Tutto sbagliato, o quasi. È la sintesi di questo Juve-Napoli. Il quasi, prima di tutto: una ripresa confortante dal punto di vista del gioco, dopo un mese con più ombre che luci, e le conferme di Chiriches e Diawara, che ha impressionato per fisicità (ma quella era cosa nota) e intelligenza tattica (ben vengano due mesi di panchina per i nuovi acquisti, se serve a catechizzarli in questo modo). A parte ciò, tutto sbagliato, perché il match spiattella davanti agli occhi non foderati di prosciutto tutti gli errori che il Napoli si trascina dietro da tempo e che vengono a galla come le frattaglie che fanno capolino tra la schiuma di un lavandino otturato.
Un errore grave lo commette Sarri, anche se il mister ne esce comunque bene, considerando il lavoro fatto con il materiale a disposizione e il miglioramento di alcuni calciatori che a lui devono tutto (Koulibaly, Albiol e Hysaj dovrebbero innalzargli un totem). E poi anche con la Juve alcune scelte importanti le azzecca, vedi Chiriches e Diawara. Ma il cambio di Insigne è un errore da matita blu. Da matita nera, anzi, se davvero, credendolo alle prese con i crampi, il mister l’ha tirato fuori senza nemmeno fargli una domanda. Nel momento di maggior pressione azzurra, poi, e per Giaccherini, il giocatore più sopravvalutato della storia del calcio italiano.
Non è la prima volta, quest’anno (a rosa finalmente ampia), che il mister toppa nella scelta degli uomini. Avrebbe potuto gettare nella mischia Sepe, per esempio, in qualche partita abbordabile (Crotone ed Empoli), davanti al momento-no di Reina, per poter progressivamente alternare i due portieri se lo spagnolo dovesse continuare la sua parabola discendente (colpa ancora più grave, in quanto originata dai cattivi rapporti tra il mister e il suo giovane numero dodici); avrebbe potuto inserire prima Mertens e Zielinski, nella partita con la Roma, o ordinare ai suoi di gestire il finale col Besiktas, piuttosto che gettarsi all’assalto dei turchi, portando a casa un punto che avrebbe voluto dire passaggio del turno. Ma il mister, per le nozze che celebra da due anni con troppi fichi secchi, è il meno colpevole.
Gli errori individuali di giocatori validi, talvolta ottimi, ma non pronti per una squadra che vuole vincere, quest’anno stanno pesando. Le papere di Reina, i dribbling sbagliati da Koulibaly, i retropassaggi di Jorginho, il rigore fallito da Insigne, l’isteria di Gabbiadini, le svirgolate di Ghoulam sono costate, in due mesi di stagione, già tanti punti. Difficile dire se prima questo non succedeva per maggiore fortuna o concentrazione. Ma, di fatto, giocando meglio della Juve, il Napoli ha perso perché ha un terzino sinistro inadeguato ai livelli cui cerca di competere. La Juve ha giocato peggio ma aveva in campo giocatori migliori. E nessuno juventino si è impegnato come l’algerino per far vincere gli avversari.
Qui, cominciano le colpe della società. Chi ha messo in mano questo materiale a Sarri ha l’onestà di dire che con questa rosa il Napoli non vincerà mai lo scudetto? Di ammettere che ha sostituito un centravanti da trentasei gol con un giovanotto vigoroso ma tecnicamente modesto e tatticamente non pronto? Che non esisteva una buona ragione per non vendere Gabbiadini e acquistare un secondo vero numero nove? Che sulla fascia sinistra abbiamo due terzini di cui uno è capace solo a correre in avanti e una volta su cinque a mettere un buon cross, ma ogni volta che è vicino alla propria area è un cataclisma, e l’altro è un ex calciatore con passo da cosacco sulla neve siberiana? Oppure che sulla destra, se non avessimo assistito alla resurrezione di Maggio (durerà?) non avremmo alcuna alternativa a un Hisay che ha iniziato la stagione in difficoltà? Come sempre, al mercato del Napoli manca il centesimo per apparare l’euro, quello sforzo economico per il salto di qualità, cosa che quest’anno fa ancora più male perché abbiamo davanti una Juve che, al di là dei risultati, è la più confusa e macchinosa degli ultimi anni.
Quello che più infastidisce, però, dopo la partita di sabato, è l’atteggiamento napoletani. «Siamo più forti», «giochiamo meglio di loro», «sono due anni che andiamo in casa loro a dargli lezione di calcio», «che sfortuna, hanno rubato, dovrebbero vergognarsi…», sono alcuni dei tormentoni con cui, tra social network, radio e tv, il tifoso napoletano cerca di consolarsi dopo l’ennesima sberla. Peccato che il Napoli non vince a Torino dal 2009, che nelle due ultime sfide giocate male la Juve abbia fatto sei punti e noi zero (con la prima ci ha vinto uno scudetto), che da cinque anni loro vincono il campionato e noi niente, che la finale di Champions noi ce la sogniamo. C’è davvero da essere contenti, considerando che nella storia del calcio la Pro Vercelli pluriscudettata ha un posto ben più rilevante degli incantevoli Napoli di Vinicio, gli spumeggianti Parma di Scala, le spettacolari squadre di Zeman, la perfetta macchina tattica messa su da Del Neri ai tempi del Chievo? Per il tifoso napoletano, felice di arrivare secondo, forse il risultato non è importante quanto il crogiolarsi in questa litania auto-celebrativa, restando a godersi lo spettacolo offerto dalla squadra-lungomare, senza portare a casa un risultato che non sia la Coppa Italia. Un atteggiamento in linea con la retorica identitaria, ma in fondo vittimista, di chi governa ma anche di chi vive la città in questi anni, un’identità da selfie che non valorizza e non migliora nulla, ma dipinge un quadretto inutile e di maniera, contro il quale chiunque proferisca parola è da considerare un nemico, un sabotatore o uno juventino. (riccardo rosa)
Leave a Reply