dopo questa protesta, a Wędrzyn inizia la rappresaglia: i reclusi segnalano che per diversi giorni l’erogazione di acqua calda viene interrotta, sospesa la connessione internet e resa più complicata la procedura per poter ricevere telefonate.
Nel gennaio 2022, sempre a Wędrzyn, otto afgani e due siriani iniziano uno sciopero della fame. Tra le ragioni di questa come di successive proteste, ci sono la difficoltà di ottenere assistenza medica, la difficoltà nell’accesso alle traduzioni dei documenti che si è costretti a firmare. Nei SOC si registrano anche diversi tentativi di suicidio. Il centro di Wędrzyn, in particolare, è stato segnalato a più riprese dal Garante per i diritti umani come un luogo che non soddisfa le garanzie fondamentali contro il trattamento inumano e degradante delle persone private della libertà.
Una successiva ondata di proteste è avvenuta nel maggio 2022. Nel SOC di Lesznowola uno sciopero della fame viene inizialmente guidato da ventitré uomini e poi portato avanti da dieci curdi provenienti dall’Iraq e dalla Turchia, per trentacinque giorni. Seguono l’esempio di una precedente protesta, quella di cinque siriani che per dieci giorni hanno rifiutato di mangiare, conclusasi straordinariamente con il rilascio dalla detenzione (forse lo sciopero ha accelerato le procedure). Anche nel SOC di Krosno Odrzańskie, sei iracheni, cinque dei quali curdi, cominciano uno sciopero della fame, di breve durata. A Przemyśl scioperano due curdi originari dell’Iraq e dell’Iran. Hanno informato della protesta per iscritto le autorità del centro e lamentano che le domande di protezione sono state accettate con notevoli ritardi. Uno di loro sostiene che gli sono voluti cinquanta giorni per presentare la domanda.
Il 4 ottobre 2022 i migranti trattenuti a Lesznowola decidono di organizzare ancora uno sciopero, a cui aderiscono trentatré persone. A gennaio 2023 si registra la quarta protesta del genere in questa struttura: quattro iracheni si rifiutano di mangiare per dieci giorni, chiedendo il rilascio dopo molti mesi di detenzione. Il 14 gennaio una persona inizia uno sciopero della fame nel SOC di Białystok: si tratta di un attivista siriano, con alle spalle nove mesi di pena nelle carceri siriane. Anche se la normativa dovrebbe impedirlo, vengono sottoposte a detenzione anche persone per le quali il trattenimento aumenta il rischio di aggravare traumi acquisiti nel paese di origine o durante la migrazione, o i sintomi del disturbo da stress post-traumatico. Il ragazzo in sciopero viene messo in isolamento, probabilmente per dare un avvertimento ad altri che possano avere intenzione di unirsi alla protesta; interrompe il digiuno dopo due settimane, alla promessa che, se avesse ricominciato a mangiare, sarebbe terminato l’isolamento, ma non è stato così.
ALLARGARE LO SGUARDO
La crisi umanitaria sul confine polacco-bielorusso ci interroga su come sia cambiato il ruolo dei centri sorvegliati per stranieri dall’estate 2021. Di recente, alcuni avvenimenti di cronaca fanno ulteriormente riflettere. Il 7 settembre 2023 una donna coinvolta nella fornitura di aiuti umanitari alle persone migranti che cercavano di raggiungere l’Ue dalla Bielorussia è stata arrestata con l’accusa di aver guidato un gruppo criminale, ovvero di favoreggiamento all’immigrazione clandestina per aver organizzato l’attraversamento illegale del confine polacco. Le accuse fanno probabilmente parte della crescente narrazione politica prima delle elezioni, facendo leva sulla criminalizzazione della fornitura di aiuti, in un contesto in cui le organizzazioni umanitarie sono regolarmente intimidite e ostacolate dalle forze dell’ordine. Sempre a settembre, i giornali hanno riferito di quello che è stato definito “lo scandalo dei visti”, che riguarda il sistema di rilascio dei visti, che sarebbe stato agevolato e facilitato tramite delle “mazzette” da parte di intermediari in diversi consolati esteri per favorire l’immigrazione da alcuni paesi dell’Asia e dell’Africa. Ciò avrebbe concesso a circa duecentocinquantamila persone di entrare nel paese negli ultimi trenta mesi senza essere sottoposte ai dovuti controlli.
Durante la mia intervista, Ewa di Grupa Granica, prima di riattaccare, ha aggiunto: «A mio parere, purtroppo, non si tratta solo di una questione polacca, ma di una questione europea. La crisi migratoria viene utilizzata come strumento politico per spaccare con la paura. E non si pensa in termini globali, non si pensa in termini di clima, non si pensa, per esempio, che nei prossimi tre anni, a causa della mancanza d’acqua, circa centocinquanta milioni di persone si sposteranno verso nord. Non si guarda affatto alla domanda del mercato del lavoro in Europa. Si crea una narrazione militare spingendo sull’intensificazione di eventuali minacce. Il sistema non vede le storie individuali e non considera affatto come questa crisi migratoria possa riflettersi pragmaticamente nella politica del nostro paese. Eppure si tratta di persone che già esistono, vorrebbero solo una vita tranquilla». (stefania spinelli)
Leave a Reply