«L’ingresso nel Cpr di Milano mi ha fatto sobbalzare perché ho riconosciuto dei campanelli d’allarme di un luogo pericoloso per la salute – racconta Nicola Cocco, medico infettivologo e attivista della Rete Mai più lager – No ai Cpr. Lì mi è tornata in mente una frase di Franco Basaglia quando, diventato direttore del manicomio di Gorizia, entrò per la prima volta in manicomio e disse: “Questo è un lager”. Senza mezzi termini, senza paura di dover giustificare una parola così pesante. Ecco, io ho avuto lo stesso senso di ripulsa nei confronti di un luogo che avvertivo come pericoloso dal punto di vista della salute. Un luogo che ha delle caratteristiche di degrado, sofferenza e abbandono che vanno al di là del nostro consesso civile, che rimanda a luoghi altri: sporcizia, assenza di ogni strumento che possa garantire la privacy; sia i bagni che le docce non hanno le porte, perché potrebbero essere utilizzate per gesti autolesivi o per le risse e quant’altro; un luogo spoglio dove c’è un televisore e basta, di cui di solito non hanno nemmeno il telecomando e poi non c’è nient’altro. Che cosa fa una persona privata della libertà in un luogo spoglio? Soffre. La patogenicità del luogo sta proprio nel suo essere strutturato come un ambiente opprimente e vuoto dove anche se uno sta bene si ammala».
Dopo la specializzazione in malattie infettive, Nicola Cocco ha lavorato per associazioni e organizzazioni non governative svolgendo diverse missioni in Africa. Per alcuni anni è stato anche consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in qualità di esperto nel controllo della tubercolosi. Poi nel 2020, in concomitanza con l’inizio dell’emergenza epidemiologica, è tornato in Italia dove ha lavorato prima in ospedale e infine come medico infettivologo negli istituti penitenziari di Milano. L’esperienza in Africa, il lavoro nelle carceri e una sensibilità particolare per la salute delle persone migranti, che lo aveva visto impegnato come volontario già durante gli studi, hanno portato Nicola a interessarsi sempre di più dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio e ad aderire alla Rete Mai più lager – No ai Cpr. Grazie alla Rete, Nicola ha avuto l’opportunità di entrare nel Cpr di Milano come consulente medico dell’ex senatore Gregorio de Falco nella sua seconda ispezione del 29 maggio 2022.
Durante la sua visita Nicola racconta di aver applicato un protocollo di valutazione dei luoghi dove vivono comunità ristrette visitando prima gli spazi di cura e costatando che quello che veniva definito un ambulatorio medico non era altro che un presidio infermieristico dove gli infermieri erano presenti ventiquattro ore su ventiquattro mentre i medici solo otto ore al pomeriggio. Osserva poi come vengono tenuti i farmaci e nota la presenza di diversi psicofarmaci, consulta quindi le cartelle cliniche, dopo aver avuto l’autorizzazione dei singoli detenuti, e trova in molti fogli di terapia la conferma della somministrazione di psicofarmaci. Scorre dunque il registro degli eventi critici che riportano annotazioni quasi quotidianamente di atti lesivi, di violenza o protesta. Parla con i medici e gli infermieri che mostrano di non capire a fondo il luogo in cui operano. Dopodiché entra con il senatore De Falco e altri attivisti nei blocchi di detenzione per parlare direttamente con le persone detenute rendendosi conto che ci sono tra loro persone con problemi di salute cronici sconosciuti ai medici, come un diabetico che prendeva di nascosto degli ipoglicemizzanti orali oppure persone che mostravano evidenti problemi di salute mentale o avevano arti fasciati a causa di lesioni auto-procurate. Il resoconto della visita verrà poi pubblicato un anno dopo in un rapporto dell’ex senatore De Falco dal titolo “Delle pene senza delitti”.
«Moussa Balde – morto nella notte tra il 22 e il 23 maggio 2021 in una cella dell’area d’isolamento del Cpr di Torino – non aveva problemi di salute mentale. L’avevano fracassato di botte ed è entrato nel Cpr che aveva ancora la testa fasciata, quello sì, ma non aveva problemi di depressione, di ansia. È stato il Cpr che lo ha reso disperato: il fatto di non capire perché stava là dentro. Io credo che una persona ci metta due o tre settimane per capire perché viene privato della libertà per il permesso di soggiorno non in regola. Ci mettono tempo a metabolizzare e Moussa Balde non ce l’ha fatta, anche perché lui era vittima dell’aggressione razzista. E poi, soprattutto, il Cpr è un luogo dove non si riesce a prendersi carico dei problemi di salute. Moussa Balde, così come anche Ousmane Sylla – morto il 4 febbraio nel Cpr di Ponte Galeria –, avevano detto più e più volte di stare male. Addirittura per Ousmane Sylla la psicologa del Cpr di Caltanissetta l’aveva certificato. Se uno è disperato, se non ha la forza di reagire, fa qualcosa di eclatante, di violento, e alla fine si sono uccisi. Quella violenza l’hanno esercitata contro loro stessi e il Cpr di questo non è riuscito a prendersi carico assolutamente.
«Quindi degrado, sofferenza e poi abbandono. Qua mi rifaccio ancora a delle categorie basagliane perché nei Cpr non c’è un orizzonte di vita, che nel carcere può essere banalmente la scarcerazione o anche solo il fatto di sapere che tu stai scontando una pena per un reato. Nei Cpr non c’è così come non c’era nei manicomi. Nel Cpr ti dicono: “Devi essere rimpatriato, ma non sappiamo quando avverrà”. Quando poi avviene, avviene in maniera traumatica perché avendo paura che ti tagli, che fai dei gesti dimostrativi, ti vengono a prendere senza preavviso, alle quattro del mattino, col manganello, di solito. Ti danno un saccone dell’immondizia dove mettere le tue cose. Il medico, se c’è, fa finta di ascoltarti per vedere se puoi fare il viaggio. Ti portano sull’aereo e ti deportano. Così funziona il rimpatrio».
L’interesse per le condizioni dei detenuti nei Cpr spinge Nicola prima a consolidare le sue conoscenze e poi a partecipare a un bando del Fondo asilo migrazione e integrazione per “L’implementazione di un sistema di monitoraggio dei rimpatri forzati”. Viene quindi selezionato e assunto presso l’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Un lavoro che lo porterà nel tempo a visitare molti centri di detenzione amministrativa in Italia affinando sul campo quel metodo di analisi che aveva applicato per la prima volta nel Centro di via Corelli. Osserva le strutture, parla con il personale medico, ascolta le persone detenute e redige rapporti che confluiranno nella Relazione al Parlamento presentata dal garante Mauro Palma nel giugno del 2023. Chiedo a Nicola di raccontarmi gli aspetti più eloquenti e contraddittori che ha potuto osservare durante quelle visite.
«Sono due le cose più rappresentative, da una parte il cieco detenuto a Bari, che viveva forse per strada o in una baracca, in Italia da quaranta anni, fermato e poi portato nel Cpr perché non aveva rinnovato il permesso di soggiorno. Possiamo chiamare “rimpatrio” quello di una persona malata che non torna nel suo paese da quaranta anni, dove non ha più alcuna relazione? Dall’altra i luoghi di isolamento. Ne ho visti diversi. A Bari non poteva essere neppure utilizzato perché ci entravano gli animali da fuori a farci le deiezioni. A Macomer invece la stanza era simile a quelle che nei manicomi si chiamavano a-traumatiche con i cuscini alle pareti e un materasso a terra. Al suo interno ci stava una persona ventiquattro ore al giorno perché aveva minacciato di tagliarsi dopo aver chiesto il rimpatrio volontario in Algeria e l’Ufficio immigrazione non gli dava risposta. Davanti a quel luogo mi sembrava di stare in un altro mondo, stavo vedendo una cosa che appartiene a un’altra epoca».
Finita l’esperienza lavorativa nell’ufficio del Garante, Nicola continua a occuparsi di detenzione amministrativa partecipando attivamente alle attività della Rete Mai più lager – No ai Cpr. Il suo impegno assume un carattere più politico, anche se mai ideologico, ci tiene a precisare, suffragato sempre dalle evidenze professionali. Continuano anche gli accessi al Cpr di via Corelli, ora con consiglieri regionali o parlamentari di opposizione, che gli consentono di monitorare le condizioni di salute dei detenuti e di evidenziare quando queste sono incompatibili con la reclusione.
«Queste esperienze mi hanno portato a interrogarmi su quale può essere il ruolo del personale sanitario, e sulle motivazioni profonde che portano all’esistenza di questi posti. Il discorso dei medici è molto semplice. Noi abbiamo il giuramento di Ippocrate che ha un suo peso, anche se si pronuncia senza neanche interrogarsi bene su ciò che viene detto. Però dal giuramento di Ippocrate deriva il Codice di deontologia medica che dice chiaramente che se ti viene richiesto di valutare una persona va fatto in scienza e coscienza e con le modalità, anche di relazione, che ti permettano di dire: io ti sto valutando.
«Col gruppo No Cpr salute e anche con l’Asgi e con la SIM siamo arrivati a una conclusione: se il Cpr è un luogo di degrado, sofferenza e abbandono, è accettabile che un medico dichiari idoneo qualcuno ad andarci a vivere dentro? Questa è la domanda che abbiamo posto a dei bioeticisti e loro ci hanno risposto dicendoci che l’articolo 32 del Codice di deontologia medica dice che un dovere del medico è quello di proteggere il suo assistito soprattutto se vulnerabile da contesti ambientali che mettono a rischio la sua salute. Per noi il Cpr è un luogo che mette a rischio la salute e quindi il medico non può fare un atto che indirizza la persona nei confronti del Cpr, cioè viola l’articolo 32 del Codice di deontologia medica.
«Con la “Campagna di presa di coscienza dei medici e del settore sanitario sulla certificazione di idoneità delle persone migranti alla vita nei Cpr”, che è partita a gennaio 2024, stiamo andando in giro a spiegare che cosa c’è all’interno dei Cpr e a spingere a dichiarare inidonei tutti sulla base di questi discorsi che vanno dalle evidenze di patogenicità agli aspetti deontologici, a quelli medico legali. Ci rendiamo conto di chiedere tanto perché non si tratta di fare una valutazione clinica, ma di dire che anche uno sano per il Cpr non è idoneo, però può essere fatto in scienza e coscienza, è un atto firmato che può essere messo in discussione solo rivolgendosi al tribunale e richiede una contro-perizia. Le questure finora non l’hanno mai fatto perché lo sanno che questo significherebbe fare emergere il discorso dei Cpr a livello giudiziario e abbiamo visto che quando le procure arrivano, traballano i Cpr, e quindi le questure finora non hanno mai ribattuto alle valutazioni di inidoneità che stanno facendo i medici che partecipano alla campagna.
«C’è poi la motivazione medico-legale che per me diventa secondaria ma perché io faccio il medico umanitario, però il discorso è: il medico che ha dato l’idoneità a Moussa Balde non riconoscendo il suo grado di sofferenza, oppure il medico che dice che una persona sta bene e questa dopo due-tre giorni sviene in ipoglicemia perché diabetica o ha un attacco epilettico, non hanno una responsabilità penale? Noi finora non abbiamo mai voluto fare la denuncia ai medici che danno l’idoneità senza coscienza, però di fatto in alcuni casi ci sono gli estremi. Quindi, evidenza della patogenicità, deontologia, responsabilità medico-legale giustificano questa richiesta della campagna di dare l’inidoneità». (a cura di salvatore porcaro)
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