A inizio giugno, il ministro dell’interno, Matteo Piantedosi, ha dichiarato di voler effettuare un censimento degli immigrati irregolari. Nelle sue intenzioni, la rilevazione, pensata come triennale, dovrebbe prendere avvio in quattro regioni di aree diverse del paese: Lombardia, Toscana, Campania e Sicilia. Obiettivo ufficiale del Viminale non è individuare i “clandestini” per accelerarne il rimpatrio ma prevenire le discriminazioni e favorire il processo di “integrazione” di soggetti che, trovandosi in Italia in assenza di un’autorizzazione esplicita, non possono avere accesso a benefici e servizi, soprattutto di welfare. Lo strumento da impiegare è un questionario orientato a raccogliere informazioni sulla presenza irregolare, sull’economia sommersa e sulle attività di contrasto intraprese dalle prefetture.
L’idea di Piantedosi non è di certo nuova: ciclicamente, esponenti politici e, talvolta, figure che rivestono ruoli tecnici esternano il desiderio di “censire” gruppi specifici della popolazione, dando una forma più o meno credibile e realizzabile ai loro sogni panottici. Per rimanere all’ultimo quindicennio – ossia alla fase storica in cui la decretazione d’urgenza in nome della sicurezza costituisce la cifra espressiva dei governi, tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra – il pioniere è Roberto Maroni. Nel 2008, attraverso un’ordinanza di protezione civile, l’allora ministro dell’interno chiede di procedere all’identificazione delle persone che vivono in “campi nomadi”, partendo da tre regioni pilota: Campania, Lombardia e Lazio. L’iniziativa è accompagnata da una dichiarazione d’intenti “antidiscriminatoria”: «Il mio è un censimento, non una schedatura su base etnica». A suo dire, le buone intenzioni sarebbero confermate dal fatto che la rilevazione ha riguardato non soltanto rom – italiani, romeni e stranieri – ma anche “cittadini extracomunitari non rom”. Non sono però dello stesso avviso diversi organismi di livello statale ed europeo, che criticano e sanzionano duramente il comportamento delle istituzioni italiane.
Dieci anni dopo, è il turno di Matteo Salvini: in qualità di titolare del Viminale, il 18 giugno del 2018 dichiara pubblicamente la volontà di realizzare un «censimento dei nomadi», proponendo addirittura di istituirne «un’anagrafe». Anche nel suo caso, le intenzioni dichiarate non sarebbero discriminatorie: nessuna schedatura, secondo l’esponente leghista, ma soltanto un tentativo di tutelare «migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente perché si preferisce introdurli alla delinquenza».
Nel corso dello stesso anno, inoltre, è proprio Piantedosi a proporre un altro tipo di censimento, indirizzato a chi “occupa abusivamente” immobili: nel ruolo di capo di gabinetto del ministro dell’Interno, il primo settembre emana una circolare volta a dare istruzioni sulle procedure di sgombero, finalizzata “alla possibile identificazione degli occupanti e della composizione dei nuclei familiari, con particolare riguardo alla presenza all’interno degli stessi di minori o altre persone in condizioni di fragilità, oltre alla verifica della situazione reddituale e della condizione di regolarità di accesso e permanenza sul territorio nazionale”.
Tutte queste iniziative hanno un elemento in comune: sono descritte come attività di tipo censuario, funzionali alla conoscenza e all’integrazione di specifici gruppi sociali. La scelta terminologica è interessante: discutibile sul piano linguistico, è rivelatrice delle poste in gioco effettive alla base dell’impiego degli strumenti demografici.
Il censimento, per definizione, è un conteggio quanto più possibile completo della popolazione. Dovrebbe seguire quindi una logica “universalistica”, non selettiva. Le proposte avanzate nel tempo da Maroni, Salvini e Piantedosi sono però chiaramente “particolaristiche”, concentrandosi su categorie ben definite. A interessare le istituzioni sono soggetti individuabili e identificabili sulla base dello status legale, dello stile di vita, delle modalità abitative o di presunti tratti “etnici”.
La scelta di denominare “censimenti” quelle che, di fatto, sono schedature di polizia svela ambiguità più ampie e strutturali, proprie in realtà di qualunque strumento orientato a leggere la popolazione. I dispositivi demografici non sono elenchi neutrali di cose, fatti o persone. Parafrasando Umberto Eco, non si presentano come forme ma come liste. Tanto la forma quanto la lista sono rappresentazioni di qualcosa: mentre però la prima è completa, conclusa e finita, la seconda è incompleta e selettiva, e possiede inoltre un carattere intrinsecamente politico, stabilendo confini e istituendo distinzioni – affermate esplicitamente o evocate implicitamente – che hanno un significato affettivo e rimandano a valori e orientamenti di fondo. Elencare le persone che appartengono al medesimo gruppo sociale sulla base di una loro presunta pericolosità con l’obiettivo dichiarato di favorirne l’inclusione significa marcare la loro distanza rispetto al resto della popolazione.
Il censimento, peraltro, è diverso dagli altri strumenti demografici, ossia dallo stato civile e dall’anagrafe. Certamente, produce effetti rilevanti sulle appartenenze collettive: in molti paesi, le persone sono obbligate ad auto-definirsi e classificarsi in termini “etnici” o linguistici, collocandosi in griglie più o meno prestabilite e modificabili. In Italia, inoltre, determina la popolazione legale: un’entità statistica, costituita dall’insieme delle persone residenti effettivamente censite, strategica per il funzionamento dei comuni.
Eppure, il censimento non è in grado di attribuire uno status giuridico. È lo stato civile, infatti, che segna l’ingresso nel mondo istituzionale, agendo come un vero e proprio “battesimo laico” nei confronti di chi ha la cittadinanza italiana o, pur non avendola, nasce nel territorio italiano. Sancisce cioè l’esistenza legale, attribuendo un’identità giuridica, e registra poi altri eventi significativi: matrimonio, acquisizione della cittadinanza e morte. Rappresenta dunque, anche per le persone non registrate alla nascita, una porta d’accesso, seppur secondaria, all’ordinamento giuridico. L’anagrafe, invece, riconosce l’esistenza amministrativa, sancendo il legame – materiale o virtuale – con un comune e tenendo traccia di caratteristiche che consentono di precisare l’identità individuale. I due dispositivi sono collegati: una persona viene registrata nello stato civile del comune in cui nasce e, al contempo, nell’anagrafe dell’amministrazione locale in cui i suoi genitori hanno la residenza.
Il censimento è in grado di enumerare ma solo in parte di registrare. Negli studi sull’identificazione individuale, l’enumerazione è definita come un’attività unilaterale che ha l’obiettivo di estrarre informazioni per scopi amministrativi e di gestione della cosa pubblica. La registrazione, invece, è considerata un procedimento che porta a riconoscere giuridicamente l’appartenenza determinando l’inclusione in una collettività. Sebbene sia una tecnologia statistica e amministrativa che in parte definisce chi appartiene, il censimento non è in grado di garantire un pieno riconoscimento giuridico.
La scelta terminologica compiuta da Maroni, Salvini e Piantedosi è quindi impropria, in quanto i censimenti promessi o concretamente effettuati non hanno un target universalistico, ma allo stesso tempo è del tutto appropriata, dal momento che la loro intenzione è quella di controllare, non di fornire status legali e garantire l’esercizio dei diritti.
Non si tratta di un fatto sorprendente, se si rimane sul piano linguistico e si guarda alla storia delle parole e dei concetti. Georg Obrecht, un giurista attivo tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento, i cui lavori sono centrali nel processo di nascita e consolidamento dello stato moderno, sintetizza la sua idea di polizia – che, nell’accezione dell’epoca, coincide non con la semplice repressione del crimine ma con il potere esercitato dalle autorità allo scopo di garantire il benessere e aumentare la felicità della collettività – nella formula “census et censura”. Dalla sua prospettiva, l’obbligo di pagare le tasse va di pari passo con il compito istituzionale di farsi carico delle vite individuali. Paternalismo e disciplinamento, aiuto e controllo erano dunque, e sono ancora, del tutto intrecciati.
Per quanto possa sembrare paradossale, il modo più efficace per disinnescare le proposte di pseudo-censimento avanzate in questi anni è prenderle sul serio e portarle alle estreme conseguenze. Nel momento in cui dichiara di voler costruire una “anagrafe dei nomadi”, un attore politico come Salvini dovrebbe essere invitato a realizzare il suo progetto in modo compiuto. Sarebbe così costretto a giocare a carte scoperte: dando un seguito coerente alle proprie parole – ossia procedendo con una vera registrazione e con il riconoscimento della residenza – o, al contrario, mostrando le sue intenzioni reali – istituendo un registro pseudo-anagrafico a cui non è legato l’esercizio di alcun diritto.
Nel corso degli anni, inviti del genere, seppur in maniera indiretta, sono arrivati da attori istituzionali. L’Istat, in particolare, ha evidenziato a più riprese le ambiguità legate alla registrazione dei migranti irregolari: dato che il censimento è chiamato per legge a rettificare e aggiornare le anagrafi, le persone contate ufficialmente in occasione delle rilevazioni censuarie dovrebbero essere incluse automaticamente nei registri anagrafici.
Una circolare diffusa dall’Istituto nel 1991 prescrive ai rilevatori di non tenere conto, nel caso di persone non italiane, di elementi di “natura giuridico-amministrativa”: dato che la rilevazione non ha l’obiettivo di distinguere fra “regolari” e “non regolari”, è opportuno tenere traccia di tutti i soggetti che dimorano in maniera abituale a prescindere dal fatto che dispongano o meno di un permesso di soggiorno. A distanza di vent’anni – in uno scenario migratorio mutato e dopo l’emanazione della legge Turco-Napolitano del 1998, che riserva l’iscrizione anagrafica alle sole persone straniere “regolari” – il Manuale della rilevazione, prodotto in occasione del censimento del 2011, definisce la residenza come uno stato di fatto da riconoscersi anche se la persona, per qualsiasi motivo, non è iscritta nell’anagrafe della popolazione residente. Con discrezione, il documento suggerisce di includere nella popolazione legale anche chi, non avendo un permesso di soggiorno, non ha diritto all’iscrizione anagrafica.
Le richieste dell’Istat non hanno avuto un seguito effettivo – i migranti “irregolari” sono rimasti esclusi dalla rilevazione – ma rappresentano comunque uno stimolo importante, in quanto mettono in luce le contraddizioni del censimento e dell’anagrafe. Sono quindi un buon punto di partenza per una critica complessiva degli strumenti demografici, che sia in grado di svelarne il “lato oscuro”.
La “cattura” statistica e amministrativa di gruppi invisibilizzati è un’attività ambivalente. Se dal punto di vista delle istituzioni costituisce una risorsa strategica per ragioni securitarie e sanitarie, dalla prospettiva dei soggetti interessati è fondamentale per l’accesso a benefici e servizi ma, allo stesso tempo, è oggetto di diffidenza. A determinate condizioni, un migrante irregolare o una persona che appartiene a una categoria della popolazione considerata marginale o poco gradita può desiderare di sfuggire all’occhio indagatore di attori istituzionali percepiti come invasivi e minacciosi.
Se vuole essere efficace, la critica agli pseudo-censimenti e alle pseudo-anagrafi deve estendersi allora ai censimenti e alle anagrafi in quanto tali. Ossia, a dispositivi in apparenza tecnici ma, in realtà, intrinsecamente politici, che, nel momento in cui includono, tracciano confini invisibili e istituiscono classificazioni, esercitando un controllo sulle persone e sulle loro vite e dando forma alla popolazione. (enrico gargiulo)
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