Sul louage, il minibus che mi porta a Kebili, nella Tunisia centrale, dalla vicina Douz, l’autoradio trasmette un brano di Ennio Morricone tratto dalla colonna sonora di un famoso film di Sergio Leone.
Mentre guardo il paesaggio semidesertico scorrere oltre il finestrino penso ai giovani, alle ragazze, ai bambini che sfidano la letale frontiera del Mediterraneo centrale come ad altrettanti eroi western dei nostri tempi. Per chi riesce a non farsi uccidere dalle sofisticate armi della fortezza Europa, c’è spesso in palio solo un pugno di dollari. Di euro. Forse. Il paragone regge per pochi minuti, il tempo di trovare il taxi che mi porterà a casa di Wissem.
Durante il tragitto intravedo un murale. C’è scritto “I have a dream”, e sotto ci sono disegnate palme e case basse con il tetto a cupola, un paesaggio stereotipato della Tunisia. Non so chi lo abbia dipinto né cosa avesse in mente, però mi ricorda una conversazione con Chiara Pagano, ricercatrice che si occupa di confini e mobilità in Nord Africa all’università di Graz. «Chi cerca di partire clandestinamente dalla Tunisia non lo fa necessariamente perché attratto dalla vita occidentale o dalla cultura europea, ma per mettere insieme una somma sufficiente a costruirsi un avvenire nel proprio paese», mi aveva detto.
Arrivo a destinazione poco dopo le dieci di mattina. Trovo Maram, quattordici anni, ad aspettarmi sull’uscio. È la sorella più piccola di Rania, ventun anni, che mi accoglie insieme alla madre, Henda, con tè e datteri. Maram, Rania e Henda sono le due sorelle e la madre di Wissem Ben Abdellatif, il ventiseienne che il 28 novembre dell’anno scorso è morto all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato legato mani e piedi per oltre cento ore complessive, pesantemente sedato e senza poter consultare un mediatore culturale che gli spiegasse la sua situazione. Morto dopo che i valori fortemente alterati delle sue analisi del sangue erano stati apparentemente ignorati dai medici del reparto. Morto dopo essere stato detenuto nel Cpr di Ponte Galeria, dove con i suoi compagni di reclusione aveva protestato per i suoi diritti attraverso uno sciopero della fame e comunicando sui social network.
Wissem era partito da Kerkennah, un’isola al largo di Sfax, a meno di cento chilometri da Lampedusa, il 2 ottobre 2021. Aveva il progetto di raggiungere uno zio in Francia per lavorare con lui. «Mi ero opposta a quella partenza – racconta, commossa, la madre di Wissem –, ma lui mi aveva detto: mamma, tu sei stanca, papà è stanco. Mi voglio prendere le mie responsabilità, parto».
Le parole di Henda mettono in evidenza tutta l’inadeguatezza di quelle di Vincent Cochetel, inviato speciale nel Mediterraneo centrale e orientale per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Durante la “Commemor’action”, una manifestazione organizzata lo scorso settembre a Zarzis da varie realtà, tra cui l’associazione delle “Madri dei migranti scomparsi”, di cui fa parte Rania, Cochetel aveva criticato su Twitter le donne che stavano commemorando i loro familiari scomparsi. Le aveva accusate di “incoraggiare o finanziare i loro figli” allo scopo di farli partire clandestinamente.
All’inizio di settembre, Rania e le altre donne dell’associazione “Madri dei migranti scomparsi” hanno firmato un documento per prendere le distanze dal responsabile Unhcr. «Non sono le madri a incoraggiare i figli», insiste Henda. Piuttosto, punta il dito sulla mancanza di opportunità per i giovani in Tunisia. Un dato di fatto incontrovertibile, se si pensa che nel paese il tasso di disoccupazione giovanile si aggira intorno al quaranta per cento, mentre gli stipendi in media non arrivano a trecento euro, con dati peggiori a sud e nelle aree interne. Con l’inflazione in crescita e i prezzi in aumento in tutti i settori, sempre più spesso anche chi ha un lavoro non riesce a sostenere le spese per beni e servizi di prima necessità. Oggi scelgono la harga, la migrazione irregolare, anche le persone che un lavoro lo hanno già, i professori, le influencer con centinaia di migliaia di follower, le famiglie intere con bambini. Lo stesso Wissem aveva lavorato, prima di partire, sia come sorvegliante in un hotel ad Hammamet, sia in un supermercato. Guadagnava, dicono le due donne, non più dell’equivalente di centocinquanta euro al mese.
Solo nei primi dieci mesi di quest’anno, le partenze sono state quarantacinquemila, quasi novemila in più che in tutto il 2011, anno della caduta del regime di Ben Ali. Centinaia di persone sono scomparse in mare, migliaia sono state respinte. Meno di sedicimila sono riuscite ad arrivare in Italia, quasi tutte rischiando la reclusione in Cpr e il rimpatrio, in ragione degli accordi tra Italia e Tunisia.
Al di là delle loro condizioni economiche, le persone giovani che incontro in Tunisia hanno tutte un desiderio bruciante di viaggiare. Di sfidare il regime elefantiaco di visti, burocrazia e restrizioni che li separa dal mondo e limita pesantemente la loro libertà di circolazione. Questo era anche il desiderio di Wissem, «da quando era ragazzino voleva lavorare all’estero, conoscere altri paesi», spiega sua madre.
Wissem amava le belle moto, il rap, Bob Marley. La sua passione era il calcio, il suo cuore batteva per il Club Africain, una delle due principali squadre della Tunisia, quella più popolare. Stava bene, non aveva nessuna traccia di quel “disturbo schizo-affettivo” che invece gli viene diagnosticato con una sola visita l’8 novembre nel Cpr di Ponte Galeria. Questo racconta il suo profilo Facebook, questo racconta la sua famiglia.
I suoi amici, però, non possono raccontarmi nulla, perché a Kebili non ci sono più. «Sono partiti tutti – mi risponde Rania quando le chiedo dove incontrarli –. Molti prima di lui, qualcuno dopo. Anche per questo Wissem se ne voleva andare».
A Ponte Galeria il giovane aveva girato dei video per denunciare le condizioni disumane all’interno del Cpr. In quelle immagini, secondo la famiglia, sono da cercare le ragioni della sua morte. «In quei video Wissem parlava delle pessime condizioni in cui era detenuto – spiega Rania –, noi pensiamo che sia stato ucciso per questo».
Il cellulare del ventiseienne tunisino è ancora in Italia, nelle mani degli inquirenti della procura di Roma, che indaga sul caso. Il 28 novembre sarà trascorso un anno dalla morte del giovane, ma per il momento non ci sono novità di rilievo, come fa sapere l’avvocato Francesco Romeo, che sta difendendo la famiglia Abdellatif. «Sappiamo soltanto – aggiunge l’attivista Yasmine Accardo per il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdellatif – che un nuovo pm indaga su quattro persone, per omicidio colposo e falsificazione di atti». Già alla fine dello scorso anno, un’indagine amministrativa della regione Lazio aveva evidenziato alcune gravi lacune all’interno della documentazione medica prodotta su Wissem durante il ricovero al San Camillo.
Per i familiari, intanto, l’attesa di risultati tangibili diventa ogni giorno più difficile. Si sentono dimenticati da media e istituzioni italiani, dicono, per non parlare di quelli tunisini. A Henda è stato sconsigliato di continuare a lavorare, in ragione della sua condizione psicologica. Con il padre di Wissem, che incontro di sfuggita, non parlo, ma parlano per lui i suoi occhi stanchi e forse rassegnati.
Rania e Henda si dicono pronte, comunque, a intervenire in dibattiti e incontri, a conoscere attivisti, ad andare in Italia, se necessario a sensibilizzare sulla storia di Wissem. L’importante, dicono, e che la ricerca di verità e giustizia faccia concreti passi in avanti. «Per Wissem, e perché la sua storia non si ripeta». (giulia beatrice filpi)
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