Si sono sollevati e continuano a sollevarsi da sabato 7 marzo migliaia di detenuti in ventisette carceri italiane – ad Alessandria, Padova, Vercelli, Milano, Pavia, Genova, Modena, Roma, Frosinone, Napoli, Salerno, Foggia, Palermo – per protestare contro le misure previste dal decreto emergenziale sul Coronavirus (in particolare la cancellazione dei colloqui con familiari e avvocati, e le limitazioni al regime di semilibertà) e per denunciare i rischi elevati di contagio, che potrebbero avere effetti devastanti a causa del sovraffollamento che accomuna la maggior parte delle prigioni sul territorio nazionale.
I casi più eclatanti riguardano Foggia, con decine di evasioni, Pavia, dove due agenti sono stati presi in ostaggio, e Modena, dove in circostanze non accertate (un comunicato del Dipartimento di amministrazione penitenziaria afferma che i decessi non sarebbero direttamente collegabili alla rivolta ma a “overdose di oppioidi” e altri medicinali trafugati in infermeria) i detenuti morti sarebbero sei. Le immagini di ieri raccolte in giro per l’Italia, all’esterno dei penitenziari, mostrano colonne di fumo che si innalzano dai tetti delle carceri, lenzuola bruciate appese alle sbarre delle finestre, agenti in antisommossa che si preparano a varcare i portoni d’ingresso degli istituti. Ma l’impreparazione persino da un punto di vista militare, e la gestione in toto dell’emergenza da parte delle forze di polizia è stata imbarazzante. Chi era presente in carcere sabato a Salerno racconta di pochi poliziotti che si aggiravano confusi per i cortili, manganelli e persino mitra alla mano, senza sapere bene da dove cominciare. A Poggioreale ieri, mentre una folla di parenti e solidali circondava le mura dell’istituto per portare solidarietà ai detenuti, alcune volanti si disponevano alla rinfusa lungo il perimetro dell’edificio, bloccando il traffico e fermando persone a casaccio, mentre da un blindato scendevano, posizionandosi di fronte al padiglione Firenze, una mezza dozzina di agenti con gli scudi in mano, protetti da una mantellina che li riparava dalla pioggia battente. A Modena e forse anche a Verona e ad Alessandria, da dove si attendono conferme ufficiali, dopo l’irruzione degli agenti nei reparti ci sono state almeno sei morti, di cui nessuno spiega nulla o quasi.
A Poggioreale la rivolta è cominciata intorno alle quattro del pomeriggio di domenica. Dopo l’ora d’aria alcuni detenuti hanno preso possesso dei padiglioni Napoli, Milano, Livorno e Salerno. Una trentina di persone sono salite sul tetto del Livorno. I corridoi sono stati invasi, i materassi bruciati, decine di estintori svuotati e tubi dell’acqua divelti fino ad allagare interi corridoi; i detenuti hanno raggiunto la sala colloqui e utilizzando i carrelli della mensa hanno sfondato i cancelli fino ad arrivare all’ultimo varco prima del portone principale d’ingresso, dove sono stati bloccati. Dopo circa due ore, mentre i detenuti degli altri padiglioni battevano con posate e pentole sulle sbarre e facevano scivolare dalle finestre le lenzuola bruciate, la rivolta è rientrata, fortunatamente senza scontri troppo violenti e senza le conseguenze tragiche che ha avuto la sollevazione nel carcere emiliano.
C’è tuttavia da fare qualche riflessione su quello che sta accadendo. Tra i detenuti si cominciano a intuire gli enormi rischi che un possibile contagio comporterebbe in una situazione di sovraffollamento e in un contesto insalubre e scarsamente igienizzato come quello delle prigioni italiane, nonostante all’interno la percezione del pericolo-virus sia minore che all’esterno (per esempio a causa dell’assenza di collegamenti con il resto del mondo via social network). Forse anche per questo, e per la totale assenza di informazione che i detenuti ricevono dagli organi penitenziari, le rivendicazioni sono ancora abbastanza generiche: al di là della richiesta di misure drastiche come indulto e amnistia, si protesta contro la cancellazione dei colloqui, si mescola il piano emergenziale con quello strutturale, ma sempre su un piano individuale (il provvedimento del tale magistrato di sorveglianza, i mancati lavori nel tale padiglione, e così via). Chi è entrato in carcere durante le rivolte ha colto una totale mancanza di politicizzazione delle proteste, che aggiunta a una ancora più grave assenza di sponde esterne rende difficile avanzare una proposta organica verso qualsiasi tipo di provvedimento. È forse anche per questo che tutte le rivolte hanno finito per spegnersi in poche ore senza nemmeno bisogno di una trattativa, come se non ci fosse nulla di concreto su cui concertare l’attenzione per arginare i rischi di contagio e allo stesso tempo aprire una discussione sulle condizioni carcerarie, a cominciare dal problema del sovraffollamento. Non è un caso nemmeno che a Salerno e nella quasi totalità delle carceri, a rimanere fuori dalle proteste siano stati i detenuti dell’alta sicurezza, quelli con reati associativi e con una pena non commutabile allo stato in misure alternative e che comunque a differenza dei detenuti comuni hanno una maggiore consapevolezza dei rapporti di forza, allo stato completamente sbilanciati, con l’istituzione carceraria.
Le questioni sono invece chiare: amnistia e indulto sono battaglie fondamentali da un punto di vista strutturale, ma al momento restano un obiettivo difficile da raggiungere, alla luce delle condizioni politiche generali. Già più accessibili le richieste di estendere la semilibertà (come già accaduto per i detenuti del carcere di Secondigliano, con la possibilità per quelli che hanno contatto con l’esterno durante la giornata di non rientrare in carcere per i prossimi quindici giorni, ma nelle loro case, durante la notte) e allargare i parametri per la detenzione domiciliare (per esempio, come si discute in questa fase, per tutti i detenuti con una pena residua inferiore a tre anni). Anche per questi provvedimenti, tuttavia, l’iter è complesso e i tempi non sarebbero brevi. Pur in presenza di un decreto governativo sarebbero i magistrati di sorveglianza a dover intervenire, dovendosi pronunciare sui singoli casi, in una fase tra l’altro in cui tutta la macchina funziona a scartamento ridotto.
In questo momento allora, oltre alla battaglia per un intervento perentorio sulle modalità di esecuzione della pena, sarebbe indispensabile aprire una battaglia, all’interno ma anche all’esterno delle carceri, perché il Dap imposti misure immediate e straordinarie di sanificazione, che intervenga per igienizzare reparti e padiglioni nelle cui celle vivono, in una situazione potenzialmente esplosiva, fino a dieci-dodici persone; perché vengano predisposte misure di prevenzione che possano permettere la ripresa dei colloqui e lo svolgimento delle attività di risocializzazione in un regime di sicurezza, considerando la difficoltà di prevedere la durata dell’emergenza Coronavirus.
Intanto, il pericolo immediato è quello della gestione delle proteste. Le morti di Modena ci danno indizio di una preoccupante escalation repressiva e di uno sdoganamento di pratiche finora estranee alle mura carcerarie. Allo stesso modo in queste ore l’incremento nella diffusione del virus presenta il conto alle fasce più deboli della popolazione. Se i più fragili da un punto di vista clinico sono gli anziani e le persone con patologie pregresse, socialmente a pagare di più sono i lavoratori precari, i non garantiti da tutele contrattuali e chi ha necessità assoluta di lavorare, e magari il problema della gestione familiare o dei figli che rimangono a casa a scuole chiuse. Allo stesso modo la sofferenza dei detenuti mette in risalto un paradosso: la permeabilità di quelle istituzioni totali che invece mostrano nell’isolamento la propria ragion d’essere, e tutte le criticità di gestione, ormai non più occultabili nell’ordinario, figuriamoci durante un’emergenza come questa. La crisi del Coronavirus può essere un modo per aprire gli occhi e ripensare il sistema, ammesso che ce ne sia un reale interesse. (riccardo rosa)
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