Il primo luglio due sorelle di cinquanta e sessant’anni, nate e cresciute nello stesso appartamento del quartiere di Sant Andreu a Barcellona si sono buttate giù insieme dalla finestra del loro attico, poche ore prima che arrivasse l’ufficiale giudiziario per sfrattarle. Avevano accumulato un debito di novemila euro, e il proprietario voleva recuperare la casa. Probabilmente aveva capito che poteva adeguare la sua rendita agli oltre mille euro mensili di affitto medio nella capitale catalana, dove i prezzi immobiliari sono cresciuti del settantacinque per cento in dieci anni. Le istituzioni – il Comune governato dal Partito socialista, la Generalitat in mano agli indipendentisti di sinistra di Erc – non hanno ritenuto importante prevenire queste due nuove vittime della violenza immobiliare. I suicidi degli sfrattati non sono una novità, né a Barcellona né nel quartiere di Sant Andreu (due anni fa avevamo raccontato un altro caso, nella zona di Bon Pastor); essi palesano che l’interesse delle istituzioni coincide con l’interesse della proprietà immobiliare. Come giustamente hanno gridato, per l’ennesima volta, i sindacati degli inquilini che hanno manifestato in piazza dopo la morte delle due sorelle, questi non sono suicidi, ma omicidi. No són suicides; són assessinats.
Gli assassini, come spiega una delle militanti dei sindacati inquilini, sono “le amministrazioni che si passano la palla sostenendo che queste cose non sono di loro competenza”. L’amministrazione socialista almeno non ha mostrato la stessa faccia tosta della presidentessa del distretto di Podemos, che era arrivata a dire che “il Comune non ha colpe” dopo il suicidio del 2022, nonostante l’appartamento sotto sfratto fosse comunale, e lo sfratto fosse stato ordinato proprio dal Comune. La portavoce degli indipendentisti di Erc, anche se questa volta lo sfratto era stato ordinato da un privato, ha dichiarato che “la responsabilità è di tutte le amministrazioni” e che “è andato tutto male”. Ricordiamo che Barcellona ha più di settantacinquemila case vuote; che nel 2023 aveva una media di 3,5 sfratti al giorno, tra cui molti ordinati dal Comune stesso; e che circa il quarantacinque per cento della sua popolazione vive con un reddito inferiore a quello necessario per vivere con dignità. Decisamente, è andato tutto male.
Appena il mese scorso, inoltre, il governo municipale socialista aveva deciso di cambiare il protocollo di gestione degli sfratti, per renderlo ancora più violento. Se finora le amministrazioni dovevano per forza offrire agli sfrattati un alloggio temporaneo in una pensione fino alla disponibilità della casa popolare, dal primo giugno questa assistenza si riduce a sei mesi; poi dovranno cavarsela da soli. Circa tremila persone si troveranno in una situazione di estrema vulnerabilità; questo nuovo taglio all’assistenza pubblica si deve al contratto da dieci milioni di euro che il Comune ha firmato con l’azienda turistica BCD Travel. È un altro modo per pompare soldi pubblici nel mercato turistico, affidando alla principale industria responsabile degli sfratti e della mancanza di case anche la gestione delle sue vittime.
Nel frattempo, giornali e commentatori italiani, come sempre, alzano gli occhi speranzosi alla Spagna socialista, ripetendo la propaganda vuota dei suoi rappresentanti. Il sindaco Jaume Collboni pochi giorni fa ha annunciato che “dal 2029 non ci saranno più appartamenti turistici come li conosciamo ora” (hanno riportato la notizia Il Post, Open, Tg24, e molti altri). Peccato che nel 2027 ci saranno le elezioni e Collboni potrebbe perdere il ruolo di sindaco e la responsabilità su ciò che avverrà nel 2029; ma per capire l’orientamento dei socialisti basta guardare cosa è successo pochi giorni fa a Santiago de Compostela, dove il partito di cui è parte il sindaco di Barcellona ha impedito che si annullassero le seicento licenze per nuovi appartamenti turistici della città. I legami del Psoe con l’industria immobiliare e turistica sono ben noti, così come la sua capacità di far passare come misure rivoluzionarie dei provvedimenti inefficaci e ininfluenti.
Visti dalla Catalogna, i media italiani sembrano chiusi in un delirio di autoconvincimento impermeabile alla realtà; lo si era visto all’epoca delle proteste indipendentiste, e lo rivediamo oggi, quando i giornalisti italiani preferiscono una frase del sindaco ai picchetti quotidiani contro gli sfratti, alle enormi proteste contro il turismo e contro l’aumento degli affitti, addirittura all’esilio di uno dei giornalisti di movimento più importanti della città; tutti eventi fondamentali della politica cittadina, di cui sui nostri giornali non c’è traccia. Appena pochi mesi fa la stampa italiana annunciava che la Spagna aveva approvato una nuova legge per impedire l’aumento degli affitti, dando quindi la sensazione che si sarebbe arrivata a una stabilizzazione del diritto alla casa. A inizio giugno invece abbiamo visto come più di ottocento famiglie a Madrid hanno iniziato uno sciopero dell’affitto. Gli inquilini di dieci palazzine, tutte di proprietà del fondo di investimento internazionale Nestar-Azora, sono stati obbligati a firmare clausole illegali, che aumentavano l’affitto di novecento euro ogni tre anni, fino ad arrivare a mille e seicento euro al mese. Gli inquilini, mobilitati collettivamente contro questo abuso, pagheranno solo la cifra iniziale, rischiando naturalmente di incorrere in un’ondata di sfratti. Ma chi ha permesso a un “fondo avvoltoio” di prendere in mano decine di appartamenti residenziali nella capitale del Regno di Spagna?
Azora non è un nuovo attore nello scenario della speculazione immobiliare spagnola. È il terzo fondo di investimento “avvoltoio”, con una condanna per clausole abusive già a gennaio 2023. E di recente il Sindicat de Llogateres e il Col·lectiu Ronda hanno iniziato una Class Action contro la fondazione di proprietà della banca catalana La Caixa, unendo le famiglie di trentasette complessi di case popolari in ventitré comuni della Catalogna. In questo caso impugnano altre sedici clausole che considerano abusive, ricordando che la mercificazione della casa colpisce più di duemila persone in tutta la Catalogna; alcune sono già state sfrattate, altre sono a rischio sfratto.
Al di là del contrasto tra gli annunci della propaganda e i dati di fatto, manca però una spiegazione profonda di cosa sta realmente accadendo. Partiamo dal dato di base: nel 2014 un appartamento di settanta metri quadrati costava in media 667 euro d’affitto, oggi arriva a 1.190 euro. Affittare una stanza a Barcellona costa in media 580 euro, mentre dieci anni fa si poteva affittare un monolocale di quaranta metri quadrati con 400 euro. In questo decennio, l’unico momento in cui c’è stato un abbassamento degli affitti è stato quando il governo catalano ha applicato un “controllo dell’affitto” basato su criteri sociali, poi annullato dal Tribunale costituzionale spagnolo, a marzo 2022. Dovettero passare altri due anni di aumenti vertiginosi, finché il governo del socialista Pedro Sánchez elaborò una nuova legge sul controllo degli affitti, molto più limitata della legge catalana.
Il primo problema di questa nuova legge è che il control de rentas spagnolo non è un valore determinato come il nostro classico equo canone, ma si basa su un valore massimo e minimo, tra cui passa una differenza di duecento euro. Il portavoce del sindacato inquilini, Enric Aragonès, aveva già detto che in pratica questo è un modo per stabilire il prezzo più caro, in modo simile al “canone concordato” in Italia. Inoltre, questo indice si basa sulle dichiarazioni dei redditi fatte dai proprietari l’anno precedente: il valore della casa quindi non si basa sulle sue condizioni reali, ma sull’affitto percepito l’anno prima. Inoltre, la regolamentazione statale si applica solo ai “grandi proprietari”, cioè coloro che possiedono più di dieci appartamenti. Le regioni possono abbassare questo limite, e per esempio la Catalogna ha stabilito che già sopra i quattro immobili si viene considerati grandi proprietari. Ma anche questo limite lascia aperta la porta alla creazione di società e sotto società che possano distribuire i beni per evitare il limite.
Il problema principale però è che la legge non si applica agli affitti temporanei, cioè quelli sotto un anno di durata. Nel portale Idealista già metà degli annunci immobiliari di Barcellona sono stati riclassificati come “affitti stagionali”. Il sindacato inquilini aveva avvertito che bisognava includere nella regolazione anche gli affitti stagionali, ma la critica non è stata ascoltata dai socialisti. Non solo, ma quando il governo catalano aveva cercato di estendere la legge per includervi gli affitti brevi, era stato proprio il Partito socialista a far cadere la proposta di legge. E poi, soprattutto, non esiste nessuna sanzione per chi non rispetta la legge. Dovranno essere le regioni a definire le sanzioni, ognuna secondo il proprio caso, il che naturalmente mette tutti gli inquilini in una situazione di vulnerabilità. Come faranno a sapere se la casa che vogliono affittare è di un grande proprietario? Potranno abitarci per al massimo undici mesi? Che vita si può costruire cambiando casa ogni anno, o anche solo cambiando contratto?
Tutte queste informazioni servono a capire quanto siano in realtà inefficienti le misure proposte dal governo socialista. L’attenzione pubblica in Italia, però, continua ad andare a queste mezze misure, e non alla pressione popolare che queste regolazioni parziali tentano di far tacere. Durante i mesi di maggio e giugno ci sono state grandi proteste contro la “turistificazione”, dapprima a Palma de Maiorca, poi a Ibiza, a Girona, e naturalmente a Barcellona. Il 6 luglio sulla Rambla c’è stata un’altra grande manifestazione, a cui hanno partecipato centoquaranta organizzazioni di tutto il paese, riunendo almeno tre o quattromila persone. Lo striscione di apertura, attorniato da bandiere catalane e palestinesi, diceva: “Decrescita turistica subito! Il turismo di massa uccide i quartieri”. Evidentemente, di fronte alla crisi abitativa, alla disgregazione sociale e alla crescita del lavoro precario causata dall’industria turistica, chi vive a Barcellona non ha grande fiducia nelle promesse di Collboni. (stefano portelli / victor serri)
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