Il termometro del bar sull’Appia segna ventisette gradi. Sono le undici di mattina di martedì 5 maggio. È il parcheggiatore a indicarmi la direzione giusta: «Prendi la prima a sinistra e vai sempre dritto, poi, alla rotonda, la seconda a destra». Percorro un paio di chilometri, lasciandomi alle spalle camion e capannoni, e ritrovo finalmente la strada che conduce agli stabilimenti Indesit. Di fianco c’è il più grande deposito Conad d’Italia, uno della Sisa e un altro dell’MD Discount. Riforniscono di merci tutta l’Italia meridionale. Durante la prima settimana di sciopero è stato bloccato l’accesso anche ai loro depositi. Hanno chiesto un milione e mezzo di euro di risarcimento per i danni subiti.
Il presidio davanti alla produzione conta una cinquantina di persone. L’aria sembra tesa, i movimenti convulsi e le voci tuonanti. Tutto lascia pensare a una frattura, una crepa apertasi nel blocco della vertenza. A mostrarla è il semaforo diventato verde. Stamattina quattrocento operai hanno varcato l’ingresso dello stabilimento produzione raggiungendo le loro postazioni. Si fermeranno solo per due ore, dalle quattordici alle sedici, quando i loro rappresentanti sindacali incontreranno governo e azienda nella sede del ministero dello sviluppo economico. I blocchi continuano invece negli altri due stabilimenti, dove gli addetti alla logistica sbarrano l’ingresso ad auto e camion. Ieri, nel retro di un autocarro in uscita, hanno scovato un carico Whirlpool occultato dietro altre merci. Ne è quasi nata una colluttazione.
Dopo una mezz’ora nel piazzale, passata a fumare e chiacchierare, incontro finalmente Raffaele. A suggerirmi di parlargli è stato Sebastiano, la prima persona che ho conosciuto qui a Carinaro. Raffaele ha sessant’anni, lo sguardo privo di malizia, la voce flebile che esprime una tenerezza quasi fanciullesca. La sua famiglia è stata la fabbrica. È entrato all’Indesit nel ’77. Il posto di lavoro se l’è conquistato con i presidi fuori allo stabilimento insieme ai compagni di Democrazia Proletaria. Ora è delegato per la Fiom, il secondo sindacato per numero di iscritti qui a Carinaro. «Questa è casa mia e non potete cacciarmi fuori. Così ho detto a Roma. Tutto quello che abbiamo avuto in questa terra l’abbiamo conquistato con le lotte. Qui all’Indesit, negli anni Ottanta, c’erano dieci capannoni e lavoravano più di seimila operai. Ora ne sono rimasti solo tre. Quando parliamo dell’Indesit parliamo di un marchio secondo solo alla Fiat. Qui si produceva di tutto. Io vengo dallo stabilimento numero quattordici, dove si facevano i compressori. Quando sono stato assunto c’era ancora la vecchia Indesit. Poi è arrivato Merloni e c’è stato un bel periodo dentro la fabbrica: venivano organizzate feste, attività, iniziative con i bambini. Anche i ritmi di lavoro erano diversi. Si lavorava senza subire la pressione della produttività esasperata, delle consegne, della competitività. Era un altro modo di intendere il lavoro… I due stabilimenti produttivi erano: lavatrici a carica frontale, prodotte a Teverola, e frigoriferi da incasso, prodotti a Carinaro. Nel 2013 è stato presentato il Piano Indesit Italia, che ha portato a una serie di problemi, tra cui la chiusura dello stabilimento di Teverola, collegata alla chiusura, nel 2011, di alcuni stabilimenti del Nord: None, Brembate e Refrontolo. Per chiudere lo stabilimento di None portarono a Carinaro un prodotto che facevano loro: la lavatrice a carica dall’alto. Ovviamente la sensazione era che qui le cose fossero state sistemate per un lungo periodo, perché avevamo tre tipi di produzione. La produzione di queste lavatrici a carica dall’alto è durata in realtà solo un paio d’anni, fino al 2013, e quindi abbiamo avuto prima la sensazione e poi la conferma che quella mossa fosse stata fatta solo per giustificare la chiusura dello stabilimento di None».
Il gioco del trasferimento delle linee da uno stabilimento all’altro è stato, ed è ancora, quello preferito dalla multinazionale per attuare i suoi piani di ristrutturazione aziendale. Un trucco per ingannare sindacati, governi e lavoratori, inducendoli a stare buoni e ad accettare le decisioni dell’azienda. «Nel 2013 il Piano Indesit Italia fu sottoposto al voto dei lavoratori che, forse anche un po’ per paura, votarono in maggioranza per il sì. Votarono contro soltanto gli iscritti alla Fiom».
In quegli anni la multinazionale fabrianese era leader assoluta in Italia, Russia e Regno Unito, e tra i primi in Europa nella produzione di grandi elettrodomestici. Il suo fatturato ammontava a più di due miliardi e mezzo di euro. Il piano del 2013 prevedeva la chiusura dello stabilimento di Teverola con il trasferimento della produzione di lavatrici a carica frontale in Turchia; il trasferimento della produzione di lavatrici a carica dall’alto in Polonia; il trasferimento a Carinaro delle linee per la produzione dei piani cottura, che andavano a sostituire la produzione di lavatrici a carica dall’alto; e il blocco dei licenziamenti fino al 2018.
I manager la chiamano competitività. Le sue leggi impongono una regola: quando in un paese le pressioni esercitate su salari e diritti non sono sufficienti a garantire la massimizzazione del profitto, occorre preparare i bagagli. Ad attendere ci saranno una miriade di altri paesi disposti a offrire le loro ampie, economiche e docili riserve di manodopera. «Lo stabilimento di Teverola – continua Raffaele – pur essendo al vertice in termini di produttività, rappresentava per l’azienda una perdita, poiché si producevano macchine di bassa gamma. In sostanza non ci guadagnavano abbastanza e quindi dovevano chiudere».
Quello sferrato agli operai e alle operaie di Teverola nel 2013 fu in realtà il classico attacco di una multinazionale ai danni dei suoi stessi lavoratori, in quei paesi in cui questi conservano ancora qualche brandello di diritto a protezione di salari e occupazione. Ad accogliere le lavatrici di Teverola e Carinaro furono gli stabilimenti di Manisa, in Turchia, a seicento chilometri da Istanbul, e quelli di Radomsko, nella zona economica speciale (Zes) di Lodz, una delle diciannove Zes della Polonia. Zone “speciali” perché esenti dall’osservanza di una serie di norme; zone libere da obblighi, diritti, imposte, tariffe, regole, e capaci di far triplicare i guadagli delle imprese multinazionali. Guadagni che sembrano non bastare mai se si considera che, nell’ultimo ventennio, grazie alla liberalizzazione dei mercati e ai continui sgravi fiscali, hanno conosciuto solo fasi di espansione. Negli USA, in Italia e in Germania il peso delle imposte applicate dai governi su queste imprese è addirittura diminuito del venti per cento dalla metà degli anni Novanta al 2010.
Sono le tredici quando Raffaele si allontana per seguire gli sviluppi della vertenza all’interno dello stabilimento. Rimango con Sebastiano e la moglie incinta di otto mesi. Mi parlano della casa, del mutuo e del bambino che aspettano. «Non so cosa fare. Non so dove andare a bussare se chiudono lo stabilimento. Ho sempre lavorato come un ciuccio nella mia vita e questo è il risultato. Quello che mi fa più rabbia è che la Whirlpool ha deciso di chiudere non perché siamo improduttivi; anzi, ogni tre mesi prendiamo il premio per l’efficienza in base agli accordi fatti con l’Indesit Company, perché raggiungiamo gli obiettivi di produzione. La loro decisione è legata al fatto che vogliono risparmiare unificando le tipologie di prodotto: cioè creare in diversi punti d’Italia una serie di poli dove concentrare produzioni dello stesso tipo. Hanno detto che la produzione di frigoriferi che facciamo noi deve andare a Varese e che i piani cottura andranno invece a Melano, nelle Marche. Satureranno questi due stabilimenti e chiuderanno Carinaro. Io sono convinto che sia lo stesso trucco utilizzato l’altra volta: prima dicono che vogliono risparmiare unificando le tipologie di prodotto e saturando alcuni stabilimenti con il trasferimento delle linee e poi, quando tutto si calma, le spostano di nuovo. Cioè questi ogni tanto si inventano la storiella del trasferimento di produzione e con questa scusa chiudono gli stabilimenti. Carinaro doveva essere il polo principale per i piani cottura. L’hanno detto loro nel 2103, non io. Com’è possibile che due anni dopo vogliono licenziare tutti? Il punto è che Whirlpool, quando ha acquisito l’Indesit, ha confermato la volontà di rispettare il piano Indesit Italia e quindi l’accordo sul blocco dei licenziamenti fino al 2018. Hanno firmato e ora devono rispettare l’accordo!».
Sono da poco passate le quattordici quando la conversazione viene interrotta dal frastuono delle voci degli operai in uscita dalla fabbrica. Sono circa duecento. Si fermano in blocco davanti all’ingresso dello stabilimento. Sono agitati, i volti segnati. A loro si uniscono subito gli operai del presidio: ne nasce un’assemblea spontanea. Decidono per un’azione incisiva. Alle quattordici e venti parte il corteo. Alle quattordici e quaranta siamo sull’asse mediano, all’altezza della rampa di Teverola. Lo striscione con la scritta “Lavoratori Whirlpool – Ex Indesit” invade la carreggiata. Sull’asfalto bollente siedono in più di duecento. Il coro è all’unisono: «La gente come noi, la gente come noi, la gente come noi non molla mai!». La frattura si ricompone. (giuseppe d’onofrio)
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