Da qualche giorno prima della grande festa del 4 giugno, tra le strade di Napoli ha cominciato a circolare un free press cartaceo, numero speciale de La Gazzella dello sport, che celebra con articoli di grandi firme lo scudetto della squadra azzurra.
Tra gli autori dei pezzi spiccano il primo cittadino Gaetano Maifredi, gli scrittori Maurizio Sangiovanni e Roberto Staviano, il regista Paolo Sorbettino, il deputato Francesco Emilio Porcelli, l’ex calciatore Lele Alani.
Pubblichiamo a seguire il testo scritto da Staviano. Non siamo riusciti a contattare l’autore dell’articolo e l’editore dello speciale, ma abbiamo ritenuto i contenuti di pubblico dominio, trattandosi di un giornale ampiamente distribuito in strada. Restiamo disponibili in ogni caso a ulteriori specifiche se ritenuto necessario dai detentori del copyright di immagini e testi (se si ritiene segnalare altri problemi riguardanti i diritti d’autore, è possibile farlo scrivendo a: napolimonitor@redazione.it).
Allo stato, ultime copie de La Gazzella sembrano essere state avvistate nelle zone del Centro storico di Napoli, Fuorigrotta, Bagnoli, Agnano.
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L’ASPRO SAPORE DELLA VITTORIA
di Roberto Staviano
Ha un sapore amaro, questo scudetto, come quel caffè che non posso più gustare da una vita, ma che sento ancora sul labbro inferiore se ci passo la lingua. Un sapore di lontananza forzata, che gratta granuloso sul palato, il sapore delle caramelle Rossana e ghiaccioli alla liquirizia da duecento lire sulle spiagge di Castel Volturno.
Sono un tifoso del Napoli da quando ho preso coscienza del calcio. Ero paffutello, avevo i calzoni corti, negli anni dei due scudetti, eppure ricordo nitidamente ogni dettaglio, quella marea gioiosa di suoni e colori che però non riusciva a nascondere l’ombra nera dei morti ammazzati, del sangue, del narcotraffico che si era impadronito della città.
Ero un bambino. Ero in strada a festeggiare con la parrucca di Maradona e decisi di inoltrarmi nei meandri di Forcella per scoprire i segreti di quella famiglia Giuliano che con il “Pibe de oro” stringeva rapporti di amicizia rafforzando il suo potere mafioso. Una famiglia di assassini e di poeti, santi e navigatori. Su quelle giornate scrissi un lungo reportage per Il Manifesto, ma ero minorenne e non lo firmai; lo lasciai a Gianni Minà, che oggi ricordo con affetto e con cui avrei voluto trascorrere questi momenti
È un continuo salto nel tempo, questo scudetto. Ora ho sedici anni e indosso ho la maglia di André Cruz, una maglia comprata in una di quelle bancarelle dei Quartieri Spagnoli da cui potevi seguire la filiera del capitalismo passo dopo passo: dall’industria tessile cinese, ai container incrostati di sale che spostano merci negli oceani, fino agli affari del Sistema che impone il suo controllo sui venditori ambulanti.
Il Sistema. Qui nessuno chiama più “camorra” la camorra. Eppure, con quella maglia azzurra – aveva come sponsor la Centrale del latte di Napoli – ho giocato per anni sull’asfalto screpolato di periferia, quello che ti lascia le abrasioni alle ginocchia su cui crescono crostoni d’un rosso cupo. Come puzzava, la maglietta di Cruz. Soprattutto sotto le ascelle. Emanava un fetore insopportabile che forse qualcosa diceva di quella trafila capitalista e criminale. Prendevo appunti, confusi. Già sapevo che mi sarebbero tornati utili anni dopo.
Poi venne il 1997. Ero disperato. Il Napoli arrivò ultimo in classifica e realizzò il record negativo di punti in Serie A. Maledetti, pensavo, sono costretto a odiarvi nonostante il mio amore. Con rabbia vendicativa bruciai quella maglia di Cruz e inalai l’odore del fumo nero mentre s’abbrustoliva la plastica del numero sei del brasiliano. Respiravo quel fumo denso, desideravo farmi male inalando quello stesso veleno, con la stessa rabbia, che avrei respirato poi nella Terra dei Fuochi. In quei giorni, guardando le lacrime di Pino Taglialatela, ho deciso che non poteva più bastarmi scrivere. Dovevo raccontare. Presi una Tratto nera e cominciai a raccogliere le mie idee. Ne venne fuori un libro sui rapporti tra John Gambino, il cartello di Medellin, René Higuita e Cosimo Di Lauro. Non l’ho mai pubblicato, ma chissà.
In questi anni ho però conservato le ceneri di Cruz in un barattolo, sono rimaste sempre in cima alla libreria della mia stanza, le ho portate con me in ogni viaggio, in attesa di un rito liberatorio. Ora, finalmente, posso annunciare a tutti che, una volta vinto lo scudetto, ho deciso di mangiarle. Era questa la promessa che mi ero fatto, ed è così che voglio sentire il sapore di questa vittoria che viene da lontano. Un sapore amaro. Il sapore odioso dell’amore per questa squadra.
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