La strada dei Samouni è un film del 2018 di Stefano Savona, ha vinto quell’anno l’Œil d’or come miglior documentario al festival del cinema di Cannes. È la storia dei Samouni, una famiglia di Gaza travolta dalla violenza di un’incursione israeliana nel 2009, al tempo dell’operazione Piombo fuso. Era di gennaio e decine di membri dei Samouni morirono sotto le bombe o in seguito a esecuzioni a freddo dei militari israeliani impegnati nell’incursione di terra con carri armati. Il film ritrova i sopravvissuti, registra le loro memorie, esplora le macerie e la ricostruzione, con ostinata pazienza ricostruisce la dinamica di una strage.
La strada dei Samouni monta quattro tipologie differenti di materiali visuali: le immagini riprese poco dopo l’incursione israeliana, tra le macerie e il sangue; i filmati girati un anno dopo la tragedia, quando la vita torna nonostante tutto; i disegni animati realizzati da Simone Massi dove le vittime e i loro famigliari appaiono prima dell’attacco, e durante; una fredda ricostruzione in 3D dove l’occhio meccanico d’un drone israeliano sorvola la strada dei Samouni durante il bombardamento. Quando uscì l’opera m’apparve così solida e consapevole da essere destinata a durare. In questi giorni terribili ho pensato tanto a questo film e ho intervistato l’autore. Qui la riflessione sulle immagini e sul metodo di elaborarle s’intreccia con la storia del territorio di Gaza e della Palestina in generale, arrivando fino ai nostri giorni neri.
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Vorrei iniziare da un’analisi dei quattro diversi materiali visivi che compongono il film. Partiamo dalle riprese del 2009, realizzate dopo la distruzione.
È come se ci fosse un epicentro, come in un terremoto. Sono arrivato subito dopo, ho realizzato le prime immagini un attimo dopo la distruzione. Queste immagini sono, apparentemente, le più evidenti, eppure di fatto sono le meno significative perché non raccontano niente: sono pura distruzione e paradossalmente tutte le immagini di distruzione si somigliano. Inoltre sono immagini rispetto alle quali siamo desensibilizzati sempre di più. Il giorno dopo hai delle sequenze fortissime da un punto di vista emotivo, però non conosciamo chi sono i protagonisti e qual è la loro storia. C’è la sequenza di qualcuno che ha perso un familiare, o la propria casa, ma queste visioni si assomigliano tutte, sono quelle che abbiamo visto e continuiamo a vedere in questi giorni centinaia di volte.
Io intanto stavo lì, filmavo e conoscevo queste persone, poi i racconti duravano tutta la giornata quando non stavo riprendendo, e quindi io cominciavo a identificare delle individualità, delle personalità. Cominciavo a dipanare i racconti, a essere più consapevole, però tutto questo non corrispondeva, nelle immagini, a niente, perché le immagini erano immagini di distruzione e la distruzione per sua natura è muta. Queste immagini della distruzione hanno componenti più forti e più deboli: più forti nell’aspetto emotivo e più deboli come unità narrative. Sono tornato a Parigi per lavorare sul girato. Le immagini erano difficilissime da toccare, perché totalmente sovraccariche di sofferenza, mi sembrava di non avere nemmeno il diritto di rivederle o di montarle. Chi sono queste persone? Non ero capace di raccontare qualcosa in più dei protagonisti. Per un anno quasi ho cercato di rendere le mie visioni significative, di capire come trovare una prospettiva narrativa dove questa sofferenza potesse significare qualcosa al di là di sé stessa, ma non ci sono riuscito.
Il film comincia così. Amal ha dieci anni ed è seduta su una trave di legno, la schiena è appoggiata a lamiere. Si trova in un’area rurale di Zeitoun, distretto orientale di Gaza City. Con gli occhi bassi dice Amal: «Non mi ricordo di nessuna storia. Non lo so come si racconta una storia». Vedo una analogia fra il trauma della protagonista sopravvissuta e il problema di maneggiare le immagini. Forse il racconto, e dunque la comprensione, deve avvenire nella dilazione che allontana l’immediatezza.
Paradossalmente, quando lavori su una materia del genere, dici a te stesso: “Devo fare presto”, perché senti l’urgenza di essere stato testimone. Questo è quasi un ricatto morale e fa sì che molte cose sbagliate si dicano anche in buona fede. In realtà la testimonianza è valida soltanto se hai il tempo di metabolizzare quello che sta succedendo. Tuttavia non ho mai pensato, razionalmente, di prendere tempo. Il tempo è passato per l’incapacità iniziale di raccontare questa storia, di trovare le parole per raccontarla, così il tempo di elaborazione si è dilatato. Ci ho messo dieci anni e ho notato che quando sei sul campo le cose sono assolutamente evidenti, ma appena ti allontani non lo sono più. Perché? Quando ti allontani da quella umanità, non saprei come dire diversamente, quando lasci quella evidenza viva, tutto affonda di nuovo nei presupposti ideologici che ciascuno ha. Ho capito che i nostri pregiudizi, i preconcetti rispetto a questo argomento, sono tali che ci impediscono di vedere quello che è evidente quando sei là. Allora il punto era fare un film che riuscisse ad andare al di là dei vari punti di vista ideologici, che fosse quindi capace di ricostruire un universo umano che era sparito sotto le bombe.
Sei tornato dai Samouni un anno dopo il bombardamento.
Ero rimasto in contatto con loro e alcuni dei Samouni mi hanno detto: «C’è un matrimonio, vieni a filmare». Sono tornato. Avevo una conoscenza molto granulare, perché ho lavorato per un anno su quelle prime venticinque ore di immagini. Conoscevo ormai i nomi di tutti, avevo ricostruito molti legami famigliari, sapevo anche molto meglio cos’era successo, perché anche la dinamica degli eventi era complicatissima da capire in tempo reale. Al ritorno si è aperto di fronte a me un altro universo perché un anno dopo il quartiere era in via di ricostruzione. Inoltre, il fatto di essere tornato permetteva una fiducia, una confidenza maggiore con le famiglie, in particolare con il nucleo familiare centrale della storia che racconto. È nato il rapporto con Amal, che un anno prima praticamente non c’era stato. Allora avevano appena tirato fuori Amal dalle macerie e la portavano in giro come se fosse un’icona. Era viva, ma per loro era un simbolo e dunque la sua storia non era raccontabile, l’anno prima.
L’anno dopo fu diverso. Amal andava meno a scuola rispetto ai suoi fratelli quindi passavo tanto tempo con lei, cominciava a portarmi nei posti, si è come imposta alla mia attenzione. E là ho capito. Lei era l’unico punto di vista che aveva seguito tutta la storia, essendo rimasta tre giorni sotto le macerie durante il bombardamento. Era evidente che lei, tornata tra i vivi dal mondo dei morti, fosse narrativamente il personaggio più importante, più interessante. Questo, un anno prima, non lo avrei mai immaginato. Amal era sempre lì e voleva esserci e voleva raccontarsi, ma non trovava le parole: proprio da questa condizione è nata l’idea che dovessi ricostruire la memoria di Amal. Ancora più tardi m’è venuta l’idea che questa memoria si potesse ricostruire con l’animazione.
Per fare i conti con il trauma i bambini disegnano molto. Penso ad Amal, ma anche ai disegni degli altri bambini. Sembrano tutti modi per provare ad avvicinare l’indicibile. Forse sono gli stessi bambini a suggerire il modo per rappresentare il passato.
Il disegno, per loro, era diventato un modo per esprimersi. Avrei potuto utilizzare gli stessi disegni dei bambini, tuttavia sarebbe stato un espediente troppo diretto. Bisogna sperimentare una maniera non frontale, perché la frontalità non serve in una situazione che si ripete così simile a sé stessa e così drammatica da anni. Nella frontalità ogni volta si deve rilanciare, cercando sempre più drammaticità. Prendi l’immagine frontale di qualcuno che afferma: “Guardate cosa mi è successo!”. È talmente ribadita che bisogna trovare un modo per uscire dall’asse dello sguardo di chi sta raccontando la storia. Io cercavo un processo di raffreddamento, e questo vale per quasi tutte le narrazioni: un raffreddamento delle cose che sono troppo dirette. Bisogna trovare una prospettiva che sia più laterale per non entrare in una sorta di ricatto emotivo. Allora ho visto il lavoro di Massi e ho capito che un’animazione capace di mettere in scena quella memoria traumatica potesse esistere proprio grazie al suo lavoro. Sono passati anni per riuscire a capire esattamente come utilizzare la tecnica, è stato un lento lavoro di ricostruzione. Questa comunità era completamente frantumata, come se la guerra per sua natura distruggesse il senso delle cose e le relazioni. Allora il film si propone di contribuire a un processo di ricostruzione della memoria e dopo che questo processo si è sedimentato lo racconta con le animazioni. Con le rianimazioni, potremmo dire.
Infine, c’è una quarta tipologia di immagini: la prospettiva dall’alto del drone di guerra.
E quella è la più complicata e delicata. Nasce dalla necessità di capire la successione degli eventi che aveva portato a quel bombardamento. Stando lì, e poi per circa un anno, ininterrottamente mi sono chiesto: “Ma perché, ma perché?”. Poi una commissione di inchiesta israeliana ha ricostruito gli eventi e la ricostruzione coincideva con quella che mi avevano dato i Samouni, sebbene il loro non fosse un punto di vista onnicomprensivo perché stavano in casa, a terra, quando cadevano le bombe. Allora ho pensato di ricostruire le descrizioni della commissione di inchiesta in termini realistici.
Alla base di tutto il lavoro di disegno di Simone Massi e degli altri animatori c’è uno scenario in 3D. Abbiamo ricostruito il quartiere in 3D in modo che Massi e i suoi collaboratori potessero disegnare le scene in maniera precisa e puntuale. Questo è anche lo scenario inquadrato dal drone. Al contempo abbiamo imitato le immagini che droni o aerei da combattimento hanno prodotto sia sopra Gaza, sia in altri territori di guerra. In queste immagini lo spettatore sente una violenza enorme, perché fino ad allora è rimasto assieme alle vittime, in mezzo ai protagonisti in un ambito domestico, e all’improvviso lo sguardo si allontana e diventa distante, oggettivo: questo è intollerabile. Ci troviamo dal punto di vista di chi, da lontano, decide di uccidere. Per alcuni è inaccettabile che il film ti scagli così lontano per poi ritornare al livello del suolo soltanto dopo.
A un certo punto, nelle immagini del 2009, ci sono uomini sfollati seduti tra le macerie. Discutono e dicono: «Gli israeliani sapevano che qui era tranquillo! Per quello sono venuti! Volevano fare più vittime palestinesi possibili. L’annientamento. Credo che abbiano fatto questo a noi Samouni, che siamo da sempre contadini tranquilli, perché, colpendo noi, hanno dato un segnale agli altri».
Loro abitavano, e abitano ancora adesso, nella parte più tranquilla e anche meno congestionata di Gaza, perché è una parte quasi rurale. E si sono detti: “Se cercano i militanti di Hamas, mica li cercano qua”. Hamas è radicata in certi quartieri molto densi, in campi profughi che sono ancora più densi. Inoltre lì vicino, prima che gli israeliani abbandonassero la Striscia di Gaza, c’era un kibbutz e i Samouni avevano rapporti con la gente del kibbutz. Essendo poco politici rispetto ad altri gruppi familiari, i Samouni avevano lavorato tanto in Israele, quindi avevano un contatto con gli israeliani. Quella generazione dei quarantenni, cinquantenni di allora aveva conosciuto bene gli israeliani e si fidava di loro. Oggi nessuno della generazione successiva potrebbe dire di conoscerli, nessuno potrebbe parlare ebraico, perché da quindici anni sono chiusi e in ogni caso dall’inizio del secolo i contatti sono stati naturalmente sporadici e legati alle guerre. E invece, proprio perché era la zona più tranquilla nel 2009, i carri armati sono passati da lì. Specialmente nell’invasione del 2009 gli israeliani volevano minimizzare al massimo le loro perdite, quindi sono andati in una zona dove non hanno trovato nessuna resistenza: la strada dei Samouni. Una specie di enorme malinteso. Gli abitanti sono restati pensando di rimanere tranquilli e i carri armati sono andati lì proprio perché era la zona più quieta.
Sempre nelle riprese del 2009 compaiono i funzionari dei partiti maggiori giungere in visita alle macerie. Si notano soprattutto i funzionari di Hamas. I loro volti e i loro gesti non confermano l’immaginario che l’occidente attribuisce agli islamisti radicali, mi ricordano piuttosto i nostri grigi quadri di partito alla ricerca di consenso. Dice un Samouni sopravvissuto: «Sono arrivati tutti i partiti. Hamas, Jihad e Fatah. Volevano appropriarsi delle condoglianze. Acclamano i morti e gridano che appartenevano al loro partito».
Anche quello era abbastanza evidente, ora non so come sarebbe. Quella generazione aveva avuto modo di vivere fuori dalla prigione che è Gaza e ognuno aveva la sua idea politica; anche all’interno di una famiglia nessuno era d’accordo con nessuno. Io credo che adesso, quindici anni dopo, probabilmente questa diversità di punti di vista sarebbe meno netta. Questa potrebbe essere una delle conseguenze della reclusione nella Striscia. In quei giorni era ridicolo vedere come la Jihad islamica o Hamas definivano “martiri combattenti” bambini di due anni che erano stati uccisi. Era talmente assurdo. Lo avevo capito già nel 2009, ma ci voleva tutto il film per condividere questa sensazione con un pubblico che non conosce quel mondo. L’animazione permette di ricostruire le relazioni familiari e anche il carattere di alcuni protagonisti: questo mostra meglio quanto sia assurda la definizione di “martiri combattenti”.
Mi colpiscono molto le immagini finali, quelle di Mahmud, primogenito del nucleo familiare principale. Mahmud ha perso il padre, lo zio e altri familiari. Accanto c’è la madre e racconta di suo figlio: «Gli ho chiesto se vuole sposarsi e mi ha risposto che non vuole sposarsi, ma entrare nella resistenza. I partiti adorano questo genere di casi. Un bambino della sua età che vuole vendicare suo padre». E Mahmud: «Ci sono i miei fratelli, cresceranno e sosterranno nostra madre al mio posto. Voglio andare a salutare mio padre…». La madre guarda il bambino e abbassa lo sguardo. Questa scena mi sembra disegnare una genealogia potenziale, e complessa, degli eventi di queste settimane.
Può essere così, però nello specifico Mahmud è diventato altro. Ha vinto la madre, secondo me. Mahmud è il primogenito, quindi doveva dare il supporto che la madre non aveva più in assenza del marito. Se non ci fosse stato questo compito, lui probabilmente sarebbe diventato un combattente e forse sarebbe stato tra quelli che adesso andavano in Israele. Invece la mitezza eroica di sua madre lo ha distolto da quel percorso e adesso è un ragazzo carino, maturo, è lui che ogni due giorni mi scrive per darmi notizie della famiglia. E siamo molto legati nonostante non ci vediamo dall’epoca, perché poi non sono più tornato. Quello che si racconta di lui nel film è effettivamente una possibilità concreta per chi ha subito un lutto, e ancora di più adesso. Per ogni generazione gli israeliani uccidono tanti palestinesi e la creazione di nemici non è una possibilità, ma una certezza. Viene dato odio con il cucchiaio. E poi si chiedono da dove arrivi tutta questa violenza e dicono che sono animali. Da dove viene questa disumanità? E da dove deve venire? Se in questo momento gli israeliani sentono tanta sofferenza per quello che è successo in Israele, possono capire anche da dove viene questo risentimento enorme, questo odio enorme. Il problema è che non c’è modo di bloccarla questa catena. Non si può chiedere a nessuno, tra chi è in un contesto del genere, di essere superiore a dei sentimenti umani come il desiderio di giustizia o di vendetta, come la rabbia per quello che è successo. Questo purtroppo è quello che continuiamo a vedere in un continuo rilancio dell’odio che prende ormai dimensioni se possibile più ingenti, io non pensavo che si sarebbe riusciti a moltiplicarlo, era già talmente profondo. Là non c’è ottimismo possibile, non vedo come si possa interrompere una spirale del genere. (intervista a cura di francesco migliaccio)
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