Testo e foto di Luca Mangiacotti
Dopo sette settimane di voto Narendra Modi si è confermato primo ministro dell’India e il suo partito induista e ultranazionalista Bharatiya Janata Party, BJP, con duecento quaranta seggi conquistati è primo partito nel parlamento indiano. Nonostante il terzo mandato consecutivo per Modi, primato finora riuscito solo al socialista Jawaharlal Nehru, il risultato delle urne è stato deludente per il BJP, che aspirava a conquistare i quattrocento seggi necessari per la maggioranza assoluta necessaria a modificare la Costituzione. Escono invece rafforzate le opposizioni unite nell’Alleanza nazionale indiana per lo sviluppo inclusivo (INDIA), guidata dal partito del Congresso. La coalizione, con i suoi duecento trentaquattro parlamentari, di cui novantanove del Congresso, esulta ora per il risultato.
L’esito delle urne rispecchia il clima politico di polarizzazione dei lunghi mesi di campagna elettorale e di voto. Il dibattito politico è stato costantemente accompagnato dai fatti giudiziari che hanno visto coinvolti i principali esponenti delle opposizioni che hanno acceso di nuovo l’attenzione sulla politicizzazione di banche, organismi investigativi e di controllo dello svolgimento delle elezioni.
Ha fatto molto discutere, ma non ha sorpreso, la scelta di Modi di personalizzare la campagna elettorale con una narrazione volta a ricordare i successi di questi dieci anni di governo accompagnati con toni mistici. Nel corso di un’intervista a Varanasi, città sacra hindu e circoscrizione in cui ha corso il premier, ha dichiarato: “Quando mia madre era viva, credevo di essere nato da lei. Ma dopo la sua morte, riflettendo sulle mie esperienze, mi sono convinto che è stato Dio ad avermi mandato. Questa energia non poteva provenire dal mio corpo biologico, mi è stata donata da Dio… Ogni volta che faccio qualcosa, credo che Dio mi stia guidando”.
Ad accompagnare il discorso mistico di Modi e del BJP, continui riferimenti alle minoranze musulmane additate come “infiltrate” e rifermenti all’inaugurazione del tempio dedicato alla divinità induista Ram ad Ayodhya, da dove Modi, nei panni di officiante, ha fatto partire la sua campagna elettorale il 22 gennaio. Sono state invece le opposizioni a parlare delle istanze reali che affliggono uno dei paesi più diseguali del mondo e a mettere in agenda riforme sociali da effettuare nel breve periodo, forme di difesa delle garanzie costituzionali per frenare la deriva autoritaria e tutele per le minoranze religiose e di casta. Nonostante l’eterogenea conformazione dell’Alleanza, i temi sono stati condivisi dalla maggioranza dei partiti coinvolti, con un contributo fondamentale dei partiti regionali.
La sproporzione tra i due schieramenti si avverte anche camminando per le strade delle città indiane. Quasi ovunque murales, gigantografie, locandine o cartonati grandezza uomo di Modi; nelle strade della capitale indiana i muri sono dipinti con fiori di loto, simbolo del partito, alternati alle affissioni di manifesti del primo ministro. Solo nel Bengala, stato in cui il nazionalismo culturale hindu fa fatica a radicarsi, l’egemonia simbolica del partito di governo lascia il posto ai simboli elettorali del Trinamool Congress, al governo dello stato dal 2011, e del Communist Party of India (Marxist), la cui eredità è ancora forte. In molti si soffermano a discutere davanti ai simboli mai mostrando in maniera troppo evidente pareri contrari al primo ministro. Succede spesso tra le minoranze che lo stato di paura porti al silenzio davanti alle discussioni appena si arrivano a toccare temi politici. Esporsi può significare subire violenze fisiche e burocratiche, come l’esclusione dai registri anagrafici.
In stati come il Kashmir fare politica è un mestiere difficile ma necessario. Il territorio conteso tra Pakistan e India è da cinque anni in uno stato di sospensione della democrazia, causato dall’annullamento delle garanzie di semi-autonomia avvenute con l’abrogazione dell’art. 370 della Costituzione nell’agosto 2019. La militarizzazione dei territori con lo stanziamento di oltre cinquecentomila unità dell’esercito è capillare. Le sparatorie sono all’ordine del giorno nonostante i proclami di vari esponenti della maggioranza che affermano che il Kashmir non è mai stato così sicuro come negli ultimi anni. Gli unici effetti tangibili della sostanziale colonizzazione dell’unico stato indiano a maggioranza di popolazione islamica sono gli arresti sommari di attivisti e giornalisti, negli angoli delle strade occupati da plotoni di poliziotti e dalla stretta sulle attività religiose. Lo sviluppo promesso è solo esproprio di terreni per favorire la costruzione di grandi opere per incentivare il turismo, settore i cui proventi vanno prevalentemente nelle tasche di gruppi immobiliaristi.
Spostandosi verso il nord-est del paese attraverso l’Uttar Pradesh la percezione nelle strade cambia molto. Lo stato governato dal BJP e guidato dal santone Yogi Adityanath, è da anni sede di sperimentazione delle strategie di progressiva riscrittura della storia e di espulsione delle comunità musulmane dai centri abitati. Le prove tecniche di eliminazione etnico-religiosa sono valse al primo ministro il soprannome di bulldozer baba, riferito alla consolidata pratica di demolire case appartenenti a oppositori politici o minoranze. Nello stato che fu avamposto della vittoria del BJP nel 2019, il dibattito è stato schiacciato completamente sulle questioni religiose, con l’inaugurazione del nuovo tempio dedicato al Dio Ram ad Ayodhya. Proprio qui il BJP ha perso il seggio, consegnando la vittoria nelle mani dell’opposizione. Il cambio di maggioranza è il risultato degli sforzi delle opposizioni nel consolidare una base elettorale costituita da membri di caste svantaggiate, dalit e musulmani.
Nel Bengala, stato del nord-est guidato dalla prima ministra Mamata Banjeree del Trinamool Congress, questo partito ha deciso di correre da solo nel suo stato-bastione, nonostante sia parte dell’alleanza INDIA a livello nazionale. La nuova legge sulla cittadinanza, approvata da Modi nel 2019 per escludere i migranti musulmani da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan, è stata uno dei temi di discussione principale. Abitanti musulmani e lavoratori migranti provenienti dal Bangladesh e dal Nepal hanno animato le discussioni dei leader politici e tra la popolazione. Nelle settimane che hanno preceduto il voto, tra le locandine del sindacato dei lavoratori ambulanti e nei comizi improvvisati per strada, l’indicazione comune era quella di salvare i propri vicini dall’espulsione dal paese. Anche la questione della montante disoccupazione, unita a inflazione e deindustrializzazione dell’area, ha tenuto banco nelle discussioni politiche. Nel distretto di Hoogly, nella periferia settentrionale di Calcutta, i segni della smobilitazione generale della manifattura si osservano nel susseguirsi di scheletri industriali. Molti tra gli abitanti colpiti dalla crisi hanno votato per il Trinamool Congress, che ha ottenuto più della metà dei seggi a disposizione in Bengala, sperando nei programmi di welfare promossi dal partito di Mamata Banjeree, delusi dal partito comunista indiano (marxista), al governo dello stato ininterrottamente dagli anni Settanta al 2011 e restii a votare per il BJP.
In conclusione, il risultato finale a livello nazionale è quello di una vittoria amara per Modi e il BJP, con il ritorno, dopo dieci anni, a un governo di coalizione che si scontra con un’opposizione solida, seppur eterogena. Il BJP esce certamente indebolito nella rappresentanza parlamentare ma il consenso è ancora diffuso, segno dell’enorme fiducia riposta nel partito e nel suo leader. Nella famiglia della destra hindu-nazionalista crescono però i malumori verso la centralizzazione del potere nelle mani di Modi e della sua cerchia ristretta, che lasciano presagire un periodo di tensioni.
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