Con la condanna di tutti gli imputati a pene severissime, che vanno da cinque anni e cinque mesi a un anno e sette mesi, si è concluso al Tribunale di Milano il processo contro alcuni militanti del Comitato abitanti Giambellino Lorenteggio, accusati di associazione a delinquere finalizzata all’occupazione abusiva di alloggi di edilizia residenziale pubblica, di resistenza a pubblico ufficiale e di danneggiamento.
Nel numero 9 de Lo stato delle città abbiamo intervistato l’avvocato di alcuni imputati chiedendogli di ricostruire la storia di questa inchiesta. Riportiamo qui alcuni passaggi dell’articolo.
* * *
Per capire a fondo la storia del comitato Giambellino Lorenteggio, bisogna tornare indietro nel tempo, al 2014. L’anno che precedette l’Esposizione universale, che tanto ha contribuito a cambiare il volto della città spingendola verso un modello esclusivo ed elitario, fu per Milano un anno particolare, in cui emerse in tutta la sua drammaticità l’abbandono dei quartieri popolari dovuto alla cattiva gestione del patrimonio immobiliare pubblico.
La profonda crisi economica e finanziaria di Aler, l’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale, frutto di investimenti sbagliati e gravi sprechi, non consentiva la manutenzione ordinaria e straordinaria dei circa settantamila alloggi che l’ente gestiva per conto della Regione e del Comune, con la conseguenza che molti di essi – circa seimila – non potevano essere assegnati a chi ne faceva richiesta e restavano vuoti.
I giornali locali, in particolare il Corriere, raccontavano di decine di occupazioni al giorno degli alloggi popolari lasciati vuoti da Aler, un numero in forte crescita rispetto agli anni precedenti. Inviavano i loro cronisti nei quartieri per raccontare gli sgomberi in flagranza oppure quelli programmati, pubblicavano dati provenienti dall’attività degli ispettori Aler come se fossero bollettini di guerra.
Le inchieste giornalistiche davano risalto al malcontento degli inquilini regolari contro gli occupanti. Si parlava con enfasi di “guerra sociale”, di “battaglia”, di “difesa del fortino”. In questo sfondo si consumò un lungo contrasto tra il comune di Milano, guidato dal sindaco Pisapia, e la regione Lombardia del presidente leghista Maroni sulle modalità di gestione delle case popolari, che portò alla decisione da parte del Comune di non rinnovare la gestione all’Aler e di affidare il proprio patrimonio – circa ventottomila alloggi – a una società partecipata, Metropolitane Milanesi.
Con questa scelta il Comune dichiarò di voler riprendere il controllo dei suoi quartieri popolari e di volerlo fare con il rilancio del portierato sociale e la ristrutturazione degli alloggi sfitti. In seguito, anche Aler annunciò un piano di risanamento che prevedeva risparmi sui costi, il recupero dei debiti che gli inquilini avevano accumulato negli anni e la dismissione di circa settemila immobili del suo patrimonio composto da circa quarantamila case. Fu annunciato inoltre un “programma straordinario contro gli abusivi”, il quale prevedeva duecento sgomberi da effettuare con il ritmo di quattro-cinque al giorno per oltre un mese. All’annuncio seguì un incontro in prefettura del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, che definì una strategia comune per la prevenzione e il contrasto delle occupazioni abusive degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.
La notizia di un programma straordinario di sgomberi alimentò una forte protesta nei quartieri popolari dove i comitati di abitanti e i gruppi di base solidarizzarono con gli occupanti e si mobilitarono per contrastare il piano, sia opponendosi agli sgomberi, sia coordinandosi tra loro a livello cittadino con assemblee, presidi e manifestazioni pubbliche.
Alle proteste parteciparono anche gli attivisti della Base di solidarietà popolare, uno spazio occupato del quartiere Giambellino Lorenteggio animato da diversi giovani militanti che, dopo alcune esperienze di lotta politica in città, avevano deciso di stabilirsi nel quartiere per promuovere attività politiche e sociali. Fu questo tipo di impegno che consentì la nascita del Comitato abitanti di Giambellino Lorenteggio. Il comitato ha agito per quattro anni e i suoi membri lo hanno fatto in contrasto con le istituzioni e le forze di polizia, consapevoli dei rischi che correvano per le azioni che mettevano in campo. Finché, all’alba del 13 dicembre 2018, otto di loro furono arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’occupazione abusiva di immobili di proprietà pubblica e resistenza a pubblico ufficiale. Si scoprì così che l’attività del comitato era stata a lungo sotto la lente del Nucleo informativo dei carabinieri e che le accuse formulate dal pubblico ministero Piero Basilone si basavano, oltre che su prove documentali, attività di osservazione e controllo, analisi dei tabulati telefonici, anche su numerose intercettazioni telefoniche che gli avevano consentito di ricostruire una serie di episodi di occupazione e resistenza, e di ipotizzare l’esistenza di un’associazione a delinquere caratterizzata da una struttura orizzontale, con ruoli degli associati non definiti ma intercambiabili tra loro, che operava per assicurarsi un profitto personale, cioè usufruire gratuitamente degli alloggi pubblici e mantenere il controllo delle problematiche abitative nel quartiere Giambellino Lorenteggio.
Un’associazione che, impedendo gli sgomberi degli alloggi occupati abusivamente, organizzando le occupazioni di quelli sfitti, agiva – secondo l’ipotesi accusatoria – non tanto in difesa del diritto alla casa dei più bisognosi ma al solo scopo di opporsi al sistema istituzionale di assegnazione degli alloggi pubblici per creare un canale parallelo e illecito con cui ottenere più facilmente una casa, danneggiando così coloro che ne avevano diritto perché iscritti alle graduatorie pubbliche.
Prima della sentenza di condanna, ero andato a trovare l’avvocato di alcuni imputati, Eugenio Losco, a cui avevo chiesto di ricostruire la storia di questa inchiesta, le accuse formulate, lo svolgimento del dibattimento e infine le tesi difensive. Anche se queste non sono state accolte dal giudice, che ha condannato gli imputati con pene più severe di quelle richieste dal pubblico ministero, le riporto qui sotto perché aiutano ad avere un quadro più ampio e articolato dell’intera vicenda e delle sue implicazioni nei contesti di lotta.
Ci può raccontare come sono nate le indagini e su quali prove si basa l’accusa?
«I carabinieri, raccogliendo le varie annotazioni di polizia giudiziaria redatte durante l’attività di sgomberi da parte dell’Aler per le occupazioni nel Giambellino tra il 2015 e il 2016, si accorgono che ai presidi spesso sono presenti le stesse persone, quindi cominciano a pensare che ci sia un collegamento tra i vari episodi. In più vengono in contatto con un testimone, abitante in Giambellino, che riferisce alcune cose in relazione al comitato. Un teste che verrà poi sentito nel dibattimento e si scoprirà che è totalmente inaffidabile, anzi era lui che faceva questo tipo di attività, affittava posti letto in cambio di somme di denaro. È emerso anche che gestiva delle attività illecite… Da questo sviluppo investigativo si decide di scrivere una notizia di reato ipotizzando un’associazione a delinquere. A quel punto vengono richieste delle intercettazioni telefoniche, vengono ascoltate le conversazioni di alcune persone per un periodo di sei mesi e se ne traggono i principali elementi per il reato associativo. Addirittura, nella notazione finale fatta dai carabinieri come polizia giudiziaria, si prospettava il reato di estorsione. In realtà, il fulcro di tutta l’indagine era quello: vi diamo le case, voi ci date dei soldi, se no non ve le diamo. Era questo il reato ipotizzato, su cui forse fondavano lo stesso reato associativo. Ma poi lo stesso pm ha ritenuto questa ipotesi accusatoria del tutto campata in aria. L’unica cosa emersa è una piccola somma di denaro – dieci euro – che chi partecipava al comitato dava ogni mese. È evidente che se c’è un posto dove ci si ritrova, si organizza la mensa, il doposcuola, c’è la squadra di calcio, ci sono altre attività, serve un piccolo fondo spese. Questo non può costituire l’elemento oggettivo per contestare il reato di estorsione. Ci sono state semplicemente delle occupazioni, su alcune delle quali sono intervenuti direttamente degli aderenti al comitato, su altre no, e ci sono stati dei presidi. Ecco, questo secondo noi non è sufficiente per ritenere integrato il reato associativo. Non c’è una sufficiente struttura organizzativa e di mezzi che fanno riferimento all’associazione. Non c’è un piano criminale. Anche perché il pactum sceleris, secondo la ricostruzione del pm, sarebbe quello di un’associazione finalizzata all’occupazione. Ma non è così, è finalizzata a tutt’altro, a una lotta politica, e una lotta politica può essere anche dura, può comportare a volte la commissione di illeciti, ma ciò non vuol dire che l’associazione è creata per commettere degli illeciti. Il fine dell’associazione era invece di occuparsi di quel territorio e della situazione delle case. Eventualmente, in alcuni casi sono stati commessi degli illeciti, ma ne risponderà chi li ha commessi, non il comitato che si occupava di un fine politico, questo è importante tenerlo distinto.
«Oltre all’associazione a delinquere, sono stati contestati una quarantina di capi di imputazione che riguardano una dozzina di episodi. Per ogni episodio si fa riferimento all’occupazione dell’immobile e poi al presidio di solidarietà nel caso di sgombero. Spesso viene contestato anche il danneggiamento della porta di ingresso, perché le abitazioni abbandonate venivano lastrate da parte dei funzionari dell’Aler per impedirne l’accesso. In qualche episodio vengono contestate anche delle resistenze. Su questo punto è emerso, nel corso del dibattimento, che coloro che hanno partecipato ai presidi non hanno mai posto in essere una resistenza attiva nei confronti degli ispettori o delle forze di polizia. Non ci sono episodi di violenza fisica, non ci sono minacce. Il reato contestato si basa sul fatto che queste persone, che si presentavano per dare solidarietà e informazioni, per il solo fatto di essere così numerose rendevano difficile l’attività dei funzionari dell’Aler, e intimidivano gli stessi ispettori di polizia, anche se materialmente non hanno mai posto in essere atti di violenza o minacce.
«L’istruttoria dibattimentale è durata circa un anno e mezzo. Il pm sostanzialmente ha chiesto la condanna in relazione a tutti i capi di imputazione individuati nella richiesta di rinvio a giudizio, che è stata fatta con decreto di rito immediato. Le pene richieste, però, tutto sommato, sono abbastanza basse in relazione a come il fatto era stato inizialmente individuato. Addirittura all’inizio si ipotizzava che ci fossero anche interessi personali ed economici da parte delle persone che aderivano a questa associazione. Lo stesso pm ha poi riconosciuto in qualche modo il valore morale e sociale dell’attività che era stata posta in essere dal comitato. Lo stesso pm ha chiesto che venissero applicate le attenuanti generiche, addirittura con un giudizio di prevalenza rispetto alle aggravanti contestate nei singoli capi di imputazione. Le pene richieste, per carità, sono comunque importanti, dai due ai tre anni, ma se si fa riferimento al reato associativo non sono così elevate. Leggendo l’ordinanza che ha disposto le misure cautelari colpisce la tesi del pubblico ministero, il quale sostiene che il comitato ha costruito il suo consenso “sostituendosi, in tutto e per tutto, alle istituzioni legalmente deputate all’assegnazione degli alloggi popolari” e così facendo ha arrecato “un gravissimo danno alle numerosissime e realmente bisognose famiglie che da anni attendono, nel rispetto della legalità, l’assegno di un alloggio popolare”.
«Stiamo parlando di un gruppo di ragazzi che ha deciso di trasferirsi al Giambellino e una volta arrivati lì si sono resi conto di una situazione pazzesca e hanno deciso di intervenire per porre rimedio a una mancanza politica di chi se ne dovrebbe occupare e quindi dello stato. Ma non è che loro, come gruppo, movimento antagonista hanno voluto sostituirsi allo stato, è lo stato che non interviene in quella situazione. Quindi loro hanno cercato di sopperire alle mancanze dello stato. Ma che interesse sarebbe questo? Quale sarebbe il ritorno? Sono persone consce anche di dover pagare per l’attività che hanno posto in essere, perché sanno benissimo che un’attività di solidarietà, di quel tipo, li mette a confronto ogni giorno con le forze dell’ordine, con la possibilità di essere denunciati per resistenza, per occupazioni, eccetera. Che riscontro potevano avere, personale o per un’eventuale associazione? Nessuno. Anche perché stiamo parlando di un’associazione a delinquere dove manca il fine di lucro. Per carità, non è un requisito richiesto dalla norma, ma nella sostanza sì, perché è difficile ipotizzare la sussistenza di un reato associativo senza finalità di lucro. Un’associazione che ha uno scopo politico, che cerca di tutelare dal punto di vista sociale le persone, non può essere un’associazione a delinquere. Ma poi, ripeto, sostituirsi allo stato avrebbe avuto un senso se quelle case fossero state sottratte alla disponibilità di persone che ne avevano diritto perché in graduatoria. Ma quegli alloggi non facevano parte delle graduatorie dell’Aler, erano abbandonati. Questo è fondamentale. Alcuni di questi alloggi non avevano la metratura corretta per essere rimessi nel mercato, ma tutti gli altri dovevano essere oggetto di ristrutturazioni, che però non venivano fatte perché l’Aler si limitava a lastrarle. Un nostro consulente ha fatto delle fotografie nel 2018, quando sono state eseguite le misure cautelari, facendo vedere che quella dozzina di abitazioni oggetto delle contestazioni erano lastrate e quindi abbandonate. Ed è andato a rifare la stessa cosa due mesi fa, fotografando gli stessi alloggi che si trovano nella medesima condizione: sono appartamenti che non sono tornati nella disponibilità dell’Aler, non sono stati rimessi in graduatoria. Nonostante questo, l’Aler si è costituita in giudizio chiedendo i danni morali, sostenendo che sono stati sottratti a soggetti che ne avrebbero bisogno. E questo è ridicolo perché all’Aler ne sono successe di tutti i colori: arresti, persone indagate per mafia… Insomma, c’è una gestione incredibile e non si capisce perché l’occupazione di una decina di case possa essere rilevante, possa considerarsi un danno alla figura dell’ente».
Vorrei tornare alla contestazione del reato associativo chiedendole se il suo utilizzo contro le attività di lotta politica sia qualcosa di nuovo e allarmante.
«Non è la prima volta che vengono contestati reati associativi ai comitati che si occupano della tutela delle persone e della lotta per la casa. Ma ultimamente è stato contestato anche in altri contesti, di attività sindacale, di lotta per la tutela dei diritti dei lavoratori. Ecco, mi sembra che ci sia un filo comune che lega queste situazioni. Chi in qualche modo cerca di reagire, organizzandosi anche lecitamente, come può essere un’organizzazione sindacale, ma dà fastidio all’ordine precostituito, rischia una contestazione di associazione a delinquere. Perché può capitare che vi siano degli episodi di contrasto con l’attività dello stato, ma questo non giustifica che tali contrasti possano configurare un reato associativo, che è un reato grave che comporta l’applicazione di misure cautelari. Questa volta è andata bene. Non è stata applicata la misura della custodia in carcere, ma spesso questo avviene. E ci troviamo di fronte a persone che subiscono ingiustamente una custodia cautelare anche per mesi e poi, nel corso del processo, il reato associativo si smonta e viene meno.
«Questi reati associativi vengono anche costruiti perché servono a creare un caso, per la possibilità che comportano di effettuare dei tipi di indagine con strumenti sofisticati come possono essere le intercettazioni telefoniche. E adesso ci sono anche altri strumenti, come l’uso dei trojan che vengono usati per la captazione di tutte le informazioni che si trovano all’interno di un telefono. Il reato associativo permette tutte queste cose ed è forse anche per questo che trova spesso applicazione la contestazione di questa ipotesi. Insomma, è uno strumento purtroppo abusato. Peraltro Milano non è neanche una delle peggiori procure. Ci sono dei luoghi dove se ne fa più uso, penso alla procura di Torino, con tutto quello che ha fatto nei confronti del movimento No Tav, con la creazione di un pool ad hoc che seguiva tutti i procedimenti. Ma anche le procure di Firenze e di Roma usano molto il mezzo della contestazione del reato associativo. E poi, per quanto riguarda le attività sindacali, nell’emiliano la cosa è piuttosto importante. Li c’è un retro-pensiero politico ancora più forte. Si vuole in tutti i modi evitare che ci sia un blocco dell’attività della logistica, su cui sono stati fatti degli investimenti enormi da parte dei gruppi più importanti nel mondo. Prima i contratti che venivano applicati ai lavoratori erano ridicoli, non avevano tutele, venivano per lo più subappaltati a cooperative, spesso gestite da persone sospette. E quindi l’intervento del sindacato ha comportato il riconoscimento di un contratto collettivo nazionale e in molti casi l’assunzione diretta da parte di questi grossi gruppi. Per questo è un’attività che dà molto fastidio. Lì è evidente che ci sono pressioni dall’alto che possono spingere la procura ad agire in maniera durissima nei confronti di coloro che partecipano a queste attività sindacali». (salvatore porcaro)
Leave a Reply