«Merci aux habitants du quartier Heyvaert qui ont participé à ce studio, malgré eux». Sono scesa a vedere cosa stavano facendo questi di KAK, giacché in ogni caso da tre ore suoni e atmosfere mi stavano entrando in casa. D’altronde succede tutto al fondo della via, a poche decine di metri da dove abito, nell’edificio industriale dismesso che da qualche mese dietro le sue vetrine con affaccio su strada ospita nuovi via vai e riunioni informali. Una trasmissione televisiva a volume molto alto? Un happening urbano? Un ritrovo di giovani slanciati e festanti in un quartiere dove normalmente si vedono solo persone in abiti che raccontano di altre mode dal mondo o di lunghe giornate di lavoro in officina?
«Quello dei puffi?» ha appena detto in italiano una giovane madre seduta accanto a me, che per il resto parla fiammingo con la sua amica. Si è rivolta al biondissimo figlio che le ha mostrato compiaciuto il gelato azzurrognolo che sta gustando. Nello stesso frangente, si sentono le risate e le parole in lingua slava di tre uomini di passaggio dietro alla scalinata per spettatori alla cui autocostruzione ho assistito stamattina dalla mia finestra al terzo piano di rue de Liverpool, quartiere Heyvaert, crocevia di tre mondi – le municipalità di Molenbeek, di Anderlecht e di Bruxelles Ville. Trasportano carrelli e tappeti, probabilmente pieni degli avanzi del Marché des Abattoirs. Oggi è venerdì, uno dei tre giorni di grande comunione, scambio, vendita, contrattazione che ogni fine settimana lungo porta in questo angolo di città e d’Europa migliaia di persone. Frutta, verdura, carne principalmente halal, qualche banco di formaggi e latticini, biancheria, vestiti usati, attrezzi, camere d’aria, vari elementi domestici nuovi o usati. Un mercato come tanti, se fosse non per le proporzioni immense, che si estendono sotto e intorno alla grande tettoia metallica del XIX secolo che ricopriva il mercato del bestiame e che ha accolto per decenni il mattatoio di Bruxelles.
Vivo da un anno in questa strada di macchine. Macchine in stato di quiete per lo più, mentre con i motori accesi ci sono solo i giganti autotrasportatori che le spostano da un luogo all’altro. Sono parcheggiate nelle autorimesse che convogliano vetture di seconda mano da tutto il nord del continente per poi spedirle verso destinazioni molto più a sud, prevalentemente dell’Africa Occidentale. Imprenditori sub-sahariani contrattano e discutono ogni giorno prezzi e modalità di invio. Nei dintorni, trattorie caserecce pubblicizzano cucina ghanese, nigeriana. Un po’ più in là, locali mediterranei consolidati da anni raccontano un tessuto commerciale e ristorativo che si è sviluppato intorno a una clientela specifica, quella dei proprietari e gestori libanesi dei garage d’auto. Una panetteria marocchina, nonostante il Ramadan, rinnova l’apertura pomeridiana per rifornire le tavole notturne di tante famiglie residenti, per l’Iftar, la rottura del digiuno.
KAK è un acronimo e in fiammingo significa Allenza di Hobbisti di Koekelberg, un’altra municipalità a ovest del canale di Bruxelles. In francese invece suona “cacca”, ed è infatti con un grande merdone che si sono spesso rappresentati – disegnato, serigrafato, riprodotto in scala 20:1 con una struttura spiraliforme di scotch da pacchi. La pagina facebook dell’evento in corso annuncia una serata televisiva condivisa, dove stare dentro o fuori lo schermo è una questione di casuale (pre?)disposizione individuale. Declama che lo scopo è quello di creare un nuovo “canale televisivo iper-locale”. Precisa anche che si tratta dell’evento conclusivo di un laboratorio di ricerca – di KAK, collettivo “fluttuante” di teatranti, tuttofare, pensatori e altri inventivi.
Complici le casse un po’ gracchianti e i rumori della strada, non è che parole e suoni si capiscano tanto bene. Sono scesa da casa mia nella speranza di comprendere meglio, ma per ora non ci sono riuscita. Cosa fanno i bricoleur di KAK in via di Liverpool, quartiere Heyvaert? Portano la tele-visione, portano il teatro? Ricercano nuove forme di uso dello spazio, di interazione sociale, di partecipazione locale? Ci riescono? E con chi è che cosa interagiscono? Alcuni dei giovani astanti, festanti e slanciati, li ho già visti passare di qua, fanno probabilmente parte del collettivo. Gli altri ci avranno raggiunti per l’occasione da altre parti della città. Tutti quanti comunque sorridono, e si divertono.
Finisco per parlare con la donna seduta accanto a me, l’amica – della madre – del bambino col gelato dei puffi. È belga ma parliamo in italiano, una lingua che adora e che ha imparato nei ripetuti Erasmus a Bologna quindici anni fa. È loquace e spigliata. Mi racconta pezzi sparsi della sua vita e io qualcuno della mia, così come vengono. A un certo punto, parlando della sua carriera amatoriale da cantante, dice che le piacciono molto gli artisti e gli ambienti artistici. Il problema è che spesso non solo sono egocentrici, ma sono assolutamente ego-tripper! Significa avere il trip di se stessi, essere euforici del piacere di stare nella propria pelle. Parola che non conoscevo ma che credo mi tornerà utile.
Mi chiedo e le chiedo se non le sembrino un po’ ego-intrippate le persone intorno a noi. Mi replica che sì, ha visto questo rischio appena arrivata per l’evento, ma poi si è detta che tutti stavano ridendo e quando la gente ride è perché non si prende così tanto sul serio.
Chissà se la gentrificazione ride o si prende sul serio. Mi guardo intorno: penso che tra i presenti ci sia un buon livello di consapevolezza della diversità, del fatto che gli abitanti del quartiere hanno partecipato “malgré eux” – loro malgrado. Che non ci sia nessuna pretesa di trasformazione, di coinvolgimento obbligato e proselito, quanto piuttosto un “noi siamo qui”, ci facciamo sentire e vi lanciamo un segnale, aperto a chi vuole, e chi non vuole che ci senta lo stesso. Penso anche che gli usi temporanei dei luoghi siano sempre germinali, qualsiasi cosa poi germogli. Al posto dell’edificio produttivo dove c’è KAK presto ci saranno dodici nuovi appartamenti e un asilo nido, il progetto è già firmato e fa parte delle trasformazioni del contratto di quartiere locale. Gli Hobbisti di Koekelberg rimarranno da queste parti ancora qualche mese, per poi andarsene quando inizieranno i lavori, è stabilito dall’inizio.
Un cartello avverte: “Sono contro me stesso”. L’altro, accanto, risponde: “Anche io”. Provocare, seminare, fare sul serio facendo finzione. Sapendo che è per poco e poi finisce, ma intanto qualcosa è successo, anche solo uno schiamazzo di rivendicazione di esistenza. (chiara basile)
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