Riproponiamo l’articolo La battaglia di Fortnite, scritto da Francesco Migliaccio e Riccardo Rosa e pubblicato nell’ultimo numero (n.5 / Novembre 2020) de Lo stato delle città.
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Da oltre due anni Fortnite appassiona gli adolescenti del nostro paese, resistendo con tenacia ai tentativi della concorrenza di insidiare il primo gradino del podio. Fortnite è un gioco online, prodotto dalle case Epic Games e People Can Fly. La prima è una storica casa produttrice americana di videogiochi “sparatutto”, famosa all’inizio degli anni Novanta con il nome Potomac. People Can Fly invece è una casa polacca nata come indipendente, assorbita dagli americani della Epic a metà del primo decennio del millennio. People Can Fly è tornata autonoma nel 2015 per valorizzare il progetto Fortnite, sviluppato poi in collaborazione con i soci di un tempo.
A Fortnite si può giocare tramite computer, playstation, telefono. I giovani giocatori possono trascorrere poche ore alla settimana, lunghi pomeriggi o interminabili notti in sparatorie ambientate su una lontana isola in mezzo all’oceano. Noi – adulti, genitori, educatori o insegnanti – spesso li osserviamo a distanza da moralisti distratti: il rischio è il giudizio frettoloso, la critica senza attenzione, la superficialità del commento. Eppure l’esperienza di Fortnite attraversa diversi contesti locali, generazioni, classi sociali: emerge dalla realtà parallela un immaginario collettivo, tutt’altro che virtuale.
L’articolo che segue è un tentativo di ascolto realizzato tra la provincia di Torino e Napoli. In provincia di Torino abbiamo coinvolto due classi: una prima e una seconda media. Qui abbiamo chiesto agli studenti di raccontare le regole e l’esperienza di gioco, di descrivere i luoghi, di analizzare le passioni suscitate da una partita. A Napoli le interviste sono state effettuate nel corso di laboratori di auto-narrazione e di argomentazione, con studenti all’ultimo anno di scuola media o delle superiori, provenienti da aree di periferia della città metropolitana come Capodichino, Marano, Bagnoli.
Le modalità di gioco sono tre: la modalità “Salva il mondo”, quella “creativa” e la “battaglia reale”. Qui raccontiamo solo quest’ultima.
Volo in cielo a bordo di un bus appeso a un pallone aerostatico. Siamo in cento sul trasporto volante, all’orizzonte vedo distese d’acqua oceaniche. Sotto di noi un’isola con baie, fiumi, alte montagne nevose, cittadine, fabbriche e villaggi. Quando alcuni passeggeri saltano dal battello celeste, mi lancio anch’io in picchiata. Il mio deltaplano s’apre sopra un piccolo centro abitato, Borgo Bislacco. Rudy me lo aveva descritto così: «Borgo Bislacco ha cinque case colorate e un benzinaio. Ci sono fiori, alberi, rocce, molta natura. Una strada passa in mezzo a questo paese, c’è anche una fermata del bus e ci sono macchine parcheggiate. Dove si conclude la strada, tra due case, c’è stato un incidente. Ma per il resto è un paesino allegro. Lì vicino c’è un ponte che lo collega a Parco Pacifico, e dall’altra parte la strada collega Borgo a Sabbie, che si affaccia sul mare». Sento frusciare nell’aria giocatori in discesa: non più compagni di viaggio, ma nemici. Atterro accanto a una villetta e nel soggiorno trovo un fucile a pompa, apro una porta ed ecco un forziere carico di proiettili. Tambureggiano sparatorie per strada mentre raccolgo munizioni nello scantinato. Salgo le scale, nervoso, e uccido in cortile un concorrente con un colpo di fucile. Non ci sono tracce di sangue, il nemico scompare volatile e lascia al suolo gli averi suoi. Che disastro intorno: i colpi hanno abbattuto il muro d’una villa e per terra son sparsi oggetti abbandonati. Vedo un concorrente, prendo la mira, ora esplode una raffica: in mano stringo un fucile mitragliatore. E adesso scende la quiete nel borgo, è tempo di medicare le ferite con bende curative. C’è una foresta vicino, provengono canti di uccelli dai rami lontani: è la Foresta Frignante. Qui, alla base di querce nodose, crescono funghi blu e in mezzo al verde qualcuno ha costruito una casa ariosa di legno. All’interno sono distesi tappeti, fiori dai petali gialli escono da vasi posti su mensole ordinate, il fuoco arde nel caminetto mentre trovo una nuova cassetta di munizioni. Sono in ascolto, qualcuno cammina nelle stanze sopra di me – intimorito mi acquatto: chi sarà, e dove si trova? Punto l’arma verso le scale deserte in un silenzio d’attesa. Lentamente esco nel cortile e all’improvviso la scarica di un fucile d’assalto mi sorprende alle spalle. Mi sposto di lato e comprendo: un avversario spara dal tetto. “Ha preso l’altezza”, come dicono i ragazzi. “A quel punto abbiamo preso l’altezza degli avversari”, scriveva Rayan, giocatore esperto. Ma è stato Carlo, un giorno, a spiegarmi i vantaggi del prendere l’altezza: «Il fattore dell’altezza è molto importante. Uno: con l’altezza hai migliore mira; due: dall’alto i colpi vanno più veloci – questo credo sia così, ma non lo so con certezza. Se i colpi vanno più veloci, l’avversario ha minore tempo di fuga. E poi da sopra vedi meglio, come in una postazione da cecchino». Ho appena il tempo di mirare l’uomo sul tetto, ma è troppo tardi: muoio colpito da una grandine di pallottole. Scompaio anche io da quest’isola di conflitti a fuoco.
«Atterro in una città piccola dove ci sta sempre tutto: armi, materiali, molto ferro. Si chiama Moli Molesti. È una specie di porto: ci sta la piattaforma a mare, ci stanno le gru, ci stanno pure i container dei cinesi. Quando vedi le gru, e questi camion qua che portano diciamo il cemento, capisci che stanno costruendo, in capo a due-tre giorni qua ci sarà molta roba in più. Mo’ lo vedi così desolato, invece ci staranno un sacco di cose nuove. Sto carico di armi. Prima di entrare a Moli Molesti ho preso un’arma, gli ho sparato in testa e mi sono fatto un po’ di munizioni. Sulla piattaforma distruggo tutti i camion, il ferro è sempre il mio materiale preferito. Non vedo nessuno, anzi sì, ci sta uno che sta costruendo. Lo uccido abbastanza facilmente con il fucile a pompa. Però ora lo lasciamo, il pompa. Me ne vado verso Lago Languido e mi porto il tattico, il fucile tattico, che sul cellulare è meglio perché spara più veloce. Sulla Play non lo lascio mai, il pompa. Il Lago Languido è come se fosse il Rione Traiano: ci stanno i palazzi coi mattoni, è tutto marrone, non c’è molta luce. Ci sta pure un palazzone che sembra il Polifunzionale, ci sta una vetrata, mi immagino che ci sta una libreria dentro. Però non entro, voglio andare sul tetto e sparare da sopra così mi metto a costruire. Sul tetto ci stanno pure quelle cose elettriche che fanno l’energia solare. Ora sto con lo scar, è un fucile che spara veloce e fa danno 35 a colpo, 70 se ti faccio head shot, così si dice. Ho fatto un paio di morti, vedo altre due battaglie là, questo vuol dire che tra pochi secondi saremo due in questa zona, i sopravvissuti più io. Mi costruisco un muro di mattoni e mi preparo all’attacco. Mi passa il primo vicino, sono fortunato oggi. Mi vede quando ho già iniziato a sparare perché ho costruito bene, sono in una posizione più favorevole. Ora vado a cercare l’altro. Eccolo, sta dietro al Polifunzionale, mo’ lo vado a prendere. Non lo trovo più, provo a entrare dentro. E che cazzo, ma che è oggi? Mi ha preso alle spalle, mi ha eliminato. Sono stato sfortunatissimo stavolta, potevo fare vittoria reale».
Ancora in cielo, sotto di me l’isola appare di nuovo. Questa volta salto nel vuoto verso Lago Languido perché voglio seguire i consigli di Simone: «A mio parere Lago Languido è la città più bella perché faccio molte kill, massimo ventidue su cento; ma muoio anche, perché ci sono case molto aperte da dove io non vedo la gente e così loro mi sparano. Mi piace molto la casa estiva, perché c’è loot ma non molti player, massimo tre. Tra le mie cose preferite ci sono le buone armi che trovo, e buon farmamento. È bella anche perché ci sono gli ombrelloni rimbalzanti in giro e io li uso o per pushare o per scappare. Ma ci si shilda anche in fretta perché io trovo scudo ovunque».
Nel tempo, grazie a Rudy, ho rinnovato il mio vocabolario. Un giorno Rudy ha scritto per me un glossario dei termini tecnici. “Killare”, ovviamente, vuole dire uccidere; una “kill” è un omicidio. “Lootare”, invece, sta per “cercare materiali da costruzione, armi, cure”. Con “pushare” s’intende “andare verso, andare incontro, attaccare”, ovvero incalzare l’avversario. Il glossario di Rudy non mi è d’aiuto con “shildare”, ma credo significhi “dotarsi di uno scudo”. Ecco, apro il mio deltaplano sopra Lago Languido, ridente cittadina che promette gloria e fortuna. Qui i tetti non sono spioventi, hanno invece piccoli terrazzi come nei paesi del sud. Una piscina affianca un edificio più basso e vedo taxi parcheggiati entro strisce bianche, lungo i viali crescono alberi ordinati – si respira un’atmosfera di vacanza borghese. Entro nell’hotel pretenzioso tra sedie foderate e tavole imbandite. Ogni camera, accanto alla porta, ha una piccola tastiera numerica, trovo un fucile automatico accanto al letto rifatto di fresco. Ora attraverso una vetrata ad arco ed esco sul terrazzo: vedo un attrezzo da ginnastica e lontano, all’orizzonte, i profili montuosi dell’isola. Viene sera. Fucilo un avversario inconsapevole che s’attardava sul viale. Ho trovato anche un lanciarazzi qui a Lago Languido, aveva ragione Simone. Carico di armi mi avvio di fretta verso nord-ovest. Sono privo di scudo e ricordo le parole del mio consigliere: «Ma ho un’altra cosa da dire sullo shild, che quando mi serve non lo trovo quasi mai, e quando non serve lo trovo». Non posso indugiare: devo sfuggire alla tempesta, una tormenta di vento che copre il mondo di colori blu e viola – un pericolo mortale per ogni giocatore. I superstiti devono rifugiarsi nell’occhio del ciclone, unica zona vivibile nel generale sconquasso. In questa zona ristretta avviene la resa dei conti tra i superstiti. Ma no, muoio troppo presto: freddato alle spalle in una mesta tavola calda, fuori una strada d’asfalto attraversa una campagna punteggiata da covoni.
«Scelgo una skin che normalmente mi porta fortuna. Le skin si possono anche shoppare, questa mi è costata dieci euro, ce n’è una che ho pagato venticinque ma non la uso mai perché sono stato sempre ucciso in fretta. Sono scaramantico, ci tengo a queste cose. Gioco da un anno a Fortnite ma non ho speso molti soldi, diciamo quattro o cinquecento euro in tutto. In un anno sono diventato abbastanza forte sulla Play, sul telefono devo ancora migliorare tanto. Ecco, ora sto atterrando. Ho scelto una città lontana, verso il basso della mappa, diciamo a sud, perché di solito c’è sempre meno gente, la gente ha fretta di buttarsi. Quando non c’è molta gente posso cercare il materiale con calma. Qua stiamo a Pantano Palpitante, una città moderna, c’è una specie di capannone che forse era una fabbrica, somiglia un poco a Bagnoli questa città. La cosa buona è che c’è un sacco di ferro, che è il materiale che preferisco, puoi costruire muri difficili da distruggere se riesci ad andare avanti con la partita. Un muro di legno va giù in cinque colpi. Uno di mattoni in dieci. Uno di ferro anche in quindici, sedici colpi. Nel capannone c’è ferro in abbondanza e anche le casse sono ben equipaggiate. Prendo le armi che mi servono, il materiale lo tengo, e sono pronto per pushare. Mi sento gasato, è la prima partita oggi ma ho buone sensazioni. Prendo subito il fucile a pompa, senza il pompa non sei nessuno. C’è un nabbo davanti a me. Lo riconosci subito da come si muove, un nabbo, fa avanti e indietro a zig zag, non sa manco camminare. Mi avvicino, lo piglio da dietro, lui nemmeno mi vede. Vieniti a piglia’ ‘o perdono, vie’! Fatto fuori subito, lo dicevo che andava bene oggi. Aspetta che dietro al finestrone ne vedo un altro. Fuori due, il pompa non perdona. Lì invece c’è uno che sta costruendo. È velocissimo a costruire, dev’essere uno bravo, giocherà col computer perché è molto veloce. Col computer puoi usare mouse e tastiera e se sei forte è difficile fermarti. Devo per forza attaccare, se lo aspetto mi fa fuori. Scendo giù, ora provo a prenderlo alle spalle come ho fatto col nabbo. Eccoci, mo ce ne chiaviamo tutte mazzate. Ha vinto lui, tutto si fa in pochi secondi, pochi colpi, bisogna essere veloce e bisogna arrivare a fightare in buone condizioni».
Ottiene la vittoria l’ultimo sopravvissuto. Sono sulla mongolfiera volante, siamo in cento e solo uno vincerà. Perché andare nei luoghi più conosciuti? Perché gettarsi in città? In deltaplano raggiungo anfratti nascosti, là dove s’alzano le montagne nevose. Atterro accanto a una casa di legno dall’arredamento scarno, in bagno la vasca della doccia è incrostata di calcare. Non c’è nessuno, recupero con calma una mitragliatrice. Intorno i rami degli abeti ondeggiano toccati dalla brezza, raggiungo una stazione scientifica in alta montagna e trovo cassette di pronto soccorso e pozioni che incrementano lo scudo. Mi nascondo in vetta, tra tende di soccorso: gli spari sono lontani – già cinquanta giocatori sono stati eliminati e io non ho sparato un colpo. Seguo il piccolo trattato di tattica che ha scritto Lorenzo: “Il giocatore deve essere furbo, intelligente e strategico. Bastano pochi secondi prima di essere eliminato. Un giocatore può essere un ‘pro’, o un ‘camper’. Chi è pro cerca i giocatori e non ha paura di nessuno, invece il camper è molto strategico e intelligente, perché ‘campera’ (sta fermo) tutta la partita. Ha un difetto: essendo camper, non combatte mai (o quasi), perciò se incontra un pro, è finito”.
Io sono un camper, aspetto. Così mi avvicino alla vittoria – sono ormai ottanta le eliminazioni mentre passo il tempo accovacciato dietro un abete d’altura – e finalmente abbandono il nervosismo dei pro, il compulsivo e frenetico bisogno di avanzare. I pro, inoltre, devono costruire fortificazioni e piccoli castelli con i materiali che hanno trovato e veloci lasciano le armi pesanti per impugnare la matita d’architetto. Sempre Lorenzo: “I giocatori, almeno quelli mediocri e quelli forti, sono fissati con il materiale, il materiale è alla base della difesa: chi sa costruire, sa difendersi. I materiali nella mappa sono molti, ma non c’è tempo di prenderli tutti. L’obiettivo per avere molti materiali è uccidere nemici e spaccare un po’ di oggetti. Il materiale più comune è il legno, quello un po’ meno facile da trovare è la pietra, e infine il ferro, molto raro e anche migliore per costruire. Il legno si usa all’inizio per combattere, e anche per coprirsi. La pietra si utilizza a metà della partita, perché il legno è ormai finito, e infine il metallo, che serve più di tutti gli altri materiali. A fine partita il giocatore deve essere strategico, non deve consumare munizioni, sprecare materiale, e deve difendersi il più possibile. A fine partita vince chi sa piazzare meglio un muro, una scala o chi sa sparare meglio. In diverse modalità di gioco si possono utilizzare diverse tecniche di costruzione. In certi casi si può utilizzare una particolare tecnica: la sky base. È una costruzione altissima formata da scale e pavimenti: il giocatore deve possedere più materiale possibile per crearla”.
Sono un camper che non costruisce, con calma mi sposto solo per evitare la tempesta. Ecco, un nemico. Non mi ha visto, sta sparando contro un avversario a valle. Mi avvicino, carico il fucile, lui si volta, mi vede – mi ha eliminato. Nel trattato di Lorenzo esiste una terza categoria: “Il ‘noob’ è scarso e di solito lo prendono in giro”. Il noob, il “nabbo”, il novellino o pivello: colui che muore senza lasciar nemmeno un avversario disteso sul terreno.
«Mi sta invitando Eddy a giocare con lui ma il mio obiettivo di oggi è vincere una vittoria reale. Di solito mi do degli obiettivi, a seconda del tempo che ho. Vincere una partita, tre, dieci. Se non riesco a portarli a termine continuo finché non ci riesco. Gioco anche la notte ma non sempre. Non puoi mai sapere quanto durerà una partita, non puoi mai sapere chi ti trovi davanti, se un nabbo o un top player. Ci stanno cento partecipanti, sono tutti di livello diverso. A volte scelgo di andare in un posto, ma mia mamma o mio fratello mi distraggono con qualche stronzata e sbaglio l’atterraggio. Non è grave, ora sono in un posto di campagna vicino a Lo Squalo, è un posto tranquillo, c’è un sacco di verde. Mi piacerebbe abitare in un posto così. Da lontano vedo il faro ma per ora non ci posso arrivare, sennò mi killano, devo prima fare munizioni. Sembra il paesino di Heidi qua: alberi, montagne, le case coi tetti rossi, ci mancano solo le pecore. No, altro che abitarci, me vene ‘a depressione a stare di casa qua. Pigliamo subito il materiale, mi voglio rifare, sono andato in freva per come mi sono fatto fare prima, poteva essere una buona partita. Salgo sul tetto a prendere casse; no, non è il tetto, come si chiama… diciamo il ripostiglio, come la chiami… la soffitta. Tengo il pompa in mano, sono pronto per fightare, non mi mantengo. Stiamo un poco defilati, è come se stessimo in periferia, devo fare attenzione a stare sempre nel cerchio della tempesta, sarebbe la safe. Se esci da qua muori, è fatto così perché a un certo punto deve mettere tutti i giocatori vicini, sennò la partita non finisce più e la gente si sfasterea, si scoccia. Non c’è nessuno in questa terra, mo’ me ne vado a Parco Pacifico. Questo sembra un posto americano, la città dei Simpson va’, con le casette uguali e tutto. Laggiù ci stanno tre che si stanno sparando, io mi nascondo nell’immondizia. Quello che è rimasto vivo avrà perso parecchio, mo’ lo vado a pigliare. Aspe’, torno prima un po’ nell’immondizia, me ne sto un altro poco là; guarda, faccio i tuffi, così per pariare… Basta, mo’ mi metto a fare il pro. Il pro è uno che non guarda in faccia a nessuno, non perde tempo con cose così, come i tuffi nella munnezza, non costruisce, non fa niente. Fa solo due cose: pusha e ammazza, pusha e ammazza, pusha e ammazza. La città dei Simpson è pulita, non ci sta niente per terra, non ci sono molte cose distrutte. Nelle città non ci sta mai nessuno. Sono abbandonate, come se fossero scappati tutti quanti o fossero morti col Coronavirus. Siamo rimasti in trentatré, nel giardino di una casetta ne faccio fuori due in pochi secondi, gli ho sfondato il garage, sai quanta roba ti potresti pigliare, sta tutto abbandonato, chi ti dice niente. Salgo sul tetto, così vedo chi ci sta in giro. Mi metto a sparare da qua, faccio i morti. Poi arriva uno, mi piglia di faccia, ci spariamo per qualche secondo ma muoio io».
Sono in cielo oltre le vette innevate d’una catena montuosa. Dall’alto vedo una piccola baia lontana dove la spuma spruzza di bianco la costa rocciosa – là dirigo il deltaplano. È un’insenatura naturale, pericolosa: chiglie di barche spaccate emergono dalle onde. Le pareti dei monti cadono a strapiombo in un mare di naufragi. Tra sartie, salvagenti e casse di merci uscite dalla stiva d’un naviglio trovo un fucile d’assalto. M’incammino su un sentiero montano e percorro un crinale che s’addentra in un rado bosco di conifere. All’improvviso arresto la corsa, depongo il fucile: avevo già visto quest’isola da qualche parte, ci sono stato in un tempo lontano. Era avvolta dalle stesse brume sotto un vasto cielo azzurro e ospitava boschi e strane strutture immerse nel silenzio: un osservatorio, un ponte, una torre. Era l’isola misteriosa di Myst, gioco virtuale degli anni Novanta. Un uomo, l’incauto lettore protagonista, era risucchiato dalla pagina di un libro, scaraventato sull’isola. Anziché sparare, laggiù dovevo risolvere enigmi. Ora sono nella foresta di conifere di Fortnite e mi ricordo finalmente le altre isole che visitai vent’anni fa. C’era l’isola di Bioy Casares, scrittore argentino, dove un folle inventore costruì un macchinario cinematografico capace di registrare suoni, immagini, odori, gusti e sensazioni tattili. E, prima ancora, seguii le vicende dei naufraghi ne L’isola misteriosa di Verne, romanzo del 1874. Nel primo capitolo cinque fuggiaschi sono su un pallone aerostatico in mezzo all’oceano e una terribile tempesta li investe. Riescono ad atterrare, naufraghi del cielo, su un’isola sperduta e sono privi di armi, cibo, strumenti. Devono adattarsi all’ambiente ostile e sopravvivere grazie al loro ingegno mentre eventi misteriosi turbano le loro giornate. Dall’alto scruto la valle in cerca di nemici e penso che, forse, da centocinquant’anni, generazione dopo generazione, esploriamo la stessa isola. Esistono delle ricorrenze dell’immaginazione, oppure spirali di immagini ripetute, immagini ritrovate. Nella città a valle non vedo sagome ostili, allora mi soffermo sulle case, le auto parcheggiate, le fermate del bus e il supermercato aperto. Dove sono andati tutti? Scende la sera, qualcuno ha dimenticato accesi i fanali del fuoristrada: gli abitanti sono svaniti da poco. Cosa è accaduto? Ho chiesto ai ragazzi di immaginare storie: perché regna questo silenzio carico d’una vita che ancora palpita tra le cose? Hanno alzato le spalle: «Ma come, non conosce tutta la storia?». Poi hanno scosso la testa. Deve essere Lorenzo a darmi una spiegazione: «Volevo dirle che Fortnite ha una storia molto complessa. Fortnite è composto da sette universi, ogni universo ha assegnato un personaggio. Nel trailer della stagione due, capitolo uno, si poteva scorgere un albero con sopra incisi diversi segni: il segno più interessante si poteva osservare in basso a destra. Questo segno rappresentava tre omini stilizzati con quattro punti interrogativi intorno, a formare un cerchio. In mezzo al cerchio c’era un punto interrogativo gigante. Questo spiega che i tre omini erano i personaggi del vecchio Fortnite: il visitatore, lo scienziato e un altro che non conosco. Mentre i quattro punti interrogativi saranno i nuovi personaggi dei nuovi mondi che dovranno venire». Provo a interpretare le parole di Lorenzo ma qualcuno, da lontano, mi uccide. Se stai fermo per troppo tempo, qui, sei perduto.
«Mi trovo nella lobby iniziale del gioco e metto la mia unica skin che mi è stata regalata da un mio amico: è un personaggio che rappresenta una giocatrice di tennis. Di solito le skin si comprano nel negozio del gioco, ma io non le compro. Aspetto che si carica, ci vorrà poco. Ora si è caricato, sono pronta ad ammazzare tutti a una partita in singolo, ovvero io contro cento persone in tutto il mondo. Preferisco atterrare alla fine della mappa perché ci trovo meno persone. Abbiamo a disposizione trenta secondi per scendere dal bus, altri trenta per atterrare e raccogliere quante più cose possibili per sopravvivere ai nemici e alla tempesta. Atterro a Sabbie. È una specie di spiaggia con il mare. Atterro sopra una casetta con il tetto rosso e inizio a distruggerlo con l’unica arma che ho, ovvero il piccone. Così facendo acquisto del materiale per difendermi. Cliccherò “a” e poi “z” per fare dei muri. In questo caso muri di legno perché solo il legno sto trovando. Una volta distrutto il tetto, trovo un tesoro che luccica, lo apro e dentro ci trovo un pompa e un fucile d’assalto per sparare da lontano. Tutti e due però sono di colore verde, quindi non molto efficaci. Procurano poco danno all’avversario. Ora distruggo tutto ciò che trovo in quella casa: mobili, vasi, pavimenti. Distruggo anche una camera da letto molto carina. Esco dalla casa perché sento dei rumori. Oilloc’, tra tanti di loro proprio a me deve sparare? Vabbè. Mi procura dieci di danno, ma io lo sparo in fretta e fuori uno. Attorno a me ci sono altre casette con all’interno altri arredi. Ho trovato un’altra cassa, questa volta leggendaria, di colore argento. Dentro ci trovo le armi di un colore diverso, principalmente viola, che sono molto più efficaci di quelle verdi o blu. Quelle gialle poi sono proprio il top. Mi incammino verso le montagne, verso Parco Pacifico; qui ci trovo sempre un botto di gente. Mi avvicino a uno dei tanti edifici che trovo lì. E mi nascondo, ma qualcuno da dietro mi stava sparando così mi copro facendo qualche muro. Sono un po’ una frana a costruire, anche perché tendo a toccare tasti inutili. Comunque mi copro e sento che si avvicina, spacca il muro e io nel frattempo mi tengo pronta con il pompa. Il massimo di armi che posso avere sono cinque: ho un pompa, un assalto, un medikit e un fucile da cecchino viola, sempre trovato nella cassa leggendaria. Il cecchino è la mia arma preferita. Insomma ho l’essenziale per sopravvivere. Il nemico mi spacca il muro, ma io salto e miro alla faccia: così creo più danno rispetto al resto del corpo. Sparo due volte: uno mancato, l’altro giusto alla testa. Una volta ucciso, prendo tutto ciò che il nemico ha raccolto finora. Mi incammino verso la nuova zona sicura, la seconda. Da lontano vedo qualche edificio e quando capita delle pompe di benzina, dei ponti che collegano una montagna a un’altra. Eccoci qui, siamo quindici e la safe si è ristretta ancora. Mi incammino verso l’Agenzia, che è una vera e propria agenzia. Non so di cosa precisamente, ma c’è davvero tanta roba. Ci sono anche dei bot che non sono per niente buoni, anzi ti sparano appena ti vedono. Ne incontro cinque. Prendo il mio assalto e li sparo, papapapapapa! Muort’. Si vede proprio che sono bot: camminano a caso e non mirano bene e soprattutto non costruiscono per difendersi. Ora sento spari da lontano e siamo rimasti cinque di noi. Salgo sul grattacielo di questa agenzia, quindi formo delle scale. Salgo, salgo, saranno almeno quattro piani ed eccomi qui pronta per cecchinare. Quando prendo il fucile e mi metto al bordo del grattacielo, mi accorgo che in tre si stanno sparando tra loro. Ne approfitto e cecchino. Uno colpito! So’ troppo forte co’ cecchin’. Il secondo mi è stato stillato, mi è stato rubato da un altro nemico che probabile lo stava sparando. Un altro lo miro ma si muove in fretta, corre verso destra, quindi miro un po’ più avanti, sparo e baaam, via il secondo. Un nemico mi vede e inizia a spararmi. In tutto siamo tre, quindi o vinco, o vinco; altrimenti è la fine. Vedo che si avvicina, ma devo stare attenta perché non siamo gli unici rimasti e non posso spararlo senza preoccupazione. Come non detto, l’altro si trova in un cespuglio. Sparo col cecchino, ma perde solo un po’ di danno. Velocemente mi giro verso il primo nemico che nel frattempo sta arrivando verso di me. Ha una bella skin, quella che amo. È una ragazza di colore coi capelli castani e ha un top giallo con dei pantaloni gialli. La mia preferita, ma mai acquistata. Quasi quasi la risparmio. Col cazzo, ha iniziato a costruire a quaranta centimetri da me un grattacielo enorme! Io molto semplicemente sparo la base del grattacielo così tutte le costruzioni da lei fatte non si appoggiano da nessuna parte e scompaiono. Eeee baaam. Caduta, morta. Vado vicino al nemico ucciso facendo attenzione all’ultimo rimasto. Prendo tutto ciò che aveva e mi creo un piccolo grattacielo di legno creato da pareti, pavimenti e una scala. Vedo che mi mira da lontano con un cecchino, devo stare attenta. Mi faccio vedere per un attimo, mi cecchina ma mi sfiora. Adesso so che ha sprecato un colpo e per ricaricare il cecchino ci vuole sempre qualche secondo. Butto un razzo con il lanciarazzi preso dal nemico ucciso prima e subito dopo assalto e sparo il muro che l’avversario aveva creato per difendersi, così che il razzo non tocchi il muro che non crea danno, ma tocchi lui. Sparo colpi di assalto, eeeeh scelakabomber. Dico sempre così quando vinco. Finalmente morto. Ovvio, aveva perso un po’ di vita quando lo avevo cecchinato. E finisce così, con un mio balletto. Sì, perché ogni volta che vinco ballo. Sto facendo un ballo che si chiama “alza il tetto”, ci si muove abbassando le ginocchia leggermente e alzando le mani in segno di vittoria. So’ tropp’ fort’».
Anche su Fortnite passano le stagioni. L’isola adesso è cambiata, forse un cataclisma ha sconvolto il paesaggio. Il livello del mare si è alzato: le strade sono sommerse, case riposano sott’acqua e solo i rilievi montuosi e collinari affiorano dalle onde. Ora i combattimenti avvengono in un arcipelago apocalittico tra chiatte, passerelle sospese, fattorie incrostate di salino. Affiorano isolotti di rifiuti, cumuli di immondizia dove un giocatore può trovare povere armi, qualche munizione. Mi sembra che l’isola misteriosa dell’infanzia si sia trasformata in uno scenario adulto avvolto dalle ombre di un collasso. Mentre osservo un pescecane metallico che s’aggira lungo la costa, ricordo una discussione di mesi fa con Carlo e Rayan. Avevo chiesto loro quali fossero le sensazioni provate durante il gioco. Rayan: «Io all’inizio, tanto tempo fa, avevo sempre paura di essere ucciso e di ricominciare, verso la fine della partita non riuscivo più a controllarmi, e quindi la tensione mi prendeva e mi uccidevano. Invece in questi ultimi mesi mi sto accorgendo che l’importante è tenere il sangue freddo e giocarsela anche se sai di perdere». Era una paura piacevole o spiacevole? «Grazie alla paura, imparavo a concentrarmi; a causa della paura, però, perdevo. Ci provavo, anche se mi definivano scarso». E ti dava fastidio essere definito scarso: «No, perché adesso tutte le persone che mi definivano scarso, mi definiscono un giocatore professionista». E quali sono le sensazioni piacevoli adesso? «Gioco per divertimento, con i miei amici. Ogni giorno mi viene voglia di giocare e fare nuovi record nelle uccisioni, provare a fare più vittorie possibile». Anche Carlo mi ha raccontato di una certa euforia: «Quando gioco, non esiste più nulla. Siamo solo io e il gioco, siamo in sintonia. Questi giochi mi regalano una sensazione di pace, di isolamento positivo, perché se sono abbattuto, se sono alterato, con tre minuti di gioco ritrovo la serenità». Cosa c’è di piacevole nell’essere una cosa sola con il gioco? «Mi piace essere nel gioco perché tu schiacci un tasto e il personaggio fa questo, tu sei il padrone del gioco». E come funziona il mondo fuori dal gioco? «C’è una gerarchia. Sotto di tutti ci siamo noi poveri bambini costretti a studiare ogni giorno, ingobbiti sui libri. La vita è una gerarchia, perché non ti puoi ribellare ai tuoi genitori, invece nel gioco non hai bisogno di ribellarti, perché il personaggio agisce quando tu schiacci un tasto. È quello il bello». Ma nel nostro mondo tu decidi di muovere la mano destra, e questa si muove. Cosa cambia? «Nel gioco se sprechi un colpo a caso non succede niente; al massimo, se hai fortuna, becchi un nemico in testa, però, oltre a questo, non succede niente. Invece se tu fai questo nel mondo esterno, ci sono conseguenze». Una libertà senza responsabilità? «Dove tutti sono uguali. Non voglio dire che sono felice solo quando sono nel gioco. È diverso. Quando sto con i miei amici e non mi prendono in giro, oppure quando vado ad atletica e parlo con i miei amici, sono felice. La felicità non è solo confinata nel gioco. Anche, ma non solo». Ho chiesto a Rayan come si sente alla fine del gioco. «Il gioco non influisce nei miei sentimenti, cioè influisce fino a un certo punto. Qualche volta mi sento leggero, invece altre volte, quando non riesco a vincere, e arrivo secondo o nella top dieci, mi sento che potevo vincere, però non ho dato tutto. Non ho dato tutto l’impegno». È un gioco che richiede dedizione, avete anche un verbo: “traiardare”. «Sì, traiardare vuol dire dare il massimo. Riuscire a impegnarsi tanto che l’avversario non riesce a capirti, fare delle mosse per cui l’avversario non capisce, si confonde, e tu lo uccidi». Anche per Carlo l’impegno è la chiave del successo: «Se voglio vincere, devo impegnarmi; se no, non se ne fa niente. Io guardavo uno youtuber che giocava, e che gioca ancora, e ho visto un video di qualche anno fa e un video di adesso: è migliorato tantissimo. Se giochi, migliori; e più migliori, più fai le vittorie. Se sei distratto, se con una mano stai mangiando e con l’altra usi il joypad, un avversario ti fa fuori easy. Poi in questo gioco puoi usare quanti euro vuoi, perché si possono spendere i soldi della vita reale, ma non cambia nulla se spendi, perché nel gioco conta solo la bravura. Il gioco è il sogno americano: se lavora duro, lei avrà la sua villetta con il suo barbecue e non ci sono porte chiuse». E mi sono distratto, muoio colpito sopra un atollo di sporcizia, cumulo di rifiuti virtuali alla deriva.
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