“Napoli libera dal gioco d’azzardo. No slot” è scritto sullo striscione appeso all’inferriata che protegge la statua di Dante. Nel pomeriggio del 3 novembre un uomo con il megafono elenca i nomi dei comitati cittadini, dei parroci e di chi a titolo personale ha aderito alla protesta contro la nuova sala giochi aperta in piazza Dante, al civico 73. Una donna invita a firmare un appello al comune di Napoli presso il banchetto posto sotto un piccolo gazebo presidiato da una cinquantina di persone. La protesta tiene banco dall’estate, con un braccio di ferro tra la II Municipalità e i gestori della sala – passando per il Tar – che malgrado tutto hanno aperto perché in possesso delle autorizzazioni necessarie. I presidianti contestano la violazione del regolamento comunale che dispone che le sale non possano essere aperte a meno di cinquecento metri da luoghi sensibili, come le scuole presenti di lì a pochi metri. Nei giorni seguenti, invitando le persone a uscire dalla sala, questa verrà chiusa con la certezza che la vicenda non si concluderà qui e che rappresenta in ogni caso una goccia nel mare. Un mare immenso che inonda le nostre strade anche di quattro sale giochi su una sola via come registrato sul portale dell’Agenzia dogane e monopoli. Con il regolamento comunale del 17 agosto 2016 si è data una stretta agli orari di apertura di questi esercizi (si gioca dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 18.00 alle 23.00). Ma chi assicura che durante la chiusura di sale scommesse non vi siano altri luoghi, esercizi generalisti e di intrattenimento nei quali è possibile giocare? E il gioco on-line (il cui giro di affari da solo vale trecento e ventisette milioni di euro) chi le regolamenta?
La ludopatia, o gioco d’azzardo patologico, è una malattia (come affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) che coinvolge centinaia di migliaia di persone per un giro d’affari di almeno ottanta miliardi di euro. Se prendessimo una cartina delle nostre municipalità e per ogni luogo di gioco disegnassimo un puntino, Napoli non si vedrebbe più: 1.336 puntini, uno ogni settecento abitanti circa. Non si può comprendere cosa significano davvero questi numeri, se non si ascoltano le vite che rappresentano, le vittime del gioco d’azzardo e il loro familiari.
Alle spalle di piazza Cavour c’è una delle sedi di Giocatori Anonimi, un’associazione nazionale di auto-mutuo aiuto composta e gestita da ex giocatori, giocatori e familiari. È la seconda volta che li incontro. Mentre arrivo, un rumore giunge dal marciapiede opposto, è quello di una slot su strada, all’ingresso di un tabaccaio. Una donna irrequieta parla con lo schermo, ha gli occhi fissi, i movimenti automatici del braccio, il resto del corpo immobile. La gente passa sullo stretto marciapiede, la urtano, non se ne accorge. Alle spalle della videolottery su strada, un’altra, all’interno del piccolo tabacchi. Un uomo fissa lo schermo come la donna che fuori compie la sua stessa attività. Sono l’uno di fronte all’altra, separati da una slot a due facce, motivo per il quale i loro occhi non s’incontreranno mai. Nel tabacchi c’è molta folla, è la fila per il lotto delle schedine, la gente si affolla su una mensola di legno a grattare o cerchiare numerini. Nel frattempo la donna che gioca alla slot intima al tabaccaio di cambiarle dieci euro in monete da un euro, alla svelta «sennò se fanno ‘o posto». Mi tornano in mente le parole di Mimmo, che mi ha portato dai G. A. la prima volta. «Il gioco d’azzardo ti segue fino a casa e un posto per giocare lo trovi ogni cento passi». Secondo la sua esperienza di ex giocatore è tra le donne la più alta percentuale di uso del Gratta&Vinci. Il gioco del 10&lotto «sta rovinando la gente», dice, anche on-line. Ci racconta delle file davanti alle sale storiche di Napoli come quella in via dei Fiorentini o le sale bingo, che già dalle cinque del pomeriggio accolgono una folla di persone impazienti. Alcune donne si prostituiscono per comprare una cartella del bingo, qualcuno si gioca le case, qualcuno “i favori” della moglie.
La sede dell’associazione è una piccola sala a ridosso di un androne. Questa sede (ce ne sono altre tre in regione) è messa a disposizione dalla Curia, ma Mimmo precisa: «Non siamo un’associazione religiosa, qui ognuno crede in quello che vuole». Mimmo è arrivato all’associazione grazie a una parente. Quando parla dell’organizzazione sorride, felice. Arriviamo a un cancello di ferro e attendiamo una signora che di lì a poco ci verrà ad aprire. Lui è stato promosso alla “prima accoglienza” perché ha maturato una certa esperienza e ci spiega come funziona: «Partecipi alle riunioni e sei libero di ascoltare senza intervenire. Ti vengono dati dei numeri di telefono di persone che puoi contattare quando sei in difficoltà e ti viene voglia di giocare. Ti risponderanno a qualsiasi orario, sostenendoti in quella mezz’ora in cui devi “distrarti” dall’impulso del gioco». Mi mostra anche un quadratino di carta con i numeri e gli indirizzi delle sedi che può chiamare e presso le quali si può recare sia a Napoli che in provincia, lo tiene nel portafogli. Quest’ultimo è vuoto perché la prima regola nel gruppo di auto-mutuo aiuto è di andarci senza soldi (da poter giocare). La seconda è di non frequentare amici che giocano e la terza è la riservatezza circa l’identità di qualsiasi persona entri in contatto con i giocatori anonimi italiani. Naturalmente, tutte queste regole non servono se manca l’elemento fondamentale, la “volontà” di smettere. I casi di ricaduta sono frequenti e azzerano il percorso fatto. Qui, per ogni anno lontani dal gioco, si festeggia un compleanno. I G.A. partecipano sempre ai compleanni, fa parte del sostegno ed è uno dei motivi per cui all’inizio incontrarci è stato difficile. Comprendo che per la ludopatia oltre questi gruppi a Napoli c’è poco altro. Gli stessi SerT invitano i loro utenti a parteciparvi.
Dopo più di una settimana sono tornata per parlare con Sandro che, come più anziano ex giocatore, coordina il gruppo. Ha smesso da sette anni, ma ha giocato per oltre trenta. È un oratore instancabile, una fonte inesauribile di informazioni. Lui ha giocato «di tutto». Ha cominciato giovanissimo nei biliardini posti fuori alle sale, ha giocato cifre importanti; è stato capace, in una sola serata, di finire senza nemmeno i soldi della benzina per tornare a casa. Il giocatore, ci spiega, è disposto a tutto, a mentire pur di farsi prestare soldi, a rientrare a casa e cercare il litigio solo per scendere di nuovo a giocare, a spendere lo stipendio di un mese in una sola notte, a ricorrere all’usura. Per molti il ricorso agli strozzini è l’imbocco di una strada che si fa ancora più ardua. Se anche riesci a smettere di giocare, ti resterà il debito da pagare per gli anni a venire. Sandro alterna il racconto della sua esperienza di vita con le storie di altri giocatori che ha incontrato nel corso degli anni. «Il giocatore non vince mai, anche quando vince», dice, perché se sei compulsivo continui a giocare fino a quando non rimani senza nulla. È ironico, schietto, conosce il linguaggio del gioco a menadito.
«Ho avuto il piacere e il dispiacere di giocare con i professionisti nelle bische. Se un giocatore va a giocare con il professionista, non può mai vincere. Vinci la prima volta perché ti devono agganciare. Ma alla seconda volta, se per esempio stai facendo una mano a texana, il professionista non cala neanche con tre assi in mano, lui non ha la malattia, non è compulsivo, lui aspetta, ti aspetta». Sandro racconta che, dal suo punto di vista, nel corso degli anni sono aumentati i giocatori compulsivi e anche il modo di giocare. Secondo lui il bingo e le lotterie istantanee hanno allargato la platea dei giocatori facendo molta presa sulle donne. «Tu giochi anche quando non giochi, con la mente sei sempre lì a pensare alla prossima giocata. Emotivamente sempre più lontano, anche se presente, dagli affetti e dai momenti di vita familiare. Fino a quando neghi di avere un problema, il vortice nel quale sei entrato trascina con sé tutte le persone che sono legate a te, nessuno escluso». (leda marino)
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