Napoli Monitor propone ai suoi lettori, per i mesi di luglio e agosto, alcuni degli articoli pubblicati su Lo stato delle città nel corso di questi tre anni di attività della rivista.
La frattura ricomposta. Eclissi del turismo in una città mediterranea è un articolo di Giusi Palomba, pubblicato all’interno del numero 4, nell’ottobre 2019
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Ho iniziato a fare tour gastronomici per trovare scampo dai fumi e dalle urla delle cucine, dall’incubo rutinario della ristorazione. Mi sembrava un affare concludere in una manciata di ore quello che generalmente tiravo su in un’intera settimana. In un modo o nell’altro la gig economy era a portata di mano, dandomi risposte immediate e accessibili. Vendiamo, o vendevamo, esperienze: “Vivi la città come la vivrebbe un locale”. Ma le esperienze, quando diventano un copione ripetuto tutti i giorni, perdono l’autenticità e diventano altro, una rappresentazione. In ogni caso, ora non ha più senso pensarci.
La linea 24 del bus di Barcellona parte da piazza Catalunya e arriva fino alla piccola collina chiamata Turò de la Rovira. L’ultima parte del tragitto è in salita, un lungo serpente che percorre l’altura, si arresta davanti all’entrata del Parc Guell e poi prosegue verso la grande attrazione, i bunker del Carmel, costruiti dai repubblicani per difendersi dai bombardamenti dell’aviazione fascista durante la Guerra Civile.
“Tourists go home” è la prima cosa che si legge, scesi dal bus. È scritto sui vetri della pensilina. Ogni volta che viene rimossa, il giorno dopo ricompare. Risale forse ai primi di febbraio un’altra scritta, stavolta sull’asfalto prima della salita: “Selfish tourists, stay in your hotel” (Turisti egoisti, rimanete nei vostri hotel). Con vista a favore della terrazza del bar più famoso della zona, il Delicias, degno dello stereotipo della Barcellona baciata dal sole, con le sue tapas e cañas, e ai tavoli figure cosmopolite, leggere e fugaci, attratte dal panorama spettacolare e con un senso molto mediterraneo della libertà.
Io abito dall’altro lato di quella scritta, dal lato dei bar andalusi, dei loro avventori che commentano le partite con la voce rauca di fumo, dei cani piccoli e nervosi attaccati col guinzaglio ai piedi dei tavolini, dell’ozio e del poco ritegno dei vermut della domenica. (Una volta ci siamo fermati al bar “El rincon de Sevilla” per un paio di tapas. Ci hanno servito una birra ma niente da mangiare: la donna era sola e troppo occupata, e noi eravamo troppo sconosciuti perché le venisse voglia di prepararci qualcosa. Bene così, chiacchierammo un po’ mentre finiva di lavare le tazze, finimmo la nostra birra e salutammo cordiali. Faccio fatica a capire se questo tempo è mai esistito).
Quella seconda scritta deve risalire a quando i due lati della collina erano ancora due mondi diversissimi e separati, la Barcellona disposta a tutto delle promozioni di viaggio e quella ingrata e laconica di certi quartieri popolari. Il giorno che l’ho vista apparire, io lavoravo ancora. È stato un attimo prima che gli interruttori si spegnessero, le Ramblas tornassero a essere strade e non fiumi di corpi, prima che si dissolvessero le file davanti ai musei per materializzarsi davanti ai supermercati e prima che gli autobus, anche la linea 24, iniziassero a correre a vuoto.
Il 24 negli ultimi anni ha sfornato quotidianamente decine e decine di persone al Turò de la Rovira. Gruppi, coppie, singoli, richiamati da appuntamenti ai bunker per fare festa nelle sere d’estate, poi di primavera, poi di tutte le stagioni. Mi sono resa conto che il mio lavoro stava scomparendo nel nulla proprio mentre le ondate di corpi che affollavano il bus 24 diminuivano di intensità, intorno a febbraio.
Usavo il bus per tornare dai tour in centro verso casa. Dalla app osservavo lo stesso decorso in digitale: le prenotazioni cancellate una dopo l’altra. Negli Stati Uniti le notizie di un’Europa infetta iniziavano a scoraggiare i turisti ancor prima che si pensasse di chiudere le frontiere.
Il mio lavoro è (era) gestito da un algoritmo. La app pubblica il mio calendario di disponibilità e turisti da tutto il mondo possono prenotare un ciclo di degustazioni in giro per la città con qualcuno che li conduca, parli al posto loro coi gestori dei locali, maneggi i soldi e li sollevi da qualsiasi tipo di azione non confortevole. La sede della app/azienda non è in Spagna e non ho mai visto i miei “capi” di persona. Il mio capo, di fatto, è la app che mi assegna le prenotazioni, gestisce i rating, amministra i miei conti. Ma ufficialmente non abbiamo nessun rapporto contrattuale. Una relazione aperta, senza obblighi né vincoli apparenti.
Ancor prima di arrivare alla mia app, la destinazione del turista/cliente è stata più o meno decisa da un’altra serie di algoritmi. Quelli che hanno direzionato nel tempo la sua scelta, orientandola verso mete ben precise, in cui sarebbe stato possibile accedere e consumare tutta una serie di prodotti. Barcellona negli anni è stata il luogo ideale per questa operazione. Si è resa utile e ha accolto qualsiasi proposta arrivasse dall’industria turistica per rendersi appetibile. L’hanno chiamata “neo-liberalizzazione del domestico”, dall’ospitalità alla cultura culinaria, dai mercati alle piccole stradine di quartieri nascosti, tutto è stato investito da un’ondata mercificatrice, il confine tra turista e locale pian piano si è dissolto ed è diventato esso stesso un prodotto commerciabile.
Dall’inizio della pandemia, l’azienda/app si è tenuta in contatto, muovendosi scoordinata per cercare di estrarre da noi collaboratori idee commerciabili e rimettersi in marcia. Telefonate private con alcune delle guide più assidue, la proposta di girare dei video dalle nostre abitazioni, di filmare un saluto ai nostri “amici” e dirgli che “andrà tutto bene”, un brainstorming per mettere su tour virtuali alternativi. Se ne sono inventate un bel po’, e come biasimarli. Tuttavia faccio parte del gruppo di coloro che considera anche questo un lavoro, e non ha partecipato a nessuna di queste attività. Molti colleghi hanno invece messo su lezioni di cucina o di cocktail, e anche una serie di attività in occasione della festa della mamma: preparare tapas, fare origami, fare una danza o leggere la fortuna in un fondo di caffè. Tutto da svolgere online. Prezzo irrisorio, di cui l’azienda tratterrà probabilmente la metà.
C’è una cosa che hanno in comune le aziende della gig economy, specie le grandi, come Airbnb: sono ossessionate dal comunicare l’attaccamento alla comunità, dall’apparire più salubri possibile, rispettosi delle persone e della collettività di cui si servono. Eppure l’economia del turismo e la qualità della vita nelle città sembrano percorrere due assi speculari e interdipendenti: nel momento in cui la prima precipita, l’altra prospera, e viceversa. Se il tuo lavoro si ritrova in quell’asse che sale mentre l’altro scende, la contraddizione è servita.
“La riscoperta della prossimità”. “La rivincita del turismo sostenibile”. “La promozione del turismo locale”. Sono i titoli degli articoli, le affermazioni degli esperti, l’affanno profuso per rassicurare il settore nel prossimo futuro. È il rumore bianco del capitalismo che non riesce a immaginare un futuro al di là di se stesso. “Per tornare ai livelli pre-Covid dovremo aspettare il 2022”. Tradotto: nessun ripensamento, andava tutto benissimo e tutto deve tornare come prima. Non ci resta che aspettare, e nel frattempo riorganizzarci come meglio possiamo.
Questa durezza nelle valutazioni deriva dall’invisibilità a cui siamo ridotti noi, fuori dai discorsi politici sui sostegni economici, né dipendenti, né autonomi, fuori dalle tutele della disoccupazione, spesso fuori sede, alcuni fuori dal proprio paese d’origine. Forse ne deriva anche uno sguardo più lucido che sa bene di non voler ritornare a quella “normalità”. In questo maggio instabile, in cui non è ancora permesso fermarsi a contemplare, ma solo passeggiare, correre, stare comunque in movimento, la città che passa di lato è irriconoscibile. Durante la mia mezzora d’aria, vado incontro al Bar Delicias senza sentire il solito scarto dal vecchio mondo del mio isolato. Più che dei volti da influencer, sento la mancanza di quei tavolini luccicanti al sole che confondono gli occhi, dell’arroganza dei camerieri storici, il loro avvicendarsi risoluto, lo sguardo sicuro di chi sembrava non dovesse e potesse far altro che quello per sempre.
Due abitanti si salutano a distanza, notano che il Carmel sia più vivibile senza guiris, il nomignolo per dire turisti. Mi sembra di aggirarmi per un luogo che ha rotto le sue promesse, quella del benessere, della salute, della cura, quella di chi ha scommesso troppo in alto e alla fine ha perso tutto. Guardo la ferita ricucita: i due lati della collina sono finalmente ricomposti, sono un tutt’uno.
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