Nel numero 10 de Lo stato delle città abbiamo pubblicato un articolo sulle condizioni di vita e sulle rivolte nel Cpr di Torino, a cura di Mai più Cpr – Mai più lager e dello Sportello Il-legale.
Le rivolte nel Cpr del febbraio 2023 avevano infatti portato alla chiusura della struttura, resa inagibile dalle fiamme. Com’era immaginabile, tuttavia, la prefettura di Torino ha chiesto la riapertura del Cpr. Non si sa nulla delle tempistiche e non sono ancora stati resi pubblici i bandi. A Torino è nata una mobilitazione affinché il centro resti chiuso e affinché chiudano gli altri nove Cpr presenti nel territorio italiano.
La campagna contro la detenzione amministrativa ha lanciato un corteo nazionale il primo luglio a Torino alle 17, in piazza Castello. Il 2 luglio, dalle 11 di mattina a Porta Palazzo, si terrà invece un’assemblea pubblica per confrontarsi sulle lotte portate avanti da vari collettivi e associazioni nazionali. Pubblichiamo l’articolo in sostegno alla mobilitazione e ai suoi appuntamenti.
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Il Cpr di Torino nasce nel 1999 con il nome di Cpt, in seguito alla legge Turco-Napolitano; tra i primi in Italia a essere operativo, è l’unico attualmente chiuso. La sua storia è costellata di rivolte e proteste che hanno inceppato, anche se per poco, la macchina della detenzione e delle espulsioni. Le ultime, a metà febbraio 2023, ne hanno determinato la chiusura.
Le proteste a Torino si sono sviluppate fin da subito, ancor prima dell’apertura. Il 21 gennaio 1999, una quarantina di persone della Rete cittadina immigrazioni e diritti occupò la struttura di corso Brunelleschi, salendo sulle mura di cinta dell’ex caserma e stendendo uno striscione. A questa protesta simbolica si aggiunse una manifestazione partecipata da migranti regolari e irregolari che, oltre a esprimere il proprio dissenso verso i centri di detenzione e la legge Turco-Napolitano, protestavano per il diritto all’asilo politico e alla libera circolazione delle persone chiedendo una sanatoria generalizzata.
Alla sua apertura, sotto la gestione della Croce Rossa Italiana Militare, il Cpt era composto da container in lamiera per una capienza dichiarata di settanta persone, divise per genere e nazionalità. Fin da subito il centro ha presentato un alto tasso di sovraffollamento: quasi trecento persone all’interno, con il tempo massimo di permanenza nel centro, fissato in trenta giorni, nella maggior parte dei casi non rispettato ma prolungato indefinitamente. Le persone internate non potevano vedere gli avvocati, né telefonare o ricevere visite. Già allora le condizioni igienico-sanitarie erano pessime.
La prima rivolta scoppia la notte tra il 5 e il 6 ottobre 1999, quando alcuni “ospiti” bruciano materassi e coperte. Si susseguono scioperi della fame e tentativi di suicidio. Le rivolte arrivano spesso a seguito di grandi tensioni interne che portano, oltre ad azioni individuali e atti di autolesionismo, a lotte collettive, come il 18 maggio 2005 quando alcuni detenuti tentano di bloccare l’imminente espulsione di un compagno ingoiando pile o pezzi di vetro.
Il 2 giugno 2006 una rivolta generale, nata dal tentativo di fuga di un egiziano, scoppiata nella notte e sedata dalle forze dell’ordine all’alba, causa notevoli danni ai prefabbricati e alla mensa. Le forze dell’ordine parlano di sette feriti tra i loro uomini e di sedici reclusi evasi e in fuga.
Dopo i restauri, l’ampliamento e l’ennesima inaugurazione, nella notte tra il 24 e il 25 maggio 2008, Fatih, un trentottenne tunisino, muore dopo una giornata di sofferenze, senza aver ricevuto cure. Alcuni testimoni della sua morte vengono rimpatriati immediatamente. Chi è rimasto comincia lo sciopero della fame. La tensione resta alta nei mesi successivi, fino a luglio incalzano le proteste e gli scioperi della fame, e sono tanti i tentativi di suicidio e i gesti di autolesionismo.
Il 2014 è un anno segnato da rivolte e incendi. A gennaio, i reclusi appiccano fuochi che distruggono parte delle aree rossa e viola. A seguito di ciò, la popolazione detenuta è ridotta a una sessantina di persone, un terzo della capienza massima. Un’altra rivolta esplode a marzo, quando alcuni reclusi appiccano il fuoco in cinque camere d’isolamento e negli stanzoni dell’area gialla. Poco dopo le fiamme divampano fino alle camere dell’area bianca. Le proteste continuano per una settimana e vengono rese inagibili anche le aree rossa e viola. I reclusi sono costretti a dormire per terra, senza materasso, senza coperte o nelle aree devastate dall’incendio. Alcuni vengono arrestati, altri rimpatriati. Rimangono agibili l’area verde (femminile), una stanza dell’area blu, la mensa dell’area viola e qualche cella di isolamento. Le proteste non si spengono e a fine luglio il centro è quasi inutilizzabile. Proseguono deportazioni e arresti per danneggiamento aggravato e incendio. All’indomani delle rivolte però iniziano, celeri, i lavori di ristrutturazione. Una ventina di reclusi sono divisi tra le celle d’isolamento e le poche stanze ancora agibili. Un momento perfetto per il passaggio di consegne dalla gestione della Croce Rossa a quella dell’associazione Acuarinto, accompagnata dalla società francese Gepsa. Per le multinazionali della detenzione, il Cpr di corso Brunelleschi si configura come un appalto di grande interesse. La novità viene accolta da un’ondata di scioperi della fame: la privatizzazione della gestione ha peggiorato ulteriormente le condizioni dei reclusi.
I lavori di ristrutturazione, che puntano ad allargare la capienza a centottanta persone, sono bloccati da una nuova rivolta che distrugge gran parte del centro, mettendo fuori uso l’area rossa e l’unica stanza aperta dell’area gialla. Il copione si ripete. Le ristrutturazioni ripartono più spedite che mai, ma la lotta dei detenuti non si placa. Nel 2015 e nel 2020 nuove proteste ridurranno al minimo le aree del centro.
Negli anni successivi continuano le azioni di rivolta che, spinte dalle condizioni di reclusione, dai pestaggi e dalle torture, sia psicologiche che fisiche, compromettono l’esistenza del centro. Nel 2020, come collettivo, abbiamo supportato la lotta dei detenuti che hanno deciso, dopo numerose proteste, di iniziare lo sciopero del vassoio. In collaborazione con altre realtà fu organizzata una tre giorni in corso Brunelleschi, a cui presero parte tantissime persone e realtà organizzate. Sembrava che il centro sarebbe stato chiuso di lì a poco. Ma la macchina detentiva non si è fermata e nel giro di tre anni due persone (Faisal Hossein, 2019; Moussa Balde, 2021) sono morte all’interno del centro, nella gabbia di isolamento interna chiamata Ospedaletto.
LE RIVOLTE DI FEBBRAIO
Sebbene le rivolte nei Cpr da parte dei detenuti siano un fenomeno comune, come si è visto, le ultime due avvenute nel Cpr di Torino si distinguono per fermezza e determinazione. Infatti, è la prima volta dopo quasi venticinque anni che il centro piemontese viene chiuso totalmente a causa degli ingenti danni provocati dalle fiamme. Le rivolte sono avvenute nelle giornate del 4 e 5 febbraio e nella sera del 20 febbraio 2023.
Le informazioni ricevute da detenuti ed ex detenuti del centro, dicono di come le rivolte siano state precedute dalla decisione da parte di molti di iniziare uno sciopero della fame. Le ragioni sono le più ovvie, ossia le condizioni di reclusione a cui sono sottoposti i detenuti. Spiccano per gravità: il cibo immangiabile, la totale mancanza di presa in cura sanitaria di soggetti che presentano problemi di salute, il freddo subito durante tutto l’inverno, il costante stato di inattività e la ridotta possibilità di contatti con l’esterno tramite la cabina telefonica (non sempre funzionante).
Al momento della rivolta del 4-5 febbraio, all’interno del centro sono presenti centoventi persone su una capienza massima di centoquarantaquattro. I detenuti danno fuoco ai materassi rendendo inagibili quattro delle sei aree che compongono la struttura. A seguito di ciò, molti di loro subiscono massicci pestaggi da parte dei vari organi di polizia presenti nel centro. Inoltre, è impedito loro di accedere alle visite mediche e di comunicare con l’esterno. Ventotto persone sono sequestrate per più di ventiquattro ore in un magazzino, mentre i restanti detenuti sono lasciati a dormire per terra nella mensa o all’aperto, senza materassi e coperte.
Con due aree a disposizione, di cui una solo parzialmente, il Cpr viene velocemente svuotato: alcuni detenuti sono trasferiti in altri Cpr della penisola, altri, riconosciuti come i “colpevoli” delle rivolte, portati direttamente in carcere. Solo poche persone sono fatte uscire con il foglio di via, che le obbliga a lasciare il paese entro sette giorni dalla loro “liberazione”.
Le trenta persone ancora recluse, poco dopo lo spegnimento delle ultime fiamme, si rivoltano nuovamente, dando fuoco alla struttura. Più di un detenuto ci ha raccontato che la rabbia è esplosa a seguito di un violento pestaggio di uno dei ragazzi reclusi da parte della polizia. Raccontano che è stato immobilizzato a terra con un ginocchio sul collo fino a impedirgli di respirare. Gli altri detenuti hanno tentato di liberarlo, ma la risposta della polizia è stata ancora più violenta. I detenuti colpiti non hanno ricevuto cure, ma sono stati abbandonati per terra.
In seguito alla seconda rivolta restano rinchiuse solo sei persone, trasferite, deportate o liberate il 3 marzo: data che sancisce la chiusura del Cpr di Torino.
VOCI DA DENTRO
S. è un ventottenne africano. È entrato per la prima volta in un Cpr, quello di Restinco (Brindisi), a metà ottobre 2022. È stato trasferito a Torino a dicembre, in seguito alle rivolte nel Cpr pugliese. In totale è stato detenuto nei due centri per cinque mesi.
A Brindisi, durante la rivolta del 19 dicembre, perde la vita un recluso. Questa morte, come spesso accade, non è oggetto di interesse da parte di media e politici: ciò comporta che conoscere i fatti che circondano le morti dentro questi luoghi sia spesso difficile, se non impossibile. Secondo le poche ricostruzioni apparse sui giornali, l’uomo dormiva durante la rivolta. «Quando hanno bruciato di là, a Brindisi – racconta S. –, lui era dentro. Non sapevo cosa stesse facendo. Gli abbiamo detto “vieni, vieni, scappa dalle fiamme” e lui non voleva uscire. Io volevo andare a parlargli ma ho visto molto fumo. Gli ho detto “vieni, vieni via” e lui ha urlato in un’altra lingua, gridava. È morto lì dentro. Quando ha visto le fiamme è rimasto lì dentro. Non so perché non voleva uscire. Tante persone gli hanno detto di uscire ma lui non voleva. Non so se è caduto. Lui la mattina aveva litigato con qualcuno». «Le guardie non hanno visto che c’era una persona dentro?». «Le guardie non hanno fatto niente. Lui era già stanco quando l’hanno portato lì. Poi l’hanno portato all’ospedale. L’ambulanza è arrivata subito, appena l’hanno chiamata. Io volevo aiutarlo ma ho visto tanto fuoco, fumo, troppo. Sono arrivato davanti alla porta ma non riuscivo nemmeno a vedere dove fosse. Gli ho urlato “vieni, dammi la mano”. Io gli volevo bene, pregavamo, giocavamo, scherzavamo insieme. Eravamo sempre insieme. Sono molto triste da quel giorno. Lui è morto lì dentro. L’ho sentito dal telegiornale».
L’uomo era un trentottenne marocchino. La “colpa” della sua morte è ricaduta su cinque detenuti considerati i responsabili dell’incendio: due trasferiti direttamente nel carcere di Brindisi e i restanti denunciati.
S. racconta anche come il Cpr di Torino fosse particolarmente duro e invivibile. «Quando sono arrivato a Torino ho chiesto come fosse, la gente mi diceva che era molto brutto. Non è bello stare ventiquattro ore senza niente. Non c’è vita, pensi sempre, sei nervoso. È molto, molto difficile, lo giuro. Ho parlato con un nigeriano, lui stava piangendo, spiegando la sua storia. Gli ho detto “come stai?”, e lui mi ha detto “male”; non c’è famiglia, né al suo paese, né in Italia, ha pianto davanti a me. L’ho detto all’ispettore e lui ha detto “mo’ vediamo”. Poi hanno trasportato lui, non so in quale Cpr. L’hanno spostato la mattina».
Il livello di sofferenza che abita luoghi come i Cpr è dovuto a diversi fattori. In primo luogo, al fatto che i migranti spesso non sono a conoscenza dell’esistenza di questi centri. Coloro che escono dal carcere non capiscono perché vengano nuovamente rinchiusi in posti ancora più deprivanti degli istituti di pena. Il fatto che nessuno spieghi loro dove si trovano è fonte di stress e disorientamento. In secondo luogo, le condizioni di reclusione già citate. «Ci sono tanti casini là dentro – dice S. –, il mangiare non è buono, preferisci non mangiare niente. Siamo chiusi sempre, sempre, sempre. Anche il mio ginocchio è uscito e loro non mi hanno fatto niente, si è gonfiato, non sto camminando bene. Mi hanno dato la tachipirina, messo una benda, così… la spalla lo stesso, mi è uscita, gliel’ho detto e niente. Mi sono fatto male a gennaio. Gliel’ho spiegato e mi hanno detto “aspetta”. Dopo che ho fatto casino mi hanno portato in ospedale, ma mi hanno solo fatto un bendaggio e nient’altro. Il dottore mi ha detto “quando uscirai vedrai cosa fare, intanto si sistemerà pian piano”. Io gli ho detto “voglio riposare, aiutami”. Ho molti problemi, ma loro se ne fregano».
Tenere molte persone rinchiuse in uno spazio limitato, in condizioni disumane, dove i diritti sono sospesi, comporta che la tensione e la sofferenza possano generare reazioni tutt’altro che imprevedibili. Se il corpo è ciò che resta ai detenuti, essi lo useranno come strumento di resistenza. Per questa ragione, lo sciopero della fame e l’autolesionismo diventano forme necessarie per richiedere ascolto, per determinarsi come individui adulti e coscienti del livello di oppressione subito. Tuttavia, l’autolesionismo si configura anche come indicatore di sofferenza e spesso come atto che precede il tentativo di suicidio.
«Le persone si lamentano del cibo perché fa schifo – continua S. –. Loro mettono qualcosa nel cibo. Ti senti confuso, addormentato. Le persone si fanno le corde [provano a impiccarsi] quando sono arrabbiate. Vogliono uccidersi. È triste. Dentro ti senti sempre triste, sempre».
Dalla fondazione dei Cpr sono morte venticinque persone. Persone di cui difficilmente si è sentito parlare sui media. Le rivolte non nascono in maniera organizzata, ma spontanea e individuale per poi diventare un momento di lotta collettiva. Questi eventi appaiono come risposta disperata a un sistema che produce disagio e dolore. I collettivi di lotta contro i Cpr in tutta Italia storicamente si mobilitano per fornire supporto ai detenuti e cercare di rendere visibili questi luoghi al mondo libero. Lo strumento che più ha consentito un collegamento con i detenuti durante le rivolte è stato il telefono. Le chiamate arrivavano da dentro, dal momento che non sono possibili chiamate in entrata. Il telefono ha rappresentato uno dei pochissimi modi per aprire una breccia tra quelle mura e il mondo libero.
In questo modo è stato possibile seguire l’andamento delle rivolte e la repressione violenta che le ha seguite, attraverso la voce di chi le stava vivendo sulla propria pelle. Le informazioni su quanto accade in questi luoghi sono spesso incomplete o edulcorate. Ne è un esempio il report di un partito politico entrato nel Cpr di Torino dopo le rivolte. Nel report è scritto che non sono avvenuti episodi di violenza da parte delle guardie contro i detenuti e che questi ultimi lo confermano. Qualche giorno dopo M., un ventisettenne africano, ci racconta come questi colloqui siano stati condotti con la polizia e l’ispettore presenti. I detenuti, preoccupati delle possibili ripercussioni, hanno preferito non raccontare di aver subito pestaggi e abusi in maniera massiccia.
SCENARI POSSIBILI
Il Cpr di Torino è attualmente chiuso a causa della sua totale inagibilità. Ciò non significa che non riaprirà più. La maggioranza al governo e l’ultimo decreto a tema immigrazione indicano la direzione verso cui si intende procedere (non che la linea di chi oggi siede all’opposizione fosse troppo diversa): caccia agli scafisti, ulteriore restringimento delle casistiche per cui si ha diritto al permesso di soggiorno, il venir meno di molte prerogative che a oggi servivano a garantire, perlomeno sulla carta, standard minimi di idoneità per la costruzione di nuovi Cpr.
Il comune di Torino, con un ordine del giorno diretto al governo, ha votato per la non riapertura del Cpr di Torino, ma sarà necessario attendere la valutazione del ministero dell’interno, a cui spetta la decisione finale.
Secondo la normativa attuale, i Cpr dovrebbero sorgere all’esterno dei centri urbani. A oggi la stima dei danni al Cpr di Torino è di un milione di euro. Si ipotizza che ministero e prefettura troveranno più conveniente cercare una struttura lontana dalla città, così da rendere più difficile l’azione solidale e sfruttare eventuali vicinanze con l’aeroporto di Milano, punto di partenza di quasi tutti i voli per i rimpatri. Un’ulteriore ipotesi è che non rinuncino all’ex caserma di corso Brunelleschi per continuare ad arricchire le imprese della detenzione, mantenendo in vita un lager da centoquaranta posti, sebbene il decreto preveda di realizzare “strutture di capienza limitata”, qualunque cosa ciò voglia dire.
La chiusura del Cpr di Torino è una vittoria dei detenuti, ma pagata a caro prezzo: arresti, deportazioni coatte, trasferimenti e pestaggi. Nel quadro complessivo, è certamente una vittoria parziale che non esaurisce l’importanza di continuare a lottare contro questi luoghi, contro la possibilità che ne vengano aperti altri e contro ogni tipo di frontiera. I Cpr sono solo una parte dell’ingranaggio, complesso e pervasivo, che mina la vita delle persone migranti. La storia del Cpr di Torino e non solo, restituisce autodeterminazione e dignità ai detenuti, quali unici soggetti protagonisti delle rivolte e dello smantellamento, temporaneo o definitivo, delle loro gabbie.
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