Iniziò tutto da una scarpa col tacco. Così racconta la leggenda. La scarpa era quella di Sylvia Rivera, lanciata contro i poliziotti che fecero irruzione allo Stonewall Inn, storico locale gay di New York. Le violenze della polizia contro la comunità LGBT+ erano all’ordine del giorno. Ma quella notte, tra il 27 e il 28 giugno del ’69, la comunità rispose alla violenza con la rivolta. Nacquero così i moti di Stonewall, quelli che vengono comunemente considerati il primo Pride. In Italia bisognerà aspettare qualche anno per la prima manifestazione, organizzata nel 1972 a Sanremo in risposta a un convegno sulle devianze sessuali, dal F.U.O.R.I. – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, una delle primissime associazioni LGBT+ italiane, di ispirazione marxista, che riuniva persone come Mariasilvia Spolato, Angelo Pezzana, Mario Mieli.
Il primo Pride fu una rivolta. Ma adesso che cos’è? A distanza di quasi cinquant’anni da quel primo Pride italiano, appare necessaria la domanda su cosa significhi oggi Pride e quali sfide occorre raccogliere. Nel mese dei Pride, quest’anno caratterizzato dal ritorno delle parate dopo la pandemia, sono molte le città, tra cui Napoli, in cui collettivi o associazioni stanno organizzando dei Pride diversi da quelli ufficiali, segnando così la frattura che negli ultimi anni si è andata aprendo sempre più tra il movimento mainstream e l’area più politicizzata. È evidente, d’altronde, che in più occasioni il Pride si sia trasformato in una passerella per le aziende a caccia di rainbow-washing e il rischio che si passi dal confronto con le istituzioni all’istituzionalizzazione priva di rivendicazioni è dietro l’angolo. Tutto questo mentre in Parlamento si discute il ddl Zan, un disegno di legge che appare necessario e urgente. Ma ci sono anche molti punti che il ddl lascia scoperti, come la questione legata alla distinzione tra propaganda e istigazione. Secondo il ddl, inoltre, le scuole dovranno impegnarsi a mettere in campo programmi per il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. Con quali risorse non si sa e queste iniziative, come specificato dallo stesso Zan, dovranno tuttavia essere “coerenti con il piano triennale dell’offerta formativa e con il patto educativo di corresponsabilità” senza volersi sostituire in alcun modo “allo specifico ruolo educativo delle famiglie”. Una simile clausola, di fatto, subordina l’intervento in questione alla decisione della famiglia, che spesso può costituire il primo veicolo di omofobia.
Il ddl Zan è quindi un provvedimento necessario, ma non basta. Così come non basta avere le istituzioni in prima fila ai Pride, trasformandosi in quel grottesco ritratto tracciato da Fabrizio De Andrè, con Bocca di rosa poco lontano. Negli scorsi giorni Camara Fantamadi, un bracciante di ventisette anni, è morto di caldo nelle campagne pugliesi. Cosa c’entra questo episodio con i Pride? Niente. Come niente c’entravano i minatori britannici vessati dalla Thatcher con la comunità LGBT. Eppure unirono le forze nel movimento LGSM (Lesbians and Gays Support the Miners) e marciarono insieme al Pride di Londra nel bel mezzo degli anni Ottanta, in una storia diventata poi un film.
Se non si vuole ridurre il senso del Pride a un marchio da promuovere, al simbolo di una squadra di calcio o di una grande azienda colorato di arcobaleno a giugno, bisogna partire da qui, dall’intersezionalità delle lotte, dalle esperienze di sfruttamento quotidiano vissute sulla propria pelle. La sfida è riuscire a coniugare i diritti civili con i diritti sociali. Contrapporre i diritti civili a quelli sociali è una cantilena ripetuta dalla propaganda di destra, ma a cui spesso cede l’orecchio anche qualcuno a sinistra. Ma i diritti civili, proprio in quanto diritti, non sono un privilegio per pochi. Diritti civili e diritti sociali sono gli uni necessari agli altri. Per riuscire a coniugarli è necessario mantenere un punto di vista che è quello del margine, che come scrive Bell Hooks non è qualcosa di negativo, ma un ruolo di radicale possibilità, di capacità di costruire un’alternativa al dominio, al potere. Essere ai margini ha una capacità immaginativa, trasformativa, e questo ce lo insegna l’esperienza trans. Scrive Porpora Marcasciano ne L’aurora delle trans cattive: “La nostra esasperazione ci ha fatto battere i piedi esattamente dov’era giusto che battessero. Li abbiamo battuti forte con i nostri tacchi a spillo, le cui impronte restano indelebili, sono segni essenziali nella storia della liberazione, sono il simbolo stesso del Pride – del nostro Pride, non di quello estraniante, svuotato di senso – che ci viene sottratto”. Continuare a seguire le impronte tracciate da quel tacco, continuare a battere i piedi, vuol dire oggi sfuggire alla normalizzazione, a una prospettiva rassicurante e che si preoccupa di rassicurare, per rivendicare invece il diritto alla fragilità, senza negarla, perché come scrive Paul Preciado “è attraverso la fragilità che opera la rivoluzione”. (giulia tesauro)
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