Il 29 agosto del 2004 una manifestazione organizzata dai cittadini di Acerra che protestavano contro la costruzione dell’inceneritore più grande d’Europa, portò in piazza trentamila persone provenienti da tutta Italia. Il corteo fu duramente caricato dalle forze dell’ordine, ma ciò nonostante, o forse proprio per questo, quella giornata diventò un momento simbolico delle lotte per l’ambiente in Campania.
Pubblichiamo a seguire alcuni estratti dal capitolo 3. Le ceneri di Acerra, del libro Napoli a piena voce, annuario della redazione di Napoli Monitor edito nell’ottobre 2012 da Bruno Mondadori.
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Percorrendo di notte la carrozzabile che corre tra le campagne intorno Acerra è impossibile ignorarlo. Le luci rosse di segnalazione all’apice delle tre torri dei camini si stagliano nel buio campestre, e cento metri più sotto una costellazione di fari e bagliori circonda la struttura di estasi elettrica. Sembra una nave immobile in un mare nero, ma in realtà è la sfolgorante geometria di cavi, acciaio, cemento e turbine dell’inceneritore di rifiuti più grande d’Europa. Al suo interno, il fuoco brucia senza sosta a temperature che oscillano tra gli ottocento e i mille gradi. Le tre linee indipendenti che lo compongono sono tarate per smaltire ciascuna ventisette tonnellate di rifiuti l’ora, per un totale di millenovecentocinquanta al giorno e seicentomila l’anno. Secondo le specifiche tecniche descritte nel progetto finale, il calore ricavato dalla combustione, vaporizzando l’acqua contenuta in una caldaia, mette in moto una turbina che produce energia elettrica. Tale caratteristica fa dell’impianto un termovalorizzatore, capace, in teoria e a pieno regime, di produrre elettricità per i consumi annuali di circa duecentomila utenze domestiche.
[…] La zona è “area d’interesse strategico nazionale”, provvista di un plotone di soldati del battaglione San Marco di stanza in container rivestiti di teloni mimetici. Hanno l’ordine di non far fermare nessuno, di impedire riprese video e fotografie, e sono obbligati a pattugliare l’inceneritore e il deposito di migliaia di ecoballe accatastate su cento ettari di ex terreno agricolo. I contadini che coltivano i loro fondi all’ombra delle torri ci hanno fatto l’abitudine. Le poche auto di passaggio dirette alla campagna profonda o alla neonata “zona di sviluppo industriale” rallentano di fronte all’impianto.
[…] Il nucleo urbano di Acerra dista meno di un chilometro dalla contrada Pantano, sede del bruciatore di rifiuti. I circa sessantamila abitanti, per la maggior parte, cercano di non pensarci. In fondo non hanno alcuna potestà sulla macchina insediata nel loro territorio e affidata alla gestione di un’azienda bresciana, quindi perché preoccuparsi? Allo stesso modo, si prova a ignorare le tonnellate di rifiuti tossici, provenienti da industrie del nord Italia, seppellite nelle contrade Mulino Vecchio e Calabricito da una famiglia di imprenditori locali che adesso girano in Ferrari. I fuochi, quei roghi illegali di rifiuti nelle campagne che innalzano neri fumi nel cielo cristallino, anche in pieno giorno, è impossibile non vederli, non percepirne l’acre odore di chimico veleno, ma anche a questo ci si abitua. Negli ultimi anni, molte cose sono cambiate ad Acerra. Con l’immondizia sono arrivati i gabbiani, qui, in un territorio agricolo distante venti chilometri dal mare. Gli acerrani hanno appreso da riviste scientifiche straniere di abitare in un “triangolo della morte”, un luogo dove l’incidenza di tumori è agli stessi livelli di Seveso e Chernobyl, ma non per questo hanno smesso di lavorare, uscire, divertirsi, innamorarsi.
[…] Nella storia del progetto e della costruzione dell’inceneritore com’è stata raccontata all’Italia, gli acerrani hanno avuto la parte di fastidiosi comprimari, però alla fine buoni abbastanza da accettare le decisioni prese dal governo. La soluzione, il nodo fondamentale per risolvere la crisi dei rifiuti in Campania, sono loro, la loro città, il loro territorio, una volta rinomato per pomodori, fagioli e patate. Quello che non è stato raccontato è come per dieci anni l’identità di una comunità si sia strutturata intorno al rifiuto, inteso in una duplice accezione. Da un lato, a partire dall’immondizia diventata destino, molti degli abitanti hanno costruito la percezione di loro stessi e del luogo che abitano fondandola sugli scarti di cui per legge sono diventati i depositari. Nello stesso tempo, il rifiuto di questo stesso destino ha provocato uno scatto d’orgoglio, che ha spinto gli abitanti allo studio e alla riscoperta del territorio.
Franco Mennitto, giornalista e docente universitario
Lo studio di casa Mennitto è foderato di libri. Per guadagnarsi da vivere Franco salta da un incarico all’altro come giornalista e docente all’università. Un lavorare intermittente, da inseguire, nonostante i cinquant’anni di età. La sua passione è il suo paese, quello che abita da sempre. Raccoglie e rubrica dati sulla storia recente di Acerra, anima un’associazione per la promozione di eventi culturali in paese e si prende cura, insieme ad altri, del museo dedicato a Pulcinella. […] Nei dieci anni del movimento contro l’inceneritore di Acerra, Franco Mennitto è stato avanguardia pacifista e instancabile critico.
L’interesse per le questioni ambientali è nato quasi per caso. Una sera, era la fine del ’99, ci siamo ritrovati con un amico, Tommaso Esposito, e abbiamo saputo la notizia dell’inceneritore. Tutti ne parlavano come di una grossa opportunità, ma informazioni concrete non ne avevamo. Allora abbiamo cominciato a leggere. Erano i primi tempi di internet, abbiamo usato molto la rete, abbiamo trovato scritti di professori e scienziati che raccontavano le esperienze di altre zone. E abbiamo scoperto il ciclo dei rifiuti, il ruolo che hanno gli inceneritori all’interno di questo ciclo e soprattutto ci siamo messi in contatto con altri comitati che in Italia affrontavano le stesse questioni. Un giorno siamo partiti in due, siamo andati a Firenze. In un centro sociale si riunivano alcuni comitati, soprattutto della Toscana, noi eravamo gli unici “intrusi”. E lì è nata una rete, si può dire che tutto sia cominciato da lì.
Era un periodo abbastanza fecondo, in cui la gente rispondeva. Da una parte abbiamo informato, dall’altra siamo stati attenti a non escludere nessuno. Non tutti avevano le nostre idee, “no all’inceneritore ad Acerra e in altre zone”, non tutti ci seguivano quando abbiamo proposto la strategia “rifiuti zero”, però non abbiamo messo pregiudiziali. Abbiamo tenuto dentro partiti di destra e di sinistra, persone che la pensavano in maniera diversa, agricoltori, associazioni. È stato uno dei pochi momenti in cui c’era un problema che preoccupava tutti e che portava tutti in strada. Era impensabile, quando abbiamo cominciato, portare in strada migliaia di persone. Era impensabile vedere per un giorno tutti i negozi di Acerra chiusi per protesta. Era impensabile quello che abbiamo combinato!
In genere queste lotte partono da una elite, un gruppo ristretto, e poi si allargano alla popolazione. Ma ad Acerra la popolazione è scesa in strada da subito. È stato un periodo in cui potevi chiedere a chiunque che cos’è un ciclo dei rifiuti, come funziona un inceneritore, dove vanno le ceneri, le diossine, avrebbe risposto su tutto, quelle notizie erano diventate patrimonio della comunità.
Eravamo convincenti perché eravamo sinceri, inclusivi e informati. Tutti quelli che partecipavano ai cortei, anche con una certa frequenza, lo facevano in maniera convinta, decisa. Si percepiva la minaccia però si era coscienti, non era una minaccia oscura. Il nostro non era un rifiuto campanilistico, “non fatelo ad Acerra fatelo in un altro posto”, era un no motivato, portavamo un’alternativa. Nel 2001 io stesso, insieme a Rossano Ercolini, avevo presentato alla Regione Campania un piano alternativo per l’emergenza rifiuti, basato sulla raccolta differenziata. Non ci opponevamo solo all’inceneritore ma al piano complessivo dei rifiuti. Insomma, era un no abbastanza articolato, ma nonostante fosse un messaggio più complicato e più faticoso del semplice messaggio demagogico, “costruiamo l’inceneritore che ci distrugge i rifiuti”, la gente ci seguiva.
Gli strumenti di diffusione erano le nostre facce, perché eravamo un gruppo di persone credibili. Poi c’erano i classici strumenti del movimento: volantini, un giornale che si chiamava Il Castello, di cui ero il direttore;speakeraggio, andavamo nei quartieri, alcuni andavano casa per casa, citofono per citofono, cassetta delle lettere per cassetta delle lettere. È stato un lavoro capillare, non solo nel centro della città ma anche in periferia. Questo ha fatto crescere il movimento, ha fatto entrare altre persone. Abbiamo fatto enormi sacrifici per mettere insieme disoccupati organizzati e piccoli imprenditori, però attorno al nodo inceneritore ci siamo riusciti, con tutti i distinguo, con gli scazzi che ci sono stati, con tutto. A volte si perdeva il gruppo, poi si riacciuffava, però alla fine siamo riusciti a tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, Rifondazione comunista e Forza Italia. A rivederla ora, siamo stati capaci di non far diventare questa battaglia una battaglia di una parte, fosse anche la parte che secondo noi aveva più ragione. Noi eravamo per rifiuti zero e gli altri no? Non c’importava, c’era un tratto di strada che potevamo fare insieme e l’abbiamo fatto.
Con il commissariato di governo abbiamo cercato di interloquire. All’inizio c’era la destra, Rastrelli, poi venne un altro, il quale ci fece credere che l’inceneritore sarebbe stato bloccato e invece non era così, poi arrivò Bassolino. Con lui abbiamo interloquito per un certo periodo, nel primo incontro riuscimmo a ottenere uno studio epidemiologico, perché Bassolino ci disse: “Vabbè, facciamo uno studio su Acerra e vediamo l’inquinamento. Vi prometto che se i dati sono quelli che dite voi sono anche disponibile a…”. Poi abbiamo visto che erano tutte chiacchiere. Però, nonostante molti di noi fossero vicini alla parte politica di Bassolino, non abbiamo avuto esitazioni a denunciare le sue bugie. Ma soprattutto andavamo in qualsiasi posto. Mi ricordo che una volta partimmo in quattro e andammo a una festa dell’Unità ad Ascea Marina, una festa tematica, tutta sull’ambiente, dove parlava Bassolino. Andammo lì a distribuire volantini contro di lui. Ricordo bene il volantino perché lo feci io, con un Pinocchio sopra: le bugie di Bassolino, le sue promesse mai mantenute…
Hanno iniziato i carotaggi nel 2002. E in quel momento abbiamo deciso di occupare. Così il baricentro della lotta si è spostato direttamente sul terreno. Abbiamo portato il vescovo, abbiamo costruito un parco giochi per bambini proprio lì, perché l’idea che volevamo dare alla città era questa: dove lo Stato, la Regione, le banche, le lobby, volevano costruire uno strumento di morte noi volevamo portare la vita, rappresentata dai bambini. Abbiamo sistemato un campetto di calcio e si sono fatti dei tornei, dei concerti, era diventato un polo attrattivo per la città. La gente in qualche modo si è ricongiunta con la campagna.
Fin dal primo momento siamo stati blanditi con delle promesse. Ci dicevano: voi non vi rendete conto che l’inceneritore per Acerra sarà la gallina dalle uova d’oro, sia grazie ai risarcimenti che avrete dall’azienda, sia per le opere che verranno fatte, diventerete una città ricca… Noi non ci abbiamo mai creduto, perché sapevamo, dai contatti che avevamo con altre realtà in Italia, che queste promesse non erano mai state mantenute. Intanto, avevamo costituito proprio ad Acerra la “rete nazionale rifiuti zero”. Acerra era diventata la capitale nazionale della lotta contro inceneritori e discariche e per la raccolta differenziata. Purtroppo arrivammo anche sui giornali nazionali, dipinti come i camorristi, come gli arretrati, come quelli che non erano capaci di capire il vantaggio di avere questo impianto sul proprio territorio. Alle offerte di compensazione e ad altri tipi di offerte, anche personali che potevano essere allettanti, non solo abbiamo detto di no, ma le abbiamo denunciate. Abbiamo denunciato sia le offerte che i latori di queste offerte: Bassolino, le ditte… Non era che venivano e ti volevano comprare, magari ti offrivano delle cose, magari anche di entrare a far parte di un comitato di controllo…
Il nucleo del comitato era composto da una decina di persone. È stato sempre un gruppo a geometria variabile, si allargava, si restringeva. Pensa ai sindaci che abbiamo avuto in questo periodo. Siamo passati da un sindaco di Forza Italia a uno di Rifondazione, però entrambi erano con noi, con entrambi c’era la massima sintonia. Siamo stati capaci di portare la gente in piazza e i politici non hanno potuto fare altro che seguirci. Tanto è vero che nel momento in cui la gente in piazza, dopo il 29 agosto, non è scesa più, o ne è scesa di meno, i politici hanno preso le distanze, si sono chiusi negli uffici, hanno cominciato a trattare: vediamo le compensazioni, vediamo altre cose… Però nel momento in cui la gente stava in piazza, i politici dovevano starci.
Come accade in questi casi si trattava di un movimento di effervescenza, destinato a svanire, a calmarsi, a squagliarsi pian piano, altrimenti non sarebbe stato più un movimento ma qualcos’altro, un’istituzione. E questo epilogo è stato soprattutto la manifestazione del 29 agosto 2004. Perché lì si è raggiunto il massimo. Nel 2004 erano ormai un paio d’anni che occupavamo il terreno. La tensione non può essere sempre ai massimi livelli, e dopo un po’ comincia a scemare. Non dimentichiamo che eravamo tutti volontari, non eravamo rivoluzionari di professione, ognuno di noi aveva un lavoro, una famiglia, altri interessi.
Il 17 agosto 2004 ci si domandava: vengono o non vengono? Noi eravamo comunque sull’attenti. Io mi ero sentito con l’allora senatore Tommaso Sodano, il quale mi aveva detto: “Non ti preoccupare è tutto tranquillo, non ci sono problemi”. Poi la mattina del giorno dopo alle cinque mi chiamano alcune persone che si erano trovate a passare di là e mi dicono che era successa la rivoluzione, tutto era stato occupato e c’era la polizia. Io mi metto in macchina, vado a vedere e inizio a fare un giro di telefonate, perché la maggior parte delle persone stavano fuori, in vacanza, era ferragosto – non a caso era stato fatto in quel periodo; però, nonostante questo, riusciamo a mobilitare un bel numero di manifestanti che si portano lì al Pantano e con un’azione di aggiramento riusciamo addirittura a penetrare nel cantiere e a occuparlo. A quel punto chiediamo che i lavori siano fermati. Intanto la polizia durante la notte aveva sbaraccato tutto: c’era un frutteto di albicocche che era stato sradicato, i palchi, le bancarelle, tutto levato. Noi occupiamo il terreno, blocchiamo i mezzi che stavano rivoltando la terra, c’è un breve dialogo con la questura per cercare di fermare i lavori, però dalla questura arriva il no, bisogna andare avanti. A questo punto una ventina di persone vengono arrestate. Veniamo accusati di interruzione di attività di pubblica utilità, occupazione di suolo privato e resistenza a pubblico ufficiale. Tra queste persone c’era mezza giunta comunale e il sindaco con la fascia, e veniamo portati tutti in questura come dei criminali. I lavori continuano, allora noi occupiamo le zone limitrofe, ci mettiamo con le tende lì vicino, e decidiamo di convocare questa grande manifestazione per il 29 agosto.
Ancora oggi mi chiedo come abbiamo fatto a portare tutta quella gente in piazza. Io pensavo, finora abbiamo detto alla gente che l’inceneritore non c’è e non ci sarà, adesso l’inceneritore è partito – si vedevano la polizia e gli operai nel cantiere –, chi vuoi che scenda in piazza a questo punto? Quel giorno ospitavo dei rappresentanti della rete nazionale che venivano dalla Toscana per partecipare alla manifestazione. Quando uscimmo di casa, diretti verso la piazza, c’erano intorno a noi centinaia di persone, sembrava la processione del venerdì santo… È stata l’ultima risposta, ma il paese ha risposto veramente, dopo tutte queste battaglie durate anni, ha risposto contro ogni aspettativa. Trentamila persone per una città di cinquantamila, significa che il sessanta per cento degli acerrani stavano in piazza. È stata una giornata storica, però purtroppo una giornata disgraziata per come siamo stati trattati.
Il giorno prima della manifestazione eravamo stati al bivio del Pantano e avevamo pulito, spazzato per terra, perché lì si bivaccava fino alla sera precedente, c’era stato un concerto e c’erano rifiuti e bottiglie di vetro. Pulimmo tutto proprio per evitare che potesse succedere che magari qualcuno prendesse una bottiglia e la lanciasse. L’idea era quella di arrivare al Pantano con il corteo e di chiedere che una delegazione potesse entrare nel cantiere per appropriarsene in modo simbolico. Purtroppo devo dire che non tutti erano di questa idea. Io non so quello che è successo davanti, perché stavo più indietro nel corteo. Mi hanno detto di ragazzi che stavano sui motorini, che lanciavano oggetti verso la polizia, qualcuno li ha individuati come ultras, gente che magari è contro la divisa indipendentemente da tutto. Resta il fatto che questi potevano essere isolati, forse qualcuno li ha usati come detonatore. Ricordo che un camion dei Giovani comunisti è arrivato nel piazzale e si è girato, proprio perché noi pensavamo di iniziare un comizio, un’assemblea. Sono salito sul camion e in quel momento è partito un lacrimogeno, c’è stato il fuggi fuggi… Era una manifestazione con tantissime donne, bambini, persone che in genere non vanno ai cortei, gente che non era attrezzata per fare a mazzate, che le mazzate le ha prese ed è scappata. Era gente comune, a cominciare dalla mia famiglia, non preparata né fisicamente, né mentalmente per fare a botte. Noi abbiamo fatto decine di manifestazioni: mai un vetro rotto, mai un atto di violenza, mai. Forse l’atto più violento è stato l’occupazione dei binari. Per cui questa frangia che ha dato inizio agli scontri non faceva parte del movimento. E c’è stato magari chi, dall’altra parte, ha lasciato mano libera a questi in modo da poter sciogliere la manifestazione e far finire tutto in quel modo. E quella manifestazione non meritava di finire così. Lì c’è stato il punto di svolta: le tante famiglie, le tante persone che pensavano di stare dalla parte del giusto, nel momento in cui si sono viste attaccate come terroristi, come camorristi, hanno avuto paura. A questo punto la cosa è andata scemando. Diceva un amico, siamo stati bombardati. Alla fine, da lotta di popolo si è tornati a lotta d’elite, nel senso che poche persone sono rimaste, nonostante questa città sia sempre più convinta che l’inceneritore sia una iattura. E se qualcuno aveva intenzione di far finire la manifestazione in quel modo per far tornare la gente nelle case, c’è riuscito.
Quando la gente è tornata nelle case, obbligata da manganelli, lacrimogeni e altro, è cominciata quella che qualcuno ha definito la fase delle doglianze. Il lamentarsi. Pian piano ci siamo allontanati dal Pantano, ma non ci siamo mai arresi. Dopo il 29 agosto si è rafforzato il rapporto con gli altri movimenti, perché nel frattempo la crisi dei rifiuti non è stata risolta dall’inceneritore, c’è stato bisogno di scavare in altre zone della Campania alla ricerca di discariche e quindi se il problema prima era solo di Acerra, poi è diventato di Terzigno, Chiaiano, Pianura. Di volta in volta sono nati comitati, e noi eravamo lì con loro, perché convinti che questo sia un problema che non si risolve in modo localistico, ma soltanto mettendo in rete le esperienze. Prima nessun politico importante ci appoggiava. L’inceneritore era per tutti una macchina magica che distruggeva i rifiuti: tu mettevi i rifiuti là dentro e quelli sparivano, che bisogno c’era di ridurre e riciclare? Oggi il sindaco di Napoli parla di raccolta differenziata e di no all’inceneritore…
Le battaglie si vincono e si perdono, però ci sono diversi modi di perdere. Io penso che noi abbiamo perso nel modo più onorevole possibile. Quando siamo stati arrestati quel giorno, il 17 agosto 2004, siamo stati portati in questura come dei ladri e denunciati; in seguito, siamo stati assolti e nemmeno rinviati a giudizio perché il fatto non sussisteva. Il giudice istruttore disse che la nostra reazione era più che giustificata. Chi ci accusava di essere contigui alla camorra, oggi è sotto inchiesta. Anche questo è importante, noi siamo qui a testa alta e piede libero, loro non più a testa alta e stanno a piede libero solo perché esiste la prescrizione, altrimenti sarebbero tutti in galera.
Virginia Petrellese, architetto e insegnante
Virginia è una madre e un architetto sulla sessantina. Modesta, dallo sguardo sereno, s’infervora quando cerca risposte che non trova. È passata da una vita appartata alla militanza per il paese durante gli eventi della lotta. Dopo il 29 agosto, ha fondato con altre il movimento delle donne del 29 agosto, che tuttora porta testimonianza dei fatti di Acerra in assemblee pubbliche e manifestazioni. Nel suo studio ha archiviato un’intera libreria di documenti sulle questioni ambientali in Campania, a disposizione di storici e studiosi. Ciò che la tiene più impegnata negli ultimi tempi è il mantenimento della rete nazionale di mutuo appoggio tra i gruppi che in Italia lottano per la salvaguardia dei territori.
Il mio coinvolgimento all’inizio è stato individuale. Sapevo che si erano formati dei comitati contro l’inceneritore però non avevo esperienza, non conoscevo gli effetti nocivi, le conseguenze che avrebbe portato sul nostro territorio. Io facevo l’architetto, l’insegnante, ero chiusa in un mondo un po’ circoscritto: la famiglia, il lavoro… C’è stata l’apertura, ho cominciato a guardare all’ambiente, alla salute con occhi diversi e ho acquisito maggiori informazioni. Il contributo grosso l’hanno dato i comitati che si erano costituiti in Toscana, non a caso loro vedevano nella lotta di Acerra una possibilità di vittoria contro gli inceneritori, l’inizio di una battaglia che poteva crescere.
Il 29 agosto parteciparono anche i politici e la Chiesa. Si fece questa enorme manifestazione, repressa in quel modo, e da allora la popolazione si è ritirata, avvilita, delusa. I partiti hanno iniziato a fare compromessi. La Chiesa è stata fatta ritirare dai vertici ecclesiastici, un cui rappresentante è venuto ad Acerra e ha detto al vescovo di farsi i fatti propri. Per cui da quel momento il vescovo ha dovuto tacere. Non ha più partecipato. Ha detto che lui aveva l’obbligo di obbedienza. Le banche vaticane hanno finanziato anche loro questo progetto dell’inceneritore. Hanno investito quattrocentocinquanta milioni di euro, anticipando i soldi, sicuri che sarebbero rientrati quando avrebbero bruciato le balle di immondizia. Tutte le balle stanno ancora sul territorio perché devono essere bruciate.
Iniziammo a renderci conto del problema della pastorizia. I pastori denunciavano già dal ’95 l’inquinamento causato dagli scarichi della Montefibre. Io sono stata per un anno assessore comunale e questi pastori venivano sempre in municipio dicendo che le pecore erano malate. Ma la popolazione non è mai stata vicina a loro. Si vedeva la protesta come una strumentalizzazione per avere soldi. Non ci siamo mai resi conto che queste pecore si ammalavano per l’insalubrità dell’ambiente. Se nascevano deformi e morivano, poteva esserci una piccola percentuale di colpa dei pastori ma la causa maggiore doveva essere l’inquinamento. Invitammo i medici, facemmo convegni, fornimmo conoscenze più approfondite alla popolazione.
Acerra è uno dei comuni della provincia di Napoli con maggiore terreno agricolo. C’è stato un po’ di allarmismo, che i sindaci hanno cercato di placare facendosi vedere mentre mangiavano il cavolo, l’insalata, però i pozzi inquinati c’erano, le pecore erano morte! Come è possibile che alle pecore si dà il divieto di pascolo e ai terreni non si dà il divieto di coltivazione? Una mattina l’Asl si andò a prendere le pecore a centinaia, ammassate come immondizia, morte perché c’era la diossina nei terreni, causata da anni di scarichi abusivi della fabbrica chimica Montefibre. Ci fu anche un’ordinanza ministeriale in cui si diceva che Acerra era disastrata a causa della diossina.
Diedero mandato al sindaco, ma non si fece niente, e alla fine, decaduto il decreto, la diossina secondo loro è sparita come per magia… Mio marito si fece fare delle analisi del sangue apposite per valutare gli inquinanti nell’organismo, insieme ad altre sette persone. Analisi a proprie spese, millecinquecento euro, mandate in due centri diversi, uno in Canada e l’altro vicino Venezia. Dai risultati sono usciti metalli, alluminio, piombo… Nel corpo di mio marito, che non ha mai lavorato in una fabbrica, che fa l’architetto e non ha contatti con materiali inquinanti, sono uscite queste cose. Quindi non era vero che stavamo bene.
Quando è venuta in Italia la delegazione della Commissione europea, nel giugno 2010, è andata in tutti i siti della Campania, anche all’inceneritore, e si sono accorti che la caldaia era scoppiata, mentre i gestori dicevano che stava in manutenzione. La delegazione ha fatto sia sull’inceneritore sia sulle discariche una relazione molto negativa, tanto che hanno bloccato i fondi. Ancora più importante, hanno rilevato la mancanza di partecipazione, il fatto che a presidiare l’inceneritore ci sia l’esercito e che ci vogliano dei permessi per entrare nelle cave. Perché tutta questa segretezza? Alla fine dei lavori, la delegazione europea ha fatto un incontro con i comitati a Benevento, lì è stata la prima volta che un’istituzione, per di più europea, ci ha dato ascolto.
Noi, come comitato delle donne, abbiamo cercato di realizzare qualcosa, quando abbiamo visto che niente si muoveva. C’eravamo incontrate sul sito del Pantano, era il 2007. Il venerdì successivo, 16 giugno, era previsto il giorno della raccolta differenziata a livello nazionale. Eravamo state alla “Erreplast”, una fabbrica di Gricignano che ricicla plastica e che aveva mancanza di materiale, stavano per mandare in cassa integrazione gli operai perché non avevano la materia prima, con paesi che sono seppelliti dalla plastica…
Visitammo la fabbrica e tutto era pulito e funzionante. Nello stabilimento selezionavano le bottiglie con dei laser che riuscivano a distinguere i colori, poi facevano i maglioni e le coperte con i pet. Allora pensammo di farli venire ad Acerra per conferirgli la plastica. Li chiamammo, ma dissero che dovevano essere invitati dal sindaco, perché i rifiuti nel momento in cui escono dalle case sono del Comune. Allora chiedemmo al Comune di portare gli autocompattatori in piazza in modo da conferire noi direttamente alla ditta. E così ogni venerdì pomeriggio ci facevano trovare in piazza i camion per la carta e la plastica. Avvisammo la gente con i manifesti, e pensavamo che sarebbero venute poche persone. Invece, una marea di macchine… Il cittadino acerrano allora era molto responsabile, tutti portarono una quantità enorme di materiale. Il giorno dopo, il sabato, i camion del Comune li portavano al deposito che sta a Caivano, al sito di trasferenza. Un’amica li seguì, perché pensavamo: noi facciamo tutta questa fatica e poi magari ce la portano in discarica. Ma la destinazione era giusta e facevano anche le pesate, conservo ancora oggi tutte le pesate. La gente ci chiedeva, venite anche venerdì prossimo?
E così nacque, quasi per caso, l’appuntamento settimanale. Il Comune mise anche dei manifesti. Alla fine una piazza non bastava più e facemmo due piazze. Poi un’altra ancora verso la chiesa nuova. I siti diventarono quattro o cinque, due volte a settimana. E per quasi due anni andò avanti e la gente veniva sempre di più. Poi però la gente cominciò a portare la roba anche di mattina, e il Comune se la prendeva con noi. Diventò ingestibile. Cercammo di avvisare, di prendere contromisure, ci mettemmo noi a raccogliere la roba… Cosa non abbiamo fatto! E poi dissero che comunque doveva partire la raccolta differenziata del Comune, e allora ci fermammo. Sono passati due anni, adesso sembra che stia iniziando davvero, alcune amiche mi dicono che in certe zone di Acerra è iniziata. Figurati che di questa esperienza ne parlarono anche i giornali. Ci chiamarono a Napoli per sapere come avevamo fatto. E noi raccontavamo. Ho ancora tutti i documenti, tonnellate di carta e plastica sottratte alle discariche. (salvatore de rosa)
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