Il fuoco si sviluppa verso l’alto con una certa rapidità. Il calore si diffonde intorno con la sua luminosità fluttuante. Presto la pira raggiunge diversi metri d’altezza. Tutto intorno un cerchio animato di ragazzi, bambini, adulti che fissano la danza delle fiamme come incantati. Nelle fiamme si intravedono sagome scure: alcune si accartocciano fino a ripiegarsi su se stesse e a cadere con uno schianto generando una nuvola di lapilli che si disperde nell’aria, altre mantengono orgogliosamente la loro posizione verticale, assottigliandosi nel fuoco fino a svelare la loro struttura essenziale. Qualcuno inizia una tammurriata.
La pira costituisce una cornice di significato nella quale il tempo è sospeso, in un’inspirazione prolungata che trattiene l’aria, fino allo spasimo. Carnevale brucia. Il fuoco crea uno spazio nuovo di possibilità nel quale poter continuare a produrre vita. La pira libera dal male affinché sia possibile, non tanto il bene, quanto il nuovo, l’ancora, l’inedito. Perché questo fuoco non sarà l’ultimo e non è il primo, ma inizio e fine, fine e inizio.
L’incendio di carnevale non è un raptus, lo sfogo improvviso e brutale di una tensione che si accumula e cerca una scarica. L’incendio arriva alla fine di un percorso durato alcuni mesi. Un percorso che potrebbe legittimamente dirsi democratico, se questa parola non si fosse pervertita attraverso l’abuso propagandistico che se ne fa di continuo.
Da quasi vent’anni a Napoli, con un effetto virtuoso di reciproca contaminazione, il carnevale è stato sottratto all’idiotismo consumistico e alla patetica e compulsiva routine del lancio delle uova, espressione di una violenza non mediata, non elaborata, agita con sorriso stolido sul mantra del “a carnevale ogni scherzo vale”. In un crescendo di partecipazione popolare il carnevale ha ritrovato la dimensione sociale, nel senso più autentico della parola, costruendosi nella pratica assembleare, nel confronto, nei laboratori di strada e nella condivisione di una poietica. Una creatività costruita da estranei spalla a spalla, che genera vicinanza, simpatia, fratellanza.
Il carnevale sociale, che anno dopo anno si è esteso sulla città, da Scampia a Montesanto, dal centro storico a Gianturco, dalla Sanità a Materdei, a Soccavo, e così via, ha dato vita a una pratica democratica, non gestita dal potere del momento sul palinsesto della propaganda del momento, ma sul coinvolgimento degli abitanti dei quartieri, trovando un senso e una caratterizzazione propri a secondo della realtà da cui prendeva forma.
Per questa sua dimensione sociale, democratica, popolare, la preparazione del carnevale ha via via assunto un profondo valore educativo. Nella sua complessa morfologia hanno trovato collocazione alcuni centri educativi, come i laboratori di educativa territoriale. È anche in questo contesto che la parata che precede il falò va pianificata: bisogna ideare il modo di starci, il messaggio da portare, il modo di caratterizzarsi in un contesto ricco di immagini, suoni, significati. Educatori e ragazzi decidono insieme come declinare il tema del carnevale scaturito da un processo assembleare in cui si confrontano diverse visioni: politiche, sociali, educative. Dal confronto con i ragazzi scaturisce il progetto di un “carro”, spesso composto da materiali di risulta: legno, cartone, giornali vecchi; poi colla vinilica, colla a caldo, scotch carta, un po’ di pittura e, negli anni ricchi, una rete metallica. La realizzazione del carro è un processo intergenerazionale: come accade a Tom Sawyer mentre dipinge la staccionata, ognuno si avvicina per aggiungere uno strappo di scotch, una pezza di cartapesta, ognuno contribuisce in qualche misura alla crescita di questo “mostro” che occupa per settimane un’importante porzione di spazio all’interno del centro, con grande disappunto di chi è incaricato di fare le pulizie.
Il carro non è un oggetto quindi, ma un contesto. La sua presenza caratterizza lo spazio, tutto il materiale di lavoro si espande in un movimento centrifugo che investe ogni cosa e ogni ambiente. I ragazzi partecipano con un’aspettativa crescente, curiosi di vedere la forma definitiva del lavoro che stanno facendo. Partendo da un insieme amorfo di materiali, alcuni evidentemente scadenti e brutti, pian piano prende forma quello che era solo un disegno su carta, un progetto abbozzato. La meraviglia del processo poietico fornisce ai ragazzi la consapevolezza di quanto potente sia l’unione di creatività e manualità, e di come sia necessario credere nella possibilità di creare, di quanto sia importante avere fiducia nelle proprie potenzialità trasformative, di come la dimensione cooperativa moltiplichi in modo esponenziale le potenzialità individuali.
C’è un altro elemento che, insieme alla meraviglia, concorre a far crescere la tensione che nutre la costruzione del carro: la consapevolezza che verrà bruciato. Il destino di cenere è un fattore che sconcerta i ragazzi. Lavorare così tanto per realizzare una cosa che verrà distrutta sfida la loro capacità di comprensione. Eppure, la prospettiva del rogo li attrae perché incanala tutte le valenze simboliche che sono in ballo verso un esito liberatorio, conturbante, erotico.
Da diciotto anni generazioni differenti di ragazze e ragazzi assistono alla pira nella quale viene ridotto in cenere il frutto del lavoro di settimane. Il loro sconcerto non si è mai mutato in opposizione, ma sempre in trepidante attesa, tanto che il carico di lavoro per la preparazione della sfilata diviene tollerabile solo in virtù del fuoco atteso.
La violenza simbolica del rogo rende superflua la violenza agita. Il processo di produzione e distruzione dà significato a un investimento energetico finalizzato, che non si disperde in gesti privi di fondamento che non abbiano altro senso se non la scarica pulsionale in sé. Il carro è un accumulatore di energia che viene liberata dal fuoco: di questo le ragazze e i ragazzi sono intimamente coscienti.
È con questa carica energetica che anche quest’anno ci siamo ritrovati a piazza del Gesù, ma contrariamente a quanto atteso non c’è stata nessuna liberazione, nessuna rigenerazione, nessun fuoco. La parata di carnevale è stata presidiata dalla polizia in borghese, che ha identificato e minacciato quelli che pretestuosamente individuava come gli organizzatori, affinché in piazza del Gesù non si accendesse il rogo.
Nella città che con orgoglio vende il suo corpo ai turisti, che non riesce a dare di se stessa un’immagine che non sia legata al cibo, al mangiare, al deglutire, al cacare, che non riesce a sviluppare consapevolmente una funzione superiore al catabolismo, la pratica simbolica della pira viene repressa dalle forze dell’ordine.
La dimensione della festa terrorizza il potere al punto da diventare intollerabile, al punto da costringerlo a sguinzagliare i suoi sgherri contro un contesto gioioso e transgenerazionale. Questa amministrazione comunale, non differenziandosi dal governo nazionale a cui dovrebbe, ma solo sulla base di astratte concezioni, essere alternativa, preferisce mantenere una coerenza interna alla sua narrazione, secondo la quale i giovani costituiscono un pericolo. Secondo questa narrazione adolescenti e preadolescenti sono protagonisti di un’aggressione alla città che disturba la digestione di acquirenti venuti da ogni parte del mondo. Baby gang, malamovida, microcriminalità, paranze di bambini, disturbano la preparazione di fritture di paranza inducendo preoccupati cittadini a chiedere aiuto in ogni telegiornale, su ogni testata locale o nazionale.
La pedagogia del merito, violenta e repressiva, non l’ha inventata Valditara, lui semmai ambirebbe a esserne un filosofo. Il modo feroce in cui si vorrebbe dare risposta al disagio generazionale che deriva dal nostro attuale sistema simbolico di riferimento è un patrimonio condiviso da tutti quelli che vorrebbero pacificamente godere dei propri privilegi economici e sociali senza dover fare i conti con le conseguenze di quei privilegi: si rimprovera ad adolescenti e preadolescenti di essere violenti, anaffettivi e irresponsabili, ma non si accetta di farsi carico del loro disagio, della loro sofferenza o, comunque, dei loro bisogni e delle loro richieste. Quindi, si invoca il bastone.
Se in una città come Napoli si sente il bisogno di fare un esercizio muscolare sulla parata di carnevale, e non di un carnevale qualunque, ma di quello sociale, di quello democratico, di quello capace di convogliare le energie degli adolescenti e dei preadolescenti che terrorizzano i borghesi attempati, autoctoni o turisti, tutti comunque adepti al culto della pizza, incanalandole verso la simbolizzazione e liberandole attraverso la pira, allora vuol dire che siamo agli sgoccioli, che il tempo è poco.
C’è un disegno egemonico di cui il fascio e l’orbace sono solo una nota a margine. È in corso un tentativo disciplinare su larga scala che rischia di non incontrare più nessuna forma di resistenza che abbia coscienza di se stessa. L’unica vera opposizione è nell’energia immediata, priva di controllo, talvolta disperata che ragazzi e ragazze agiscono in modo violento scorrendo sulla superficie delle cose, presi nelle rapide di una pulsionalità che non concede tempo alla riflessione, all’indagine introspettiva.
Il carnevale sociale è una delle possibilità di dare forma a quelle domande inespresse senza reprimerle, dando loro una possibilità di elaborare simbolicamente vissuti che, incompresi, generano scariche violente. Minacciare il carnevale, reprimerlo con atti intimidatori, significa accettare l’idea di uno scontro generazionale che non può avere nessun vincitore, che può configurarsi solo come scenario di morte.
C’è ancora un anno per preparare il prossimo carnevale sociale. C’è ancora un anno per pianificare la sua organizzazione, per rivendicare esplicitamente la sua politicità. Ormai è chiaro che questo spazio di agibilità, di libertà, di festa, non è più garantito, sta a tutti noi quindi difenderlo e mantenerlo vivo. (emiliano schember)
Eccellente articolo,
Thought-provolone
Induce a riflettere sul tempo delle cose e degli eventi.
Il carnevale sociale rappresenta l’anima del popolo napoletano e va difeso!