Salendo verso il villaggio principale della Merced de Buenos Aires si ha l’impressione visiva di entrare in una zona di conflitto. Non tanto per i trentatré chilometri di strada sterrata che sale in mezzo alla selva, unico modo di raggiungere l’abitato, quanto per le guardie private armate a difesa degli accampamenti della multinazionale mineraria australiana Hanrine, per la strada chiusa dalla polizia giù a valle e per il posto di blocco su in cima, all’ingresso del villaggio. Dicono che è per la protezione della comunità dai cercatori d’oro illegali, ma la realtà è che a Buenos Aires il popolo campesino ha alzato la testa contro la prepotenza delle compagnie estrattive, sia legali che illegali, ha fondato il suo movimento, il BUPROE (Bonarences Unidos Protegiendo el Ecosistema), e ha iniziato una resistenza incessante in difesa del territorio.
È la prima tappa dentro una comunità che facciamo come Carovana sui conflitti ambientali, un piccolo progetto di conoscenza, solidarietà e autoformazione in Ecuador che abbiamo messo in piedi in poco tempo, promosso da attivisti e attiviste di Roma e dintorni. Dopo essere stati a Quito un paio di giorni, dove abbiamo avuto un quadro generale della situazione nel paese grazie all’incontro con alcune accademiche e intellettuali, ci siamo diretti verso Imbabura, provincia montuosa a nord della capitale. Ad accompagnarci ci sono ragazze e ragazzi dei Corpi civili di pace, oltre alla preziosa presenza dei tecnici del Grupo Social FEPP, fondazione con una storia e un ruolo centrale in Ecuador sul tema del contrasto all’esclusione sociale. È proprio uno di loro a introdurci a una figura chiave della lotta antiminera in questa provincia.
Lucia Chicaiza ha ventinove anni, da sempre defensora del BUPROE. È stata candidata alla carica di presidente del governo autonomo decentralizzato di Buenos Aires, provincia di Imbabura. Ha vinto e oggi governa la giunta parrocchiale, il livello minimo di prossimità nell’ordinamento territoriale dopo la Costituzione del 2008. Quella che noi chiameremmo sindaca, si considera uno strumento in più in mano al suo popolo nella lotta contro le miniere; oggi frequenta riunioni dove siede al tavolo con ministri e governatori, ogni volta con un obiettivo, l’unico punto del suo programma elettorale: liberare Buenos Aires dallo sfruttamento che devasta il paradiso terrestre nel quale la sua gente vive, lavora la campagna e alleva le bellissime vacche frisone nelle rigogliose fincas.
La vocazione produttiva di questo popolo fiero di essere contadino, di vestirsi, parlare e lottare da contadino, è messa a repentaglio da una struttura reticolare a difesa dell’estrazione d’oro. Minacce di morte, attacchi mediatici, diffamazioni di ogni sorta arrivano nei confronti di Lucia e della sua gente da parte della cupola estrattivista, con l’appoggio di media, politici, polizia e giudici collusi. La comunità conta circa sessanta persone con denunce a carico, comprese le donne più anziane. La presidenta ci racconta che l’impresa mineraria prova a corrompere la gente del posto, offrendo piccole infrastrutture in cambio di una pacificazione del conflitto. Lucia risponde che qui governa lei, quindi alle infrastrutture ci pensa lei con l’autogestione della comunità, con le mingas (azioni di lavoro comunitario e collettivo), come si usa da queste parti. Che ce ne facciamo, ci spiega, di una strada nuova se abbiamo l’acqua inquinata?
Chiacchieriamo un’ora buona ai margini del campo sportivo, mentre i compagni del BUPROE aggiustano un’altalena ricavata da vecchi pneumatici sui quali sono riprodotti artigianalmente personaggi dei cartoni animati. Prima di pranzo ci portano dentro la sede che il movimento sta costruendo su un terreno acquistato da un privato e sottratto alle attività collaterali alla miniera. Intorno a un fuoco spento, che ogni notte si riaccende per le riunioni del movimento, ascoltiamo e ragioniamo insieme ai defensores e alla loro presidenta.
Se al villaggio della Merced de Buenos Aires non si accede senza passare per i controlli di polizia, qualche chilometro più a sud, in mezzo alle stupende montagne del subtropico andino, al villaggio di Cahuasquì non si entra senza passare dal picchetto della comunità. Una catena rudimentale, una bandiera logora, un fuoco e un accampamento bloccano la strada che collega il villaggio con le valli dove le imprese minerarie hanno ottenuto le concessioni per estrarre oro e rame. Le multinazionali canadesi e cilene stanno valutando se conviene loro continuare a scavare quassù, mentre la popolazione organizzata nel COVICA (Conservación de la Vida de Cahuasqui) non ha intenzione di farsi trovare impreparata e vuole costituire un elemento di deterrenza.
«Da qui non passa nessun uomo né mezzo dell’impresa – ci dice con voce ferma Edwin, uno dei leader del movimento –. E se verranno con i militari, ci troveranno a combattere». Anche Cahuasquì ha eletto dalle fila della resistenza antiminera il presidente del governo autonomo locale, proprio come a Buenos Aires, perché anche da questa parte della montagna nessuno strumento viene lasciato inutilizzato. Tant’è che proprio qui familiarizziamo con un terzo fronte tipico delle lotte ambientali in questa parte di Ecuador: la comunità che si organizza per contrapporre un’alternativa economica all’estrazione mineraria.
Durante la carovana abbiamo conosciuto diverse esperienze di economia popolare organizzata, nate proprio dalla lotta. A Cahuasquì è sorta, per esempio, un’impresa familiare che ha riconvertito autonomamente la produzione in agricoltura organica, seminando e lavorando erbe aromatiche e medicinali, oltre che un ottimo caffè. Altre realtà stanno seguendo l’esempio e oggi il negozio a ridosso del presidio ha iniziato a vendere i prodotti di altre comunità – soprattutto quelle afro-discendenti, particolarmente impoverite.
Un importante esempio di economia alternativa come arma di resistenza, nella provincia di Imbabura, è quello del leggendario consorzio Toisan, nella valle di Intag. Raggiungere la valle dalla città di Ibarra significa salire sulle montagne che declinano verso la regione costiera, per poi scendere in una gola dove quasi sempre si incastrano le nuvole che formano come un tappo all’ingresso della valle. Arriviamo in una giornata di sole, attraversiamo la barriera di denso vapore che dà il nome alla foresta neblina e ci ritroviamo nel villaggio di Apuela, dove c’è la sede del consorzio che raggruppa dodici associazioni, comitati e produttori familiari della valle. La lotta contro le miniere d’oro e di rame qui ha una storia più antica, dal momento che la zona è stata interessata dall’estrazione fin dal principio degli anni Novanta.
Nasce in quegli anni la Organización para el Desarrollo de Intag, dove la comunità locale, anche grazie all’aiuto di alcuni attivisti europei, si organizza contro la deforestazione, la distruzione del suolo e la contaminazione dell’acqua, incontrando però una dura repressione militare e una persecuzione aggressiva. Il conflitto è tesissimo in valle, dove quasi il sessanta per cento di territorio è coperto da concessioni minerarie. Da quell’esperienza prende vita il consorzio Toisan, che apre appunto un nuovo fronte di lotta: quello produttivo. Qui, come altrove, le miniere hanno comprato l’appoggio di gran parte dei media e della politica, che insistono sulla creazione di posti di lavoro (in realtà assai pochi per le comunità) e di infrastrutture (sempre e solo al servizio dei mezzi delle imprese). La battaglia comunicativa è fondamentale, anche per questo le comunità hanno iniziato a contrattaccare sul terreno della creazione di valore, di benessere, di risorse alternative ai metodi dell’estrattivismo.
A Intag il consorzio produce caffè, fagioli, cacao e prodotti cosmetici, trasforma il platano in ottime chifles biologiche. Si sta inoltre immaginando un sistema di produzione energetica alternativo, incentrato sull’uso comunitario, che richieda un utilizzo minimo di metalli. Per questo l’idea del consorzio è orientata sull’idroelettrico, con micro-impianti e un uso rispettoso delle acque sacre della valle.
In questa provincia, infine, molte comunità sono state invase dai cercatori d’oro illegali, locali ma anche colombiani e venezuelani. Gente non certo povera, spesso senza scrupoli, che nelle comunità ha portato violenza e narcotraffico. Dalla Merced de Buenos Aires sono stati cacciati dopo aver causato molti problemi, ma ancora oggi stanno accampati vicino alle miniere, dove le imprese forniscono loro viveri e beni di prima necessità, come fosse un indotto illecito gestito direttamente dalla multinazionale. Spesso, ci dicono i residenti, gli illegali arrivano prima e portano caos nelle comunità, così che l’arrivo dell’impresa “legale” viene visto come una benedizione, l’ingannevole ritorno a una situazione d’ordine.
Nel frattempo, in tutta la provincia di Imbabura, arrivano a migliaia i migranti venezuelani. Non spudorati cercatori d’oro, ma gente affamata in cerca di lavoro. Li abbiamo visti camminare lungo la Panamericana, vestiti letteralmente di stracci, scarpe logore, pelle e ossa. Alcuni si fermano a lavorare qui come braccianti. Nella Cahuasquì in lotta, chiediamo al negoziante di erbe biologiche cosa ne pensa. Ci risponde che loro coi venezuelani ci lavorano nelle piantagioni, spalla a spalla: sono lavoratori, brava gente che si spacca la schiena e qui i lavoratori sono sempre i benvenuti. Sebbene gran parte della politica locale li chiama invasori per raccattare qualche voto, sebbene la stessa politica sostenga il mito delle imprese minerarie che portano lavoro mentre i migranti lo tolgono, qua nessuno ci casca. Gli unici invasori sono le miniere. (lorenzo natella)
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