8 luglio 2019. «Lulu – scrive Ajar –, on est à la wilaya».
Ajar è una ragazza di ventiquattro anni, originaria di Ksar el Kbir, un comune rurale a poco più di cento chilometri a sud di Tangeri; si è trasferita in città per continuare i suoi studi e abita a casa della sorella Amina, operaia in una delle tante fabbriche tessili situate nelle altrettanto numerose aree industriali della regione nord del Marocco. Ho conosciuto Ajar e Amina nel novembre 2016. Assieme a un gruppo di trenta donne, protestavano davanti la wilaya, la sede regionale, per ottenere dei permessi edili su terreni di proprietà. La lotta era iniziata due anni prima e aveva ripreso forza in seguito al discorso del re Mohamed VI per l’inaugurazione delle attività parlamentari, il 14 ottobre 2016. «Lo scopo di tutte le istituzioni – diceva il re – è di essere al servizio del cittadino. Se non ci riescono, sono inutili e non hanno alcuna ragion d’essere […] Senza cittadini, nessuna amministrazione».
Cinquanta metri quadri
Il filo della lotta di Ajar e Amina è la terra, il suo valore, il suo uso. L’accaparramento delle terre, in Marocco, ha avuto diverse fasi: da una tradizione di terre collettive, proprietà di natura comunitaria riconosciuta secondo consuetudine e protetta da strumenti legislativi quali il dahir del 1919, che le definiva proprietà inalienabili, negli anni Novanta ha attraversato un processo di espropriazione e privatizzazione sotto la pressione dell’espansione urbanistica e demografica, nonché dei progetti turistici e immobiliari.
Le narrazioni delle donne s’incrociano, si sovrappongono. Amina è operaia di fabbrica, come suo marito, come il marito della sorella e i mariti della maggior parte delle donne impegnate nella lotta. Molte provengono dalle zone rurali, abitano i quartieri popolari e sono state coinvolte nel difficoltoso processo di regolarizzazione degli insediamenti sorti alla periferia di una città in vertiginosa espansione come Tangeri, che oggi conta più di un milione di abitanti. Nel 1971 non arrivavano a duecentomila.
L’oggetto della contesa sono le autorizzazioni per la costruzione di case su parcelle di terreno di circa cinquanta metri quadri. A fronte di autorizzazioni milionarie sulla costa o per la realizzazione di faraonici progetti infrastrutturali, ottenere le concessioni edili su parcelle territoriali a Sidi Driss, quartiere popolare distante sette chilometri dal centro di Tangeri, è un’impresa ardua. Le costruzioni degli immobili sono bloccate in attesa della determinazione d’uso dei terreni da parte dell’amministrazione locale. La zona, infatti, è divenuta d’interesse strategico e da destinare alla realizzazione di opere di pubblico interesse.
Si potrebbe allora scavare nei processi di lottizzazione di questi terreni, che fino a qualche anno fa non rientravano nel perimetro urbano e non erano dunque compresi nella pianificazione gestita dall’Agenzia Urbana. La loro progressiva annessione ha comportato una serie di vertenze, come nel caso delle abitazioni non regolamentari, ossia costruzioni vendute in seguito a una non autorizzata lottizzazione, sulle quali Mr. Brini, direttore dell’Agenzia Urbana, richiamava la responsabilità di proprietari terrieri vicini al makhzen, il potere in penombra nel Marocco, composto dai membri reali e dalle elité economiche e militari del paese.
Oppure si potrebbe indagare il bisogno dilagante di alloggio popolare per fette di popolazione provenienti dalle campagne o dal proletariato urbano che partecipano attivamente allo sviluppo economico del Marocco realizzato a suon di zone franche e porti commerciali.
Ma la storia di Amina è più semplice. Attraverso una politica di risparmio domestico, è riuscita a comperare un pezzo di terra su cui sogna di costruire una casa, «le rêve de mes enfants». Una casa non più grande di cinquanta metri quadri a cui aggiungere nuovi piani parallelamente all’allargarsi del nucleo familiare. Una storia di risparmio nota ai figli e alle figlie dei Sud. Una storia semplice, in fondo. Così semplice da potersene far beffe, giustificando i continui ritardi per questioni tecniche e procedurali.
Due anni dopo
Il Plan D’aménagement Urbain è il documento di pianificazione ufficiale. Copre un arco di tempo decennale ed è stato approvato in via definitiva il 24 luglio 2017 a seguito del seguente iter: terminata la stesura della prima bozza, questa viene resa pubblica alla cittadinanza che può produrre delle osservazioni che dovranno poi essere esaminate, ed eventualmente adottate, prima dell’approvazione della commissione centrale di Rabat. Dopo avere superato il termine consentito per l’approvazione del piano, fissato a marzo 2016, ne viene realizzato uno ulteriore, aperto alla pubblica consultazione tra giugno e luglio 2017: arrivano così tremila e duecento osservazioni, o meglio contestazioni, di cui più della metà vengono adottate. Una contestazione ogni cinque ettari.
Il nuovo PAU copre una superficie di diciassettemila ettari, l’equivalente del perimetro urbano cittadino, di cui una parte maggioritaria, poco più di diecimila ettari, è dedicata all’abitato e ai servizi, tremilatrecento ettari agli spazi verdi e millesettecento alle attività sportive, turistiche e industriali. A fronte, dunque, di un territorio per la maggior parte destinato all’abitato, l’Agenzia Urbana si è trovata a dover rispondere a più di tremila richieste di autorizzazione per la costruzione e la lottizzazione. Tra queste, le richieste dei proprietari e delle proprietarie di Sidi Driss.
Le proteste davanti la wilaya assumono alle volte toni intensi, fino a spingersi contro il cordone di sicurezza cercando di creare un varco ed entrare nella sede regionale; altre volte ha toni pacati, ci si siede sul prato, all’ombra di un albero, mentre il responsabile dell’ordine pubblico promette che a breve arriverà il waly, il presidente della regione, e sarà disponibile a un incontro con una delegazione. Ma alla fine il waly non arriva, oppure è in riunione. Dobbiamo tornare domani. Quando una delegazione di tre donne riesce a ottenere l’incontro, viene loro chiesto di portare un dossier con documenti di proprietà e annotazioni. Nulla di nuovo rispetto alla consultazione popolare già effettuata in precedenza.
La storia è semplice se diviene una beffa procedurale giustificata da un sistema di governance. Ma oggi, 8 luglio 2019, Ajar e altre quattro donne sono state convocate dal waly. Due anni dopo. È stato loro chiesto di raccogliere la documentazione di tutti i proprietari. Su cinquecento, Ajar ne ha già raccolte un centinaio.
«Ajar, ma perché preparare un dossier? Non l’avete presentato nel 2017, dopo le proteste?».
«Si, ma adesso il waly è cambiato, bisogna fare tutto da capo». (lucia turco)
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