Due giorni fa è scomparso a 78 anni Andrea Geremicca, intellettuale, giornalista, tra i massimi esponenti del Pci a Napoli, ex assessore nelle giunte di Maurizio Valenzi, deputato e negli ultimi anni presidente della fondazione Mezzogiorno Europa. L’ho intervistato a casa sua, circa due anni fa, nell’ambito di un’inchiesta sull’attività politica di Antonio Bassolino prima che diventasse sindaco di Napoli e poi governatore della Campania. Un’inchiesta che non si è poi sviluppata come speravo. A differenza di altri, Andrea Geremicca non ebbe reticenze a parlare del suo rapporto con il più giovane compagno di partito. Lo fece in modo preciso e appassionato durante più di un’ora di conversazione. Riporto qui alcune delle sue riflessioni.
«Io e Antonio Bassolino ci conosciamo da quarant’anni. Siamo sempre stati in disaccordo. Non ricordo una vicenda politica seria in cui siamo stati d’accordo. Per cultura, per formazione politica siamo completamente diversi. Io appartengo a quella che comunemente si dice la destra amendoliana nel partito, il gruppo riformista di formazione liberal-democratica, crociana, poi definito migliorista. Dall’altra parte Bassolino, espressione di una cultura diciamo massimalista, più di sinistra. Lui è sempre stato considerato un irrequieto, poi naturalmente è stato anche molto integrato dentro al partito per cui alla fine nella storia complessiva era più integrato lui di me…
Il nostro rapporto è segnato da un lato da tanti episodi in cui questa diversità viene fuori, dall’altro non posso parlare di amicizia perché siamo generazioni diverse, ma di lealtà nei rapporti, di grande solidarietà. Durante la crisi del Manifesto alla fine degli anni Sessanta, da un lato avevi la linea maggioritaria in cui c’erano Geremicca e Napolitano, dall’altra Bassolino e tutto un gruppo di giovani quadri che militavano nel Manifesto e c’è stato questo scontro che per alcuni, certo non per Bassolino, ha significato anche l’estromissione dal partito. Ora, devo dire che già allora per me questa battaglia così dura era da considerare un momento di grande dibattito politico e ideologico. Io prima di andare nelle sezioni per scontrarmi con Bassolino e i suoi mi leggevo Lenin… Il nucleo storico che dirigeva il partito e vinse quella battaglia poi non escluse ma coinvolse i quadri impegnati nel Manifesto dentro al partito: Bassolino, Donise, Berardo Impegno diventano organici al nuovo gruppo dirigente. In questo senso, da allora comincia un contrasto tra queste due scuole di pensiero
Nella seconda metà degli anni Settanta una giunta minoritaria governa la città di Napoli, quella del sindaco Valenzi. Si era sempre alla mercé della Democrazia Cristiana, che votava in termini tecnici il bilancio e in questo modo ti teneva anche in ostaggio. Allora si apre nel partito un contrasto. Bassolino chiede che si concluda la vicenda Valenzi perché ritiene che logori il partito. Io ritenevo che non potevamo decidere di mollare la direzione della città per un tornaconto di partito. Ritenevo che eravamo “condannati a governare”. Su questo vincemmo noi, qualcuno dice che Bassolino poi andò a Roma perché fu battuto, ma la storia è un po’ più complicata. Lui andò a Roma perché era un quadro che cresceva… All’epoca del terrorismo io ero assessore, macchina blindata, giubbotto antiproiettile, la mia casa stava in tutte le piantine delle Brigate rosse. Era una vita d’inferno, ma in quei momenti ho sentito la solidarietà personale e fisica da parte di Bassolino e del gruppo dirigente del partito, noi che facevamo parte di quella giunta che Bassolino giudicava in modo critico… Poi nel 1980 c’è stato il terremoto. A quel punto il dibattito, il confronto è finito, ci siamo tutti rimboccati le maniche…
Un altro momento di contrasto è stato il commissariamento della federazione napoletana del Pci nel ‘93 e la nomina di Bassolino come commissario e poi, dopo pochi mesi, la sua candidatura a sindaco. Eravamo in piena Tangentopoli. C’era il segretario della federazione, Benito Visca, che pagava per delle cose che non riguardavano il partito, ma la Lega delle cooperative, e poi ci tengo a dirlo, lui è stato totalmente assolto in tribunale. Di fronte a questa situazione il centro del partito ritenne che ci volesse il commissario. Io proposi una soluzione meno traumatica, al limite che il commissario venisse da fuori, che non fosse una figura coinvolta nello scontro politico locale. Invece fu mandato Bassolino. In questo modo Occhetto, che era il segretario del partito, chiuse definitivamente i conti col vecchio gruppo dirigente amendoliano… Bassolino dopo pochi mesi si candidò a sindaco, presentandosi come il nuovo, costruendosi un’identità sulla negazione del suo passato. Anche in quel caso non fummo d’accordo. Ritenevamo che ci fossero altre figure che potevano rappresentare la figura esterna istituzionale mentre lui ricostruiva il partito. Bassolino fece questa scelta, anche in quel caso non per ambizione personale: lui riteneva che in quel momento per l’avvenire della sinistra e del partito, fosse decisivo vincere una battaglia elettorale e mantenere un presidio istituzionale, quindi si offrì in questa operazione, e nelle sue biografie dice: Sapevo che se avessimo perduto mi avrebbero spellato vivo. Bassolino ha questa caratteristica, che è stato capace di scommettere fino in fondo e di giocarsi tutto in certi momenti.
Ci fu una vittoria incredibile, insperata, ma da lì comincia da parte di Bassolino una concezione che io gli contesto ancora oggi. Era inevitabile che dopo il collasso dei partiti vi fosse un momento personale e lideristico. L’errore è stato non utilizzare questo momento per ricostituire un gruppo dirigente ma puntare sul partito personale. Appena una figura cresceva lui la liquidava. Al comune di Napoli Ada Becchi Collidà, membro di giunta, figura visibile evidente, Antonio Napoli, assessore, Vezio de Lucia, assessore, Barbieri, assessore… Lui ogni tanto affermava che non credeva nella democrazia plebiscitaria, ma in realtà ha usato il rapporto diretto con la città e ogni elemento di mediazione diventava un elemento di insicurezza e di offuscamento. Uno dei suoi più importanti sostenitori, Marone, ha detto: Bassolino ha avuto una grande intuizione, ha diretto la città “baipassando” la macchina amministrativa. Io sostengo che questo è uno dei suoi talloni di Achille, perché non si può gestire una città complessa in questo modo. Bassolino ha ritenuto che il rapporto con la società civile dovesse avvenire attraverso la cooptazione: tutta la politica delle consulenze… Da un lato ha voluto creare un sistema di potere, ma l’altra metà della verità è che lui attraverso le consulenze ha inglobato nel sistema istituzionale le forze della cultura, della società civile. Insomma, per capirci, la città si governa nel conflitto, ci deve essere un conflitto, non si può semplificare nel ruolo di una persona e di un’istituzione tutta la complessità sociale.
Siamo stati capaci, meno noi di lui e dei suoi, di cogliere le trasformazioni e la modernizzazione della società. Noi siamo stati al carro, lui l’ha cavalcata, compresi i limiti e le contraddizioni. Non voglio dire che il vincitore sia stato lui perché alle volte si vince e poi si perde. Questa modernizzazione non si è trasformata in innovazione sociale. Nessuno dei due ha vinto». (luca rossomando)
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