Abbiamo comprato della terra, una striscia di prato schiacciata al sole, sassi, muretti a secco, un vecchio ciliegio con i rami troppo alti per permetterne la raccolta, un’antica varietà di mele rosse, piccole piccole e succose. Sparsi sulla montagna ci sono vecchi castagneti con alti alberi attorcigliati, usati un tempo come sostentamento, ora abbandonati, segnano percorsi perduti. I confini dei terreni sono vivi e definiti nella testa dei vecchi: una pietra messa di taglio, un canale accennato, il palo di una vite, un masso, un tronco coperto d’edera, un segno su un muro, lasciti, litigi, sudore. Nel campo ora crescono fagioli, cime di rapa, piselli, pomodori da serbo e altre verdure da mettere via, ogni stagione ci si prepara a quella successiva.
Seguendo come per le colture un calendario scandito dal meteo e dai santi, ogni anno passa la transumanza, la senti arrivare dal basso come un fiume in piena, una cascata di campane, muggiti, abbai e ruggiti in dialetto. Apre il corteo un camioncino arrugginito carico del materiale per i cento giorni che bestie e uomini dovranno passare in alpeggio, seguono persone con bastoni che indicano il passo, arriva la mandria, cani e ragazzi in canotta delimitano in maniera vigorosa il percorso, sul fondo altre persone inducono i capi più recalcitranti a camminare, un fuoristrada – o più spesso una panda 4×4 – e i bambini chiudono la manifestazione muovendo piccoli bordoni, sembra il primo maggio. Dietro al corteo, lenta e rassegnata, sale e sbuffa la coda di automobili. La montagna ha ritmi suoi, è refrattaria e concreta, anche le novità si adeguano. Le cose succedono lentamente, sarà l’altezza, lentamente si sale, lentamente ci si sposta e lentamente si parla. Ci si adegua al tempo e ai tempi, ci si adegua al freddo, alla neve, al sole di montagna, al ritmo delle stagioni, al vento che in valle soffia schiantando vecchi alberi, trascinando idee.
Nei campi per ogni tipo di pianta una non si tocca, si lascia che vada a seme per l’anno a venire, quando il vegetale ingiallisce si estirpa e si lascia seccare al sole, si passa quindi in un setaccio fine e si divide il seme dal resto, i semi poi si conservano o si barattano. Nei prati irrigui spontaneamente crescono la mentuccia, le graminacee, l’achillea, la silene, la lunaria, il timo serpillo, l’assenzio, la cerea (santoreggia), ed altri tipi di aromatiche e infestanti. Nei nostri campi l’erba cresce alta, sarà sostentamento per uccelli, api e un rifugio per gli animali selvatici, poi profuma di vita. La lunaria è una pianta strana, cugina prima dei cavoli e delle cime di rapa, da giovane ha dei piccoli fiori rosa violacei, col tempo produce dei tondi prima verdi e mediterranei poi bianchi opalini. Da secca adorna i tavoli delle persone anziane o dei locali alla moda, è conosciuta anche come Medaglioni del Papa, Moneta del Papa, Moneta pontificia, Occhiali del Papa, cappello del Papa, Papalina, dicono porti fortuna e protegga dai malanni. Quando lavori con incunaboli e seicentine capita alle volte di trovare a fine capitolo un fregio stampato detto “finalino” o “finaletto”; i miei preferiti sono quelli a tema floreale: piccole piante anche aromatiche, piccoli fiori curvati che vanno a chiudere vezzosamente anche i capitoli più seri e annoiati.
In biblioteca fra i doni ho trovato un fascicolo: “Ricerca sull’evoluzione a memoria d’uomo, della tecnica e del linguaggio viticolo-enologico in centri rappresentativi del Piemonte. La Valle di Susa” L’opuscolo è giallo cartonato, sopra un’immagine tratta da un libro antico raffigurante una vendemmia dalla raccolta alla mescita, all’interno alcune interviste in patois ad anziani abitanti di queste zone. Fra queste si parla di un vino locale, qui quasi del tutto perduto, il Carcairone, un Gamay, resistente al freddo e molto fruttato. Dagli anni Settanta queste vigne sono state lasciate, le viti inselvatichite si intrecciano e cadono come dita ricurve su terreni incolti. Nella zona della borgata del Castellazzo per coltivarlo erano diffusi gli alteni, campi in cui la vite veniva consociata alla coltivazione di alberi da frutto in modo da far sviluppare le piante in altezza creando un tetto di foglie. Il bosco ha mangiato il sentiero che porta ai campi terrazzati e alle case, da un pilone votivo dedicato alla Madonna devi girare a destra, superare un vecchio castagno schiantato e lì trovi d’improvviso una quarantina di case abbarbicate e dimenticate, questo è il Castellazzo. L’edera e le liane ricoprono i muri, dalle finestre rotte e dalle porte sfondate si possono osservare vecchi forni, materassi di paglia, strumenti, scarpe, bottiglie di vino e tracce silenziose.
Penso a Nanni Balestrini: “Avremmo potuto farne a meno / gli alberi fanno troppo rumore, /ma cosa ci stanno a fare // i cavalli, ciascuno per suo conto / avremmo finito per perderci, / fare ritorno, fare // tutto quello che vuoi, certe / volte gli alberi riescono / a crescere in direzione del cielo // aspirando l’esplosione dell’istante / inatteso, aspettando che finisca / di piovere, ispirati dall’istinto // correndo da una parte all’altra / ispidi, istigati dall’isteria, / il cuore pieno di bottoni,// le dita immerse, anguiformi,/ com’erano belle dalla barca, / soffiamoci sopra, fine”. (luca valenza)
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